Attualità

Ridere con lo schiavista

Paul Beatty ha appena vinto il Man Booker Prize per Lo schiavista (Fazi). Ci ha parlato di scrittura comica nell'era di Trump, autoironia e battutismo sul web.

di Alcide Pierantozzi

Quest’intervista è stata realizzata in Porta Venezia, a Milano, nella hall dell’Hotel Djana Majestic. Avevo una vaga idea di chi fosse Paul Beatty perché anni fa avevo letto qualche pagina del suo Sluberland (Fazi, 2010), e non mi aveva detto granché. Di The Sellout, suo fortunato romanzo che ha appena vinto il Man Booker Prize 2016 – «la satira più brillantemente stravagante dell’anno» ha scritto il New York Times – me ne ha parlato con entusiasmo Percival Everett tempo fa, a fronte della richiesta di dirmi quali fossero, oltre ai suoi, i romanzi afroamericani più interessanti sulla scena e, perché no, i più divertenti.

Lo schiavista, così si intitola nell’edizione italiana appena pubblicata da Fazi, è in effetti quanto di più snark (diciamo che un sinonimo potrebbe essere “southparkiano”) mi sia capitato di leggere dai tempi di Barney Panofsky (fatte salve le dovute differenze di proporzione). Una lettura ricca di scosse elettriche, di intelligenza. La trama è presto detta: un nero della lower-middle class, nato in un ghetto della periferia di Los Angeles, dopo tutta una serie di sfighe e umiliazioni subite – sempre quelle – arruola Hominy Jenkins, ex protagonista della serie Simpatiche canaglie oramai caduto in disgrazia, e decide di ripristinare la segregazione razziale nel ghetto.

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Com’è ragionevole che sia finisce davanti alla Corte suprema dove, non prima di essersi acceso un pantagruelico cannone, prova a spiegare a Vostro onore perché per la prima volta in vita sua non si senta per niente colpevole, pur trovandosi sotto processo e a un passo dalla gabbia. Suo padre, tanto per fare un nome: se fosse tutta sua la colpa? Se fosse stato proprio papà, delizioso personaggio à la Augusten Burroughs, il responsabile delle azioni scellerate del figlio? Prima di morire in una sparatoria, racconta l’innominata voce narrante, è stato un sociologo di spicco e obbligava il bambino a fargli da cavia per certi esperimenti sulla razza… Sono queste le strambe, antikafkiane mi verrebbe da dire, atmosfere di Paul Beatty, scrittore dal piglio deciso e dalla fantasia convulsa.

ⓢ Cannabis a parte, che mi hai detto di non fumare nonostante tu ne faccia per tutto il libro un’apologia vera e propria, come ti sei documentato per il personaggio del padre, che mi sembra magnifico?

[Chiedere a uno scrittore come si sia documentato su una certa cosa significa voler evitare a tutti i costi la domanda “è biografico?”, lo so. Paul, dal canto suo, riflette moltissimo prima di rispondere, perché mi ha colto in fallo; si guarda attorno, dice “Yeah, yeah”, si toglie gli occhiali e alita su una lente. È un bellimbusto alto e sportivo, casual nell’abbigliamento, e più che di uno scrittore ha l’aria di un maratoneta.]

Ho fatto un dottorato in psicologia, ma sai, più che da mio padre viene tutto da mia madre. Era matta.

ⓢ Quanto matta?

Più che altro aveva dei sistemi educativi folli. Legava a me e mia sorella il braccio destro dietro la schiena perché diventassimo mancini, così da sviluppare l’encefalo destro del cervello e diventare, secondo lei, più intelligenti.

ⓢ Beh, c’è riuscita. Hai appena vinto il Man Booker Prize.

Yeah, ma con i giapponesini, come la mettiamo?

ⓢ In che senso?

Mia madre voleva anche che io e mia sorella fossimo dei bei giapponesini, capisci? [Qui si spreme  gli angoli degli occhi con le lunga dita nervose] Yeah, yeah. Dovevamo mangiare con le bacchette e fare l’inchino, cose così.

ⓢ A me questa cosa fa molto ridere, Paul. Mi stai dicendo che per tutto il tempo di lettura del tuo libro ho riso sulle tue disgrazie? Ti dà fastidio che ti considerino solo un romanziere comico, posso capirlo.

