Attualità

Raul Gardini

Vent'anni dalla morte dell'imprenditore romagnolo, suicida in piena Tangentopoli. Storia e importanza industriale, personale e innovativa.

di Michele Masneri

Una volta l’Italia produceva imprenditori molto presentabili e che facevano abbastanza sognare. Mercoledì prossimo saranno vent’anni dalla morte di Raul Gardini (1933-1993) e oggi ad uso dei più giovani vale forse ricordare la Buddenbrook romagnola del “contadino”, come da soprannome giornalistico, che scalò la Montedison e si sparò in piena Tangentopoli. È una Buddenbrook di provincia: nato ricco, col padre Ivan che possedeva centinaia di ettari sul litorale tra Ravenna e il Veneto; lui studierà agraria; e non si laureerà mai. È un bellone di campagna, alto e atletico: la moglie Idina, figlia dell’uomo più ricco di Ravenna (e uno dei più ricchi d’Italia) e sua confinante di tenute se ne innamora subito; «lo trovavo bellissimo» dice a Enzo Biagi nel 1988. Lui la conquista «facendo dei tuffi straordinari, anche ad angelo». E le chiede di sposarla un pomeriggio, prendendole la mano al cinema. Lei è molto fiera di entrare nella famiglia Gardini; nonostante siano molto meno ricchi dei Ferruzzi.

Ma è l’appartenenza grande-agricola e forse i Gardini sono più antichi o più latifondisti: e qui conta l’ettaro. Serafino Ferruzzi aveva fondato invece nel 1960 una società per la gestione di silos e magazzini, e già negli anni Settanta era il più grande importatore italiano di zucchero, mais e soia. Si dice che alla Borsa di Chicago ci si togliesse il cappello quando entrava Serafino; che muore con il suo Learjet una sera del 1979 uscendo di pista all’aeroporto di Forlì – il suo codice identificativo è I-AIFA, l’acronimo dei figli, Arturo, Idina, Franca e Alessandra. Raul impalma Idina che si immolerà completamente alla causa, rompendo poi col resto della famiglia quando nei rovesci di fortuna si schiereranno contro Raul. E, molto religiosa, sempre dopo i rovesci si farà poi terziaria carmelitana.

È «un mix tra un visionario e un guascone» dice Gianni De Michelis a Gianni Minoli. «E questo mix può portare molto lontano o anche verso la rovina».

La scalata di Gardini è veloce; prima assistente di Ferruzzi, poi prende in mano il comando della famiglia; nel 1979 compra Eridania e poi la francese Beghin-Say, diventando uno dei primi produttori europei di zucchero. Con passo poco felpato (non solo “il contadino” ma anche “il corsaro”) inizia a dare fastidio ai salotti cosiddetti buoni. Sostiene che i soldi «si trovano in Borsa, basta saperli prendere»; quota la Ferruzzi a Milano e incassa 3.000 miliardi di lire; è «un mix tra un visionario e un guascone» dice Gianni De Michelis a Gianni Minoli. «E questo mix può portare molto lontano o anche verso la rovina». Le visioni sono futuribili: utilizzare l’etanolo estratto dall’agricoltura per fare la benzina verde, con 25 anni di anticipo sull’ecologismo obamiano; fondere la chimica con l’agrindustria: scalare la Montedison che lo porta nel 1986 a scontrarsi con Cuccia e De Benedetti; mettere insieme questa con l’Eni, creando Enimont, arrivando poi a uno scontro frontale con la politica con cui non riesce mai a capirsi (il suo disprezzo vale una metafora agricola: i politici «sono come i vitelli, che non vogliono essere svezzati, vogliono il latte della madre, non vogliono imparare a ruminare», dice in televisione). Con conseguenze poi giudiziarie che si conoscono e si riveleranno fatali: estromesso dalla famiglia nel 1991, a soli 58 anni, è molto liquido ma solo, nella sua casa di palazzo Belgioioso a Milano, dove prima di essere arrestato si sparerà una mattina del 1993.

