Attualità

Ringraziate Nicolas Cage

Era in 3D prima che il 3D tornasse di moda; un meme prima che i meme avessero un nome (in più ora piscia fiamme)

di Violetta Bellocchio

Nel 2009, trovatosi di fronte al film Segnali dal futuro e constatando che era piaciuto solo a lui, il critico Roger Ebert elogiava gli sforzi del protagonista Nicolas Cage, che definiva un attore con due marce: «intenso, e ancora più intenso». L’anno scorso, parlando di Ghost Rider, il blogger Mathew Buck di marce gliene concedeva tre: «eccentrico, pazzo fottuto, film di Walt Disney».

Pochi giorni fa arrivava nelle sale italiane Ghost Rider: Spirito di vendetta. Il sequel. Lo distinguete dal capostipite perché è in 3D, perché molto sembra calcolato a tavolino per risultare “ironicamente” eccessivo, perché c’è un abbozzo di trama, perché il Diavolo non lo fa più Peter Fonda, e perché, a questo giro, Nicolas Cage piscia fiamme.

Era qui che volevo arrivare. Chiudete la porta, prendete una sedia.

 

Punto primo. Nicolas Cage, ormai da anni, ha perso ogni possibilità di risultare “credibile” durante una scena. Quanti anni? Molti anni. Nell’ultimo film dove gli toccava più o meno mimare un comportamento da vicino di casa, The Family Man, 2000, ci trovavate comunque in mezzo la scena della torta. (Da cui il video virale Nicolas Cage Wants Cake.) Oggi lui, di base, esiste come idea. Per cui non esisteranno interpretazioni di Nicolas Cage; esisteranno accozzaglie di scene dove Nicolas Cage fa qualche cosa, momenti slabbrati che forse alla fine trovano un senso solo se accettiamo che ci stia passando davanti un’intera vita condensata in 90′. Lui ne è convinto. Di fronte a chi – e questa sì è un’ottima definizione – definiva il suo stile mega-acting, perché si può andare “sopra le righe” solo se di quelle righe si accetta l’esistenza e la legittimità, Cage rispondeva: «life can be mega». Portarne sullo schermo i momenti più eccessivi significa rendere giustizia a un senso di autenticità umana che altrimenti verrebbe a mancare, e onorare un desiderio crescente di “non prendere la strada più comoda”.

Punto secondo. Non a sorpresa, Nicolas Cage ha prodotto un lungo elenco di meme. Pare destinato solo a crescere col passare del tempo. Dico «non a sorpresa» perché soltanto la cultura del frammento fuori contesto poteva abbracciarlo, trovare in lui un vero eroe e un vero essere umano. Valutare il suo approccio circense alla recitazione – Cage è il Daniel Day-Lewis delle masse a cui appartengo – come un modo indelebile di lasciare un segno nella coscienza altrui, di portare gioia e intrattenimento quasi eterno. E quindi, a noi qualsiasi decisione lui abbia mai preso sulla strada dell’eccesso sembrerà altrettanto valida. E lui non solo difenderà The Wicker Man (presto: «not the bees! not the bees!», HOW DID IT GET BURNED, Nicolas Cage vestito da orso prende a pugni in faccia una donna), ma dirà che ne girerebbe un sequel anche domani. In Giappone.

(Punto terzo. State parlando con un’adulta che si organizzò un fine settimana attorno a un multisala unto di Genova per vederci Drive Angry: Girato in 3D insieme agli amichetti, ricavandone in cambio the accountant e la scena dove Nicolas Cage beve nel teschio; trattasi comunque di film che l’eroe accettò di girare solo quando il regista accettò di inserire una scena a cui gli veniva sparato via un occhio; trattavasi, quest’ultima, di una curiosità personale del Cage, un desiderio di mettersi alla prova fisica con quell’effetto speciale, e lui aveva cercato invano di far inserire quella scena nel film che stava già girando lì e allora. Essenziale, come ogni notte, è redistribuire le colpe.)

Punto quarto. Tempo fa, per parlare di Chuck Testa, avevo diviso i meme in due rozze e inadeguate categorie: i meme involontari, quelli dove diventa virale un’immagine, una frase, un gesto, un protagonista che non sa di essere registrato, oppure qualcosa che sta andando molto storto; e i meme volontari, quelli calcolati, in una certa misura, per essere condivisi all’impazzata. (Per andare e moltiplicarsi, se volete. Io voglio.)

