Attualità

Rape Culture

Atleti famosi, uomini potenti o i soliti zarri: facile condannare la violenza sessuale, quando le accuse sono contro i tipi che non ci piacciono.

di Violetta Bellocchio

Avvertimento dell’autrice: Questa storia parla di violenza sessuale e di mancato consenso. Rileggendola, ci ho messo qualche parentesi. Potete prenderle come semplici pause, oppure potete aprirle per vedere cosa c’è dentro; il materiale è stato comunque scelto per non disturbare nessuno. Ciao.

I Das Racist sono tre musicisti americani, abbastanza popolari online e nella fascia bianca di chi ascolta hip hop. Uno di loro – Himanshu “Heems” Suripartecipa a un botta e risposta pubblico sul sito Reddit per promuovere il suo ultimo progetto solista. Fila tutto liscio finché qualcuno gli chiede, «cosa rispondi a questa storia?», e segnala quanto scritto la settimana prima da un’ammiratrice del gruppo. Ecco la storia: la ragazza, anni 19, va a un concerto dei Das Racist, poi passa la sera con loro, li accompagna in albergo; a quel punto le vengono messe le mani addosso da tutti, nonostante i «no» di lei; la ragazza chiede aiuto al manager del gruppo, dicendo «ho paura» e «non voglio fare niente con nessuno», e il manager le offre di dormire in camera con lui, dicendo «puoi stare tranquilla, sono sobrio, non ti tocco». Dopo di che comincia a provarci lui. La cosa termina solo quando lei, come scrive, «pretended to be dead», ha fatto finta di essere morta.

Mentre il sito accoglie la storia con un coro a metà tra «che ragazza ingenua!» e «oh, se è vero, bello schifo», l’uomo non nega nulla. E aggiunge: «se la ragazza vuole, io sarei contento di discuterne con lei. Sono felice che lei abbia deciso di parlarne, se si è sentita maltrattata. So quanto sia difficile dire certe cose.»

[Pausa. Questo è Frank Ocean che canta Thinkin Bout You; questa invece è la sua Songs for Women, accompagnata da un video-montaggio di bici da corsa che fanno le acrobazie. Va tutto bene.]

La prima tentazione, di fronte a una storia così, sarebbe stata giocare a «Das Racist: predatori sessuali o brutte persone e basta?». La seconda tentazione, chiedersi quale fosse la novità, in un mondo dove Chris Brown manda in ospedale la fidanzata e tempo un anno la versione accettata da molti è «lui l’ha picchiata, ma lei l’ha provocato». (E la tentazione di chi scrive, e gradisce il genere musicale in questione: alzare gli occhi dallo schermo, voltarsi verso Drake e dirgli, Drake, spero di no, ma – da quanti anni è che sei in giro? Ci sta che la prossima volta tocca a te.) In questo caso però la storia non è stata riportata affatto. Qualcuno direbbe che è successo perché “mancava la notizia”; perché la vittima è uscita da quella stanza senza gli abiti stracciati e gli occhi pesti con cui i quotidiani amano arredare le inchieste sullo stupro, quando cercano la foto più adatta.

Faccio un’altra ipotesi: c’è stato un problema di protagonista. Se la stessa storia fosse venuta fuori lo stesso giorno, ma avesse avuto al centro un personaggio già noto per quelle che alcuni chiamano uscite infelici nei confronti delle donne (ad esempio Tyler, the Creator), in trenta secondi i vostri social network preferiti sarebbero esplosi, e la frase introduttiva più blanda sarebbe stata «gravi accuse contro…». Stavolta l’unica che ci ha rimesso è stata la donna, insultata e derisa dopo che la sua storia è stata ripresa da Reddit (no, non ce l’aveva messa lei); per il resto vai di indulgenza, trattandosi di musicisti alternativi con una piccola credibilità. Uomini con un’immagine da festaioli giocherelloni, e forse anche per questo una ragazza di 19 anni si sentiva sicura, nel passare del tempo da sola con loro.

Certe ragazze sono tanto ingenue.

Li ha seguiti in albergo; cosa pensava che potesse succedere?

[Pausa. Questo è Blaine Anderson che fa un po’ di facce buffe. Va tutto bene.]

Un simile miscuglio tra silenzio omertoso e commenti aggressivi è un esempio di quella che si definisce rape culture, cultura dello stupro. Il processo cognitivo istantaneo per cui, di fronte a un possibile reato contro la persona, la reazione della maggioranza non è «certe cose non si fanno», e nemmeno «lasciamo lavorare la magistratura», ma è la ricerca di attenuanti per il presunto colpevole. Ricerca magari condita dalla frase «sono tutte puttane e io ho il diritto di dirlo, nessuno può censurare la mia libertà di espressione».

Ah, il diritto alla libertà di espressione. Andiamo, forza.

