Attualità

Ricordatevi di Elliott

Una delle leggende (oscure) degli anni Novanta, Elliott Smith fu un talento atipico, un'icona dell'indie rock che diceva di sé «non sono la persona adatta per diventare importante e famoso».

di Federico Leoni

Qualcosa, o qualcuno, rischia di andare perduto nel dilagante spirito revival degli anni Novanta. Quel decennio, chi l’ha vissuto lo sa, è stato un periodo già di per sé nostalgico (non fatevi distrarre dalle sirene della new economy!), dove tutto sembrava preso in prestito: le magliette Levi’s con i bottoncini, mutuate da genitori più o meno hippie, le giacche militari alla John Lennon, i pantaloni di vera (o finta) pelle uguali uguali a quelli di Jim Morrison. Era un’epoca ricca di entusiasmo per tutto ciò che veniva dal passato, ma le reliquie degli anni Ottanta e Settanta arrivavano in quel presente affamato di mode ormai prive di energia, come opachi pezzi di vetro trascinati a riva da fiacche ondate di risacca. Qualcosa nacque in quegli anni, ma poco o nulla venne a compimento. Sembrava che anche le novità più sorprendenti non fossero che un assaggio di qualcosa che si sarebbe manifestato pienamente solo nei decenni successivi: i telefoni cellulari, il web 2.0, i voli low cost e persino un nuovo modo di fare politica.

Ci sono delle eccezioni, ovviamente, molte delle quali vanno rintracciate nel mondo della musica. In quegli anni sembrava che tutto dovesse accadere in una zona circoscritta degli Stati Uniti, e più precisamente in quegli stati nordoccidentali spesso (e non sempre a ragione) associati a un’idea di umido e pioggia, di freddo e malinconia, di nebbia bassa e persistente. È qui che nasce il grunge, che qualcuno chiama – appunto – Seattle sound. Grungy, nello slang locale, significa “sporco”, e il grunge, in effetti, non fa lo schizzinoso quando si tratta di contaminarsi: ci sono gruppi più vicini al punk, come i Nirvana, c’è il rock quasi tradizionale dei Pearl Jam di Eddie Vedder, ci sono le sonorità heavy metal degli Alice in chains. Il grunge ha contorni talmente sfumati che qualcuno finisce per infilarci anche gruppi che grunge non sono: i Pixies, i Sonic Youth, gli Smashing Pumpkins. Il grunge non esiste, dice qualcuno in vena di dichiarazioni apodittiche. L’affermazione sembra giustificata dal fatto che i musicisti grunge, parafrasando la poesia di Montale, sembrano in grado di dirci soltanto ciò che non sono, ciò che non vogliono. Rifiutano i suoni sintetici tanto di moda negli anni precedenti, condannano il degrado che stava soffocando una parte d’America, dipingono a tinte livide gli effetti devastanti dell’abuso di droghe (e poi, ovviamente, cadono essi stessi nella trappola). È possibile che a fare del grunge quello che è sia proprio il periodo in cui è sorto. Il grunge è la musica degli anni Novanta, tanto che – pur estendendo la sua influenza fino ad oggi – alla fine di quel decennio si spegne in un tramonto inevitabile.

Il grunge ha contorni talmente sfumati che qualcuno finisce per infilarci anche gruppi che grunge non sono: i Pixies, i Sonic Youth, gli Smashing Pumpkins. Il grunge non esiste, dice qualcuno in vena di dichiarazioni apodittiche.

