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Dieci modi per dire “radical chic”

Va bene prendersela con l'élite liberale. Però con un po' di varietà linguistica e cognizione di causa.

di Anna Momigliano

radical chic Leonard Bernstein principessa di Monaco

Leonard Bernstein con Carolina di Monaco nel 1976 (Afp/Getty Images)

Il nemico del popolo è stato identificato: è l’élite liberale e buonista, pro-diritti umani e civili, rea di simpatizzare con gli immigrati e dunque, per un sillogismo bizzarro, di “non pensare agli italiani”. L’appellativo più comune per additarli questi nemici del popolo è “radical chic”, e poco importa se si vestono malissimo o se le opinioni che esprimono sono tutt’altro che radicali. Poco importa, soprattutto, che nella sua concezione originale “radical chic” significasse tutt’altra cosa. Per chi avverte l’esigenza di attaccare l’élite liberale sì, ma con un po’ di varietà e magari conoscendo i significati di certe espressioni e il contesto in cui sono nate, ecco dieci modi per dire “radical chic”.

1. Radical chic

Nell’Italia di oggi viene utilizzato per prendere in giro chi esprime opinioni di sinistra (non necessariamente radicali) ma è ricco, dunque si presume capisca poco della vita del popolo. Ma l’espressione è nata in tutt’altro contesto, l’ha coniata Tom Wolfe in uno dei suoi articoli più celebri: “Radical Chic: That Party at Lenny’s”, pubblicato dal New York nel giugno del 1970 e che potete leggere online. Wolfe raccontava di una festa a casa di Leonard Bernstein, il celebre direttore d’orchestra e compositore, che per rendere più interessante una serata al suo attico di Park Avenue invitò tre militanti delle Pantere Nere. Uno di questi era Robert Bay, la guardia del corpo personale di Huey Newton, il fondatore delle Pantere, che viene descritto mentre accetta impacciato una pallina al roquefort da un cameriere in livrea. Quello che Wolfe prende in giro è il desiderio di un’élite (un’élite vera, è Leonard Bernstein, mica un professore del liceo con la maglietta rossa) che si diletta nel mettere in mostra conoscenze e simpatie radicali (le Pantere Nere a cena, eh, non un video di Calenda su Facebook), con il sospetto di usarle per farsi fighi.

2. Gauche caviar

Neologismo francese diffuso dai primi anni Ottanta, in Italia viene utilizzato come sinonimo di “radical chic”. Ma il contesto in cui questa espressione è nata, e dunque le persone a cui si riferisce, è molto diverso. La gauche caviar parigina sarà anche snob quanto i radical chic newyorchesi, ma non è mica così radicale. I primi a sentirsi apostrofare così sono stati François Mitterrand e i suoi, socialisti di governo più che di lotta, e l’epiteto è stato utilizzato per additare moderatissimi social-democratici e (scandalo!) persino blairiani. Poi, la gauche caviar mangia caviale, mica palline al roquefort, roba che può sembrare sofisticata solo a qualche nouveau riche americano di quarant’anni fa.

Bernstein pantera nera radical chic
Leonard Bernstein con la moglie e  Donald Cox delle Pantere Nere (Afp/Getty Images)

3. Champagne socialist

Per restare in tema enogastronomico, agli inglesi piace sfottere la loro élite progressista rinfacciandole di bere champagne. Non sappiamo esattamente le origini di questa espressione, però sappiamo che nel Regno Unito è spesso utilizzata con un’accezione diversa da quello che si tenderebbe a pensare in Italia: è la sinistra più radicale a dare dei “socialisti da champagne” alla sinistra più moderata, e in particolare ai membri delle classi medio-alte londinesi che votano Labour, come a sottolineare che non sono socialisti veri.

4. Bollinger Bolshevik

È una variante, sempre inglese, dello champagne socialist. Solo più specifica (o forse Bollinger è la parte per il tutto, tipo sineddoche), radicale (bloscevichi!) e allitterante (vedere anche alla voce Bourgeois Bohémien più sotto). Invece la variante australiana di “champagne socialist” è “chardonnay socialist”: presumibilmente lo chardonnay per gli australiani sta allo champagne per gli inglesi come il roquefort per gli americani stava al caviale per i francesi.

5. Limousine liberal

È un’espressione americana, originariamente coniata negli anni Sessanta ma popolarizzata nuovamente da un libro recente. Il primo a usarla, così almeno si racconta, fu Mario Procaccino, il candidato populista a sindaco di New York (correva l’anno 1969). Due anni fa invece Steve Fraser, lo storico e politologo, ha pubblicato un saggio che ha contribuito a riportare quest’espressione in voga, intitolato The Limousine Liberal: How an Incendiary Image United the Right and Fractured America.

6. Latte liberal

È una variante, sempre americana, del limousine liberal. Dove “latte” sta (più o meno) per caffelatte, o più precisamente quella bevanda composta da caffè lungo e schiuma di latte in stile cappuccino che in America è associata, a torto o a ragione, a uno stile di vita urbano, dunque liberal, dunque più o meno benestante. All’identificazione tra caffè sofisticato ed élite culturale (ma non necessariamente economica) ha dedicato molto spazio la sociologa Elizabeth Currid-Halkett nel suo saggio Una somma di piccole cose. La teoria della classe aspirazionale , uscito in Italia nel 2018 ed edito da FrancoAngeli.

7. Salonkommunist

È un’espressione tedesca declinata anche in “Salonbolschewik” e “Salonbolschewist”. I comunisti da salotto sono i figli della buona borghesia tedesca che, nell’immaginario della destra o della sinistra che si sente più vera, leggono troppo Marx, o lo leggono senza capirlo. Questa terminologia ha conosciuto una discreta fortuna negli anni Sessanta e Settanta ed oggi è considerata un po’ desueta.

8. Red set

L’espressione, pare, sia stata inventata in Cile, ma non bisogna essere esperti di politica latinoamericana per capire che è una storpiatura dell’anglofono jet set. Proponiamo di utilizzarlo anche in Italia al posto di “radical chic”.

9. Esquerda Ballantine

Navigando online, abbiamo scoperto che in Brasile esiste questo modo di dire che si sovrappone al più prevedibile “Esquerda caviar”. Del resto un po’ di whisky ci voleva.

10. Bourgeois Bohémien

Nel 2000 David Brooks, il commentatore del New York Times meglio noto come il Repubblicano più amato dai Democratici dopo John McCain e  snob di professione, ha pubblicato, diciotto anni fa, un libro che in America fu un successo. In Bobos in Paradise, dove “bobo” era la crasi di bourgeois bohémien (però, chissà, potrebbe diventare anche una crasi per Bollinger Bolshevik), Brooks faceva un ritratto di una certe élite cultural-economica, borghese nel portafoglio, ma bohémien nell’anima, che nell’Italia di oggi verrebbe facilmente bollata di essere radical chic.