La cultura di massa in cui viviamo non ha ancora risolto il problema morale del mettere in dubbio la lucidità di una vittima; la fase autopsia dei fatti di cronaca, se volete, dove ogni soggiorno diventa l’anticamera di Law & Order, e sono gli stessi poliziotti buoni a mettere coperte sulle spalle della vittima, a dirle non possiamo portare in tribunale la tua storia, la difesa ti farà a pezzi, mi dispiace, tesoro. Mi dispiace. Non abbiamo ancora superato questo, ed ecco che arriva la libertà d’espressione; per cui lo stesso Reddit è il posto dove fino a cinque minuti fa esisteva la sezione jailbait, dedicata a postare foto di ragazze minorenni, tutte foto rubate o scattate per strada, e c’è stato bisogno che la CNN minacciasse di mandargli i carri armati in casa per farla chiudere, e loro non l’hanno chiusa dicendo «bene, ci siamo divertiti, adesso basta», l’hanno chiusa dicendo questo è un gravissimo attentato alla democrazia di Internet. (Infatti il contenuto pedo-pornografico cacciato dalla porta è rientrato dalla finestra.) È il principio per cui qualcuno si sente del tutto al sicuro e nel giusto, pubblicando su Facebook foto di ragazze in minigonna, con la didascalia “questa qui sta pregando di essere violentata“.

Facebook: altra culla dorata dove nascono gruppi di interesse quali Non è stupro, è sesso gratis, e a volte nemmeno le petizioni da un milione di firme li fanno chiudere, perché Facebook non intende porre alcun limite all’umorismo individuale. (Come se io scrivessi «il problema di Pol Pot è che pensava troppo in piccolo», e poi questionassi sul numero esatto di faccine ridenti per correggere il tiro.) Un clima che ci porta al protagonista dell’episodio di oggi; un uomo di quasi trent’anni, messo davanti alla trascrizione di quello che ha fatto e di quello che ha visto accadere senza intervenire, risponde con «oh, possiamo parlarne – se lei si è sentita maltrattata…». E io a casa fisso lo schermo e dico, «scusa, ma come credevi che si sentisse, bene accolta? Tu credi che chiedere aiuto ripetendo “ho paura” e “non voglio” significhi fare la difficile? E offrendole diritto di parola a bocce ferme, cosa vuoi: dei punti extra per la sportività, oppure passiamo direttamente alla medaglia perché potevi ammazzarla, ma non l’hai fatto

[Pausa. Questo è Gene Kelly che balla il tip tap sui pattini a rotelle. Va tutto bene.]

In diversi paesi, oggi, esistono campagne anti-violenza che spostano l’attenzione sulla responsabilità positiva degli uomini. Campagne con slogan quali “la mia forza non è per fare del male, oppure “don’t be that guy“, “comportati meglio”. Esistono anche i modelli concreti, facili da trovare: uomini famosi che hanno usato la loro visibilità a favore della causa. Magari servissero a qualcosa. Magari. Secondo quanto raccontò sua moglie Kathleen Hanna nel 2009, Adam Horowitz dei Beastie Boys fu quasi picchiato lui, per aver detto «noi musicisti dobbiamo rendere i concerti più sicuri per le donne», all’indomani degli stupri tra il pubblico a Woodstock 1999. Messaggio recepito: bravo Adam, hai voluto fare il figo, hai rovinato la festa a tutti. E tra l’altro, all’epoca – ve lo giuro, ero viva quando è successo – l’unico “grosso errore” da parte degli organizzatori di quel festival veniva individuato nell’avere messo in programma “musicisti troppo commerciali”. Si diceva, «cosa pretendi, hanno aperto le porte agli zarri, per forza che quelli là».

[Pausa. Questo è Darren Criss con lo smalto sulle unghie. Va tutto bene.]

Ecco, vedete, parecchi dei vostri uomini – i vostri amici, i vostri compagni, i vostri colleghi – sanno esattamente cosa dire e come dirlo, quando le accuse di reati sessuali cadono su qualcuno di quelli là : miliardari, dirigenti d’azienda, idoli della destra, atleti famosi. (Ultimo: Ched Evans, calciatore gallese in prigione per stupro, mentre sono stati condannati a pagare una multa nove tra amici e parenti di lui, che hanno diffuso il nome della vittima sui social network.) La discussione online può prendere una brutta piega, certo, ma i vostri sanno cosa dire. I calciatori sono delle bestie. Quelli là sono abituati a prendere senza chiedere, ci credo che poi aggrediscono le donne. È il potere, li rovina. Ma quando tocca a uno di quelli che a loro piacciono, un artista, un musicista, un intellettuale, un attivista, oh, quando è uno dei loro, là scattano le sfumature, gli argomenti, i «sì, ma…» e i «no, devi capire…». I dubbi. Le riserve. I distinguo. Ci ha solo provato. Siamo sicuri? Là fuori è pieno di pazze. C’è differenza tra violenza-violenza e abuso di minore. In fondo non è mica morta.

[Qui mi fermo, e racconto la storia dei Das Racist a mio padre. Lui dice, «un uomo deve stare attento, perché se continua a toccare una donna dopo che lei ha detto no, si è messo su una strada che porta allo stupro». Mio padre: anni 76, pessimo guidatore, estimatore di Walker Texas Ranger. Non è uno che ha passato la vita dicendo «io sto dalla vostra parte, care signore!». Lui è solo un vecchio. E forse a loro, ai vecchi, veniva in qualche modo fatto passare il messaggio; che se superi un certo limite parole come «diritto» e «libertà» non si applicano più a te. Non tanto, almeno. Forse è perché una volta non c’era Facebook.]