E poi c’è lui. Elliott Smith, voglio dire. Gironzola da quelle parti, ma costeggia il genere senza alcuna voglia di farne parte. Come tutti i grandi sa respirare l’aria che tira rimanendo se stesso. Ho pensato a lui nei giorni successivi al suicidio di Robin Williams. Mi sembrava che un filo sottile li legasse, in uno di quei parallelismi involontari che intrecciano certe vite, apparentemente distanti. Non so se sia vero che nulla accade per caso, ma in quegli stessi giorni mi sono trovato davanti l’anteprima di un documentario su Elliott Smith che sarebbe uscito solo nei mesi a venire. Si intitola Heaven Adores You e contiene alcuni inediti del musicista che hanno ingolosito gli appassionati. La cosa che colpisce di più, però, è un’intervista rilasciata da Smith nel 1998, cinque anni prima di morire. Il cantautore ha capelli nerissimi che gli cadono sul viso, lo sguardo spento, una piega amara ai lati della bocca. «Non sono la persona adatta per diventare importante e famoso», dice, e lo pensa davvero. Forse si augurava la fama, ma la temeva. Forse sapeva che non sarebbe riuscito a sopportarla. Per chi apprezza la sua musica è una cosa difficile da accettare.

Qualcuno rischia di essere dimenticato nell’attuale ondata di nostalgia per gli anni Novanta, e quel qualcuno è (anche) Elliott Smith. D’altra parte era già tutto lì, anche se noi non ce ne siamo mai accorti. Un’auto malmessa inquadrata dall’alto, una striscia d’asfalto scuro, la linea di mezzeria, titoli di coda che scorrono lenti. È la scena finale di Good Will Hunting, il film che è valso a Robin Williams l’Oscar come miglior attore non protagonista, e quell’epilogo – carico in fondo di speranze – ha tuttavia il gusto dolciastro di un’elegia, la vena malinconica di un addio sussurrato. È, per così dire, il soffio delicato di una pagina che gira. Il merito, in questo caso, più che del regista Gus Van Sant è proprio di Elliott Smith, autore del brano che accompagna i titoli di coda del film (e di altri pezzi inseriti nella colonna sonora). “Miss Misery” è la classica canzone di Smith: c’è dentro qualcosa che ricorda i Beatles, echi di Simon e Garfunkel, una melodia cullante e un’atmosfera soffusa. L’avrete sentita spesso anche negli scorsi mesi, utilizzata e riutilizzata a corredo dei servizi dedicati alla scomparsa di Robin Williams: una scelta ovvia, ma anche obbligata. Ascoltandola bene si capisce già tutto. «I know you’d rather see me gone than to see me the way I am», dice Smith: «so bene che preferiresti sapere che me ne sono andato, piuttosto che vedermi nello stato in cui mi trovo». E poi ancora: «svanire nell’oblio è una cosa facile». Tanto facile che Smith ci prova e ci riesce la notte del 21 ottobre 2003, pugnalandosi al cuore con un coltello. La morte è istantanea, ma l’oblio è tutt’altro che raggiunto, visto che ancora oggi Elliott Smith suscita un’ammirazione ai limiti del fanatismo nel gruppo – relativamente circoscritto – degli appassionati.

Genitori divorziati, patrigno violento, nonno virtuoso del jazz e nonna cantante blues, l’infanzia di Steven Elliott Smith ha tutte le caratteristiche per fare del malcapitato ragazzino una leggenda (oscura, purtroppo) del rock. Smith è originario del Nebraska, ma a quattordici anni decide di trasferirsi dal padre a Portland, in Oregon. Siamo nel 1983 e ci dirigiamo spediti verso quegli anni Novanta in cui, come detto, gli stati nordoccidentali degli Usa diverranno territorio fertile per le migliori band del decennio.

Qualcuno rischia di essere dimenticato nell’attuale ondata di nostalgia per gli anni Novanta, e quel qualcuno è (anche) Elliott Smith.