Intanto però fa in tempo a entusiasmare gli italiani con il Moro di Venezia, prima barca italiana nella storia della Coppa America ad arrivare in finale; Moro di Venezia era anche il nome di tutte le barche a vela di Raul (l’ultima, Moro di Venezia IX, è finita a un creditore testamentario qualche mese fa). È l’unico imprenditore italiano a parte Agnelli a non sembrare ridicolo in barca. In generale, è forse l’unico imprenditore italiano a reggere il confronto con l’Avvocato, anzi a batterlo. Nelle foto con lui, non ha mai l’aria di un famiglio. Non ne ha soggezione; i suoi capelli sono più argentei. Il sorriso più aperto, e i dieci anni in meno rispetto all’Avvocato (e i suoi chili in meno) si notano tutti. Agnelli con lui sembra un nonno buono, mentre Gardini all’apice del successo ha solo cinquant’anni. E Gardini si veste bene come lui; forse meglio; imitandolo, forse; coi risvolti ampissimi dei pantaloni, giacche naturalmente slacciate ai polsi, cravatte di maglia. Ma poi con qualche tocco british –i gilet coi bottoni, le coppole; forse sono solo eleganza da possidente di campagna, ma gli donano. Insomma, è più fico dell’Avvocato; e questo potrebbe aver avuto un peso, nella vicenda imprenditoriale gardiniana. Certo, è un provinciale: nelle – frequenti – interviste si sente l’accento romagnolo; ha un vocabolario limitato (la laurea arriverà solo, honoris causa e in agraria, all’apice del successo). Ma è la provincia estroversa e senza complessi degli anni ottanta, un po’ imperiale e ravennate; e non cafonal come la pur vicina Parma dei Tanzi. I figli sono belli ma non appariscenti, non finiscono sui giornali – nonostante un Christian De Sica alias Cristiano Gardini è protagonista del vanziniano Fratelli d’Italia (1989) come rampollo balneare in Costa Smeralda.

È l’unico imprenditore italiano a parte Agnelli a non sembrare ridicolo in barca. In generale, è forse l’unico imprenditore italiano a reggere il confronto con l’Avvocato, anzi a batterlo.

Niente Ville Certosa, nella realtà, invece, né vulcani finti: anzi un’estetica tutta di un perfetto made in Italy e compasso d’oro. Collaborazioni con Gae Aulenti che disegnò gli interni del Moro; e addirittura lampade da terra disegnate dallo stesso Gardini. La dotazione immobiliare è significativa: a Milano palazzo Belgioioso, a Roma il palazzo Pecci-Blunt all’Aracoeli, già residenza Borromeo del Cardinal Federigo, quello dei Promessi Sposi, poi salotto artistico-letterario con Mimì Pecci e il suo Teatro della Cometa e ospitando spesso Gide e Cocteau, Valery e Mauriac, Rubinstein e Stravinskij (e poi, più tardi, dimora molto simbolica di certi anni Ottanta con Donatella Pecci Blunt ). O gli uffici Montedison a via del Quirinale, sempre a Roma, in un ex convento secentesco disseminato da Gardini di arredi Castiglioni e Eames, con aranceto interno. Ma l’immobile più imaginifico di famiglia fu poi naturalmente Ca’ Dario, il palazzetto veneziano sul Canal Grande acquistato nel 1985 già con fama iettatoria secolare. Secondo D’Annunzio la casa si presentava come «una vecchia cortigiana piegata sotto il peso dei suoi monili» ma soprattutto aveva mietuto già diverse vittime: Marietta, figlia del committente e primo proprietario Giovanni Dario, morì nel ‘500 di crepacuore dopo il confino imposto al marito Vincenzo Barbaro. Molti dei suoi eredi morirono di morte violenta: fra questi Giacomo Barbaro, provveditore della Serenissima repubblica a Candia, che nel 1650 rimase vittima nell’ isola di un agguato. Morì nel ‘700 Arbit Abdoll, un ricco armeno che trafficava in diamanti, che acquisì il palazzo. Morì l’inglese Rawdon Brown, che nell’Ottocento spese tutti i suoi risparmi per restaurarlo, poi suicidandosi. A fine ‘800 un’altra vittima: il poeta francese Henry De Regnier. Il tenore Mario Del Monaco, che voleva comprare la casa, mentre rifletteva su rogiti e compromessi morì in un incidente stradale. Cà Dario passò poi all’americano Charles Briggs, il cui fidanzato si suicidò in Messico; e negli anni Settanta, prima di Gardini, uno degli ultimi acquirenti fu il conte torinese Filippo Giordano delle Lanze, ammazzato a colpi di candelabro da un marittimo jugoslavo poco affettuoso.

Nonostante la maledizione conclamata Gardini comprò il palazzo, lo rimise a nuovo come fastosa residenza veneziana, subito immortalata da Capital; forse perché gli Agnelli avevano Palazzo Grassi (oggi venduto) o forse perché in fondo riconosceva nella Serenissima la vera capitale, essendo fondamentalmente un uomo adriatico (e poi però in molti, nel ’93, a dire che era stata tutta colpa proprio della casa maledetta).