Nicolas Cage fa parte di entrambe le categorie.

Da un lato c’è una persona eccezionalmente ricca, con qualche guaio col fisco, oggi, ma con alle spalle anni di privilegio che l’hanno reso, in breve, invulnerabile, e quindi determinato ad attraversare la vita come farebbe un supercattivo – il nuotare in mezzo agli squali, le case acquistate a decine e ovunque, il matrimonio con la figlia di Elvis, i tatuaggi assurdi, il totale senso di impunibilità che lo porta a fare esattamente quello che vuole nel momento in cui lo vuole, anche in caso ci sia un videofonino pronto a catturare la scena, magari mentre lui caracolla forse sbronzo fuori da un club di Bucarest strillando «I’LL DIE IN THE NAME OF HONOR!» – e tu puoi solo guardare e pensare, beh, credo che sia vero, lui per l’onore sarebbe capace di ammazzarsi veramente.

Dall’altro c’è il premio Oscar Nicolas Cage, una megastar dotata di un livello di abnegazione tra il demente e il suicida, che applica a ogni ruolo la stessa foga da ultimo giorno sulla Terra, che trova tutti i suoi film belli e speciali allo stesso modo, come tacchini tirati fuori male dalla pancia della mamma, e sembra accettare qualsiasi progetto pur di non stare fermo un giorno. Un’iper-produttività maniacale che ci ha portato a Bangkok Dangerous, ma grazie alla quale abbiamo avuto Cattivo Tenente: Ultima chiamata New Orleans (presto, nell’ordine: Nicolas Cage stacca l’ossigeno alla vecchia, la scena dell’iguana, «la sua anima sta ancora ballando»). Tutte cose di cui lui è consapevole e accetta come fatti della vita, se ha accettato di comparire nello sketch Get In The Cage! accanto all’attore comico che ne fa una (discreta) imitazione, e interpretando il proprio clone. (E dopo la morte ci sarà da piantargli un paletto di frassino diritto nel cuore. E’ lui che lo vuole.)

Punto quinto. Se provocato, Cage definisce il suo approccio alla recitazione «nouveau shamanic», dicendo di averlo affinato nel corso degli anni, ma che ha fatto parte di lui quasi da sempre. E’ questa una cazzata che il Cage ha tirato fuori dal cilindro per giustificare a se stesso e agli altri di aver duettato con un cucciolo di elefante? No no. Il metodo affonda le radici in un periodo non felicissimo della sua carriera, la famigerata zona umida a cavallo tra Cuore selvaggio e Via da Las Vegas, anni che il Cage ha passato urlando e scalciando in una serie di progetti via via meno difendibili (presto, in posizione: Kiss of Death, Zandalee, Deadfall – L’ultimo inganno!) e mettendo a punto una serie di piccoli “momenti Cage”: alzare la voce di colpo a metà di una frase, sussurrare senza ragione, strabuzzare gli occhi a caso. Un guitto categoria XXX. Gli stessi anni in cui portava il repertorio in una serie di pubblicità per il mercato giapponese (unitevi a lui: I LOVE PACHINKO!), facendo le facce più stravolte di sempre, di sempre. Era obbligato per contratto? Non era obbligato per contratto.

E comunque, ci sono dei precedenti.

Recuperate Valley Girl (1983), se ancora vi manca, primo film del Cage protagonista, quando era giovane e bello, e poteva giocare al Romeo e Giulietta dei centri commerciali. E’ un film molto romantico, tra l’altro. (Sul serio, questa scena non vi emoziona mezzo secondo? Non vorreste essere seduti a quel tavolo, bere dagli stessi bicchieri? Sentire cosa si prova per davvero?) Ecco, anche lì, anche in un prodotto per adolescenti assolutamente carino e normale, Cage fa di tutto per dare nell’occhio; la peggiore versione possibile di un principe azzurro da commedia, e quindi, per la prima volta, irresistibile.

(Punto sesto. Di nuovo, state parlando con una persona che considera Segnali dal futuro “piuttosto avvincente”, e che, su richiesta, può offrire almeno quattro ragioni per cui “un’estetica da bollettino dei Testimoni di Geova” è un motivo in sé valido e degnissimo di mettere in scena la fine del mondo.)

 

Nicolas Cage era in 3D prima che il 3D tornasse di moda; Nicolas Cage era un meme prima che i meme avessero un nome. E per questo, se non altro, gli dobbiamo essere eternamente grati.