Smith scrive e compone, poi fonda gli Heatmiser con Neil Gust: la loro musica è il punto d’incontro tra il grunge arrabbiato e rockettaro dei Nirvana e la musica che Elliott ha imparato dai suoi maestri: Paul McCartney, Nick Drake, Paul Simon. L’equilibrio perfetto sarà raggiunto nel 1996, con l’album Mic City Sons, ma a quel punto Smith aveva già intrapreso la carriera da solista. Solista nel senso più stretto del termine. Obbedendo alla sua inclinazione naturale, fa tutto da solo: chitarra acustica, registratore a quattro piste, drum machine. Per Smith il rock contemporaneo fa ancora troppo rumore, meglio le melodie struggenti, gli arpeggi da virtuoso, la voce sofferta, gli accordi in minore con cui intesse i propri brani. Il travaglio interiore di Elliott è evidente nei testi delle canzoni. Le sofferenze dell’anima lo attraggono fin da quando ne parlava con suo padre (quello biologico, non il picchiatore), di professione psichiatra. La vita fa il resto. Sono racconti di un’umanità in bilico: alcol, droga, sbandati di vario genere. Lo scotch è un amico molto presente (il Johnny Walker Red si guadagna una citazione esplicita in “Miss Misery”). La notorietà, quando arriva, è un abito scomodo. L’incontro con Gus Van Sant risale al 1997 e lo porta fin sul palco degli Oscar, a Hollywood, candidato al premio per la migliore colonna sonora. Elliott suona per poco più di due minuti, fasciato in un abito bianco, subito dopo Céline Dion. Non vince, e quella esibizione gli lascia addosso la certezza di essere un artista perennemente fuori posto.

Forse anche Robin Williams la pensava così: lui che aveva – o aveva avuto – le stesse amicizie pericolose di Smith: l’alcol, i farmaci, la droga. Forse la pensava nello stesso modo anche su Los Angeles, dove è impossibile «andare a casa, perché non è neppure di strada». Parole di Smith, che nel brano “L.A.” (appunto) ripete ossessivamente: «la scorsa notte stavo per buttare via tutto». Alla fine lo fa davvero, si pianta un coltello nel cuore. Qualcuno parla di delitto, ma alimentare il mistero è più che altro un modo per tributare il giusto onore a una leggenda dell’indie rock: che leggenda sarebbe senza una fine misteriosa?

L’unico colpevole, in realtà, è il male oscuro, quel sentirsi inadeguato e senza scampo.

L’unico colpevole, in realtà, è il male oscuro, quel sentirsi inadeguato e senza scampo. Considerare la depressione una malattia da vip è una semplificazione odiosa, ma il fatto che gli artisti ne siano colpiti in maniera particolarmente frequente ha un’evidenza statistica. Forse non c’è dramma peggiore che veder realizzati i propri sogni, eppure c’è dell’altro in questi geni inseguiti dalla propria fama e sempre in affanno. «Se lo chiamate scrivere canzoni», ha detto una volta Smith, «sembra una cosa di concentrazione calcolata e applicata: io non so fare musica così, non so sedermi e scrivere una canzone, vado dietro alle impressioni, cose di un minuto». Avere un talento così irragionevole, così libero e indifferente alle costrizioni della volontà, dev’essere un’intollerabile tortura per un perfezionista come Smith. Dev’esserlo stato anche per Robin Williams. Dicono ci fosse anche lui la notte del cinque marzo 1982 all’hotel Chateau-Marmont di Los Angeles, quando durante un party a base di stupefacenti John Belushi ci lasciò la pelle. «Ho avuto tanti giorni bui» ammise Williams nel 2012, in un’intervista a Repubblica, «molti così bui che nemmeno li ricordo». Ma poi aggiunse: «ora ho accettato l’idea di prendere tutto con un po’ più di leggerezza. Di apprezzare le piccole cose, perfino il mio respiro». Forse diceva la verità, forse recitava come fanno i grandi artisti, sempre in maschera e sempre con il cuore a nudo. «Non corrispondo a nessuna idea di quello che dovrei essere», disse una volta Elliott Smith. E d’altra parte «questa non è la mia vita, è solo l’addio a un amico».

Se qualcuno sarà dimenticato nell’attuale ondata di nostalgia per gli anni Novanta, vi prego: che non sia Elliott Smith.