A dispiacermi non è che Lo schiavista sia considerato solo un romanzo comico, cosa che va benissimo, per carità, perché tutti, da Philip Roth al grande Mordecai Richler, hanno scritto cose divertentissime ironizzando sulla propria razza. Mi dà fastidio la parola “satirico”, quello sì. Yeah… mi fa veramente incazzare, perché… Yeah, yeah

ⓢ Non capisco cosa c’è che non va nel satirico.

No, sai. Ci sto riflettendo adesso. È la prima volta che mi fanno questa domanda, se mi dà fastidio che sia solo un romanzo da ridere. Allora mi è venuta in mente quell’orrrrrribile parola, satirico…

2016 National Book Critics Circle Awards

ⓢ E?

E sì, yeah, quella me ne dà parecchio. Non so perché… è una parola che ha delle implicazioni troppo profonde… sei la prima persona che me lo chiede.

ⓢ Non sarà che quello che è successo con Trump ti ha fatto un po’ rivedere, diciamo così, la nozione di comicità? L’hai seguita l’ultima tranche delle elezioni?

Sì, mi sono divertito tantissimo. Può pure essere che io abbia riso molto, di nascosto. Hai presente Peter Sellers in Dottor Stranamore?

ⓢ Che c’entra?

Era un mezzo buffone ma di buon cuore, quello lì. Capisci cosa voglio dire? Ora invece siamo immersi nella retorica più totale. E poi Trump, Trump, Trump, Trump! È incantatorio già il nome, come un rap, non senti? Bleah. Anche in Italia. Prima ho acceso la tv, qui in albergo, e di chi si parla? Di Trump. E senza dare alcuno spazio a quella poveretta di Hillary Clinton, oppure riservandogliene uno minuscolo. Può pure essere che io abbia riso parecchio, ripeto. Ho smesso di ridere solo quando ha vinto.

ⓢ Ecco, allora avevo ragione, non sai più su che cosa sia giusto far ridere la gente, vero?

Yeah.

ⓢ Non ho capito se adesso vivi a Los Angeles, dove è ambientato Lo schiavista. Mi piacerebbe capire come è stata presa lì la vittoria di Trump.

Guarda, Los Angeles ormai esiste solo nella mia testa, nei ricordi, non ci vivo più da un secolo.

ⓢ Come quella canzone! We’ve got a conclusion, and I guess that’s something, so I ask you: What the hell am I doing drinking in L.A. at 26?. La conosci? È “Drinkling in L.A.” di Bran Van 3000, ci sono cresciuto e me l’hai fatta tornare in mente adesso!

Ma io non la conosco! Prendi l’iPhone, fammela sentire.

ⓢ Visto che abbiamo tirato fuori l’argomento del satirico e della comicità, mi sai dire tu quali altri scrittori neri fanno qualcosa di simile, diciamo con l’autoironia?

Non sono certo stato il primo: c’è stato Frank Ross, e poi Zora Neale Hurston! Everett stesso…

The Duchess Of Cornwall Presents The 2016 Man Booker Prize

ⓢ Scrivere cose intelligenti che facciano anche ridere è difficile?

Oh sì, per me poi, che vengo dalla poesia, tutte le parole sono importanti. È la poesia che mi ha insegnato a far ridere, se in qualche modo ci riesco. Scrivere cose divertenti è una cosa che richiede molto lavoro e tantissimo tempo, non c’è trucco ma richiede tantissimo tempo.

ⓢ I social traboccano di ironia… secondo te gli utenti ci buttano tutto questo tempo prima di scrivere?

Ma infatti pensa che anni fa, quando ho cominciato a frequentare certi blog in rete o i social, mi era ritornata una sorta di fede nel mondo, una specie di fiducia. Tutta quella ironia, quella freschezza, quelle battute. Ma anche in Italia c’è così tanta ironia in rete? Il circuito è fatto di tutte quelle battute?

ⓢ Direi di no. Se mi dici che questa ironia del web ti aveva restituito fiducia nel mondo, allora ti rispondo che no, in Italia non esiste.

Non ce le avete le dick pics?

ⓢ Prego?

Le foto del pisello che si mandano in giro, dai.

ⓢ Sui siti di incontri, vuoi dire?

No, anche su Facebook. È una cosa che in America sta spopolando.

ⓢ Vuoi dire che è una nuova moda, come le sneakers colorate degli artisti newyorkesi?

Non è una moda, è un simbolo.

ⓢ Di che cosa?

Anche Trump in un certo modo si è fatto una foto del cazzo, e sai però a chi l’ha spedita?

ⓢ A Miranda?

Macché! Al mondo intero.