Attualità

Rabbini e cattivi ragazzi

In 40 mila per manifestare contro internet, Facebook e le feste : viaggi nell'ebraismo ultra-ortodosso

di Anna Momigliano

Tra i miei feed di Facebook, le foto di neonati spuntano piuttosto frequentemente, tra decine di like e altrettanti commenti che dicono tutti più o meno la stessa cosa: Mazal Tov! Spesso le madri sono giovanissime – curiosando tra un profilo e l’altro, scopro che una delle mie “amiche” di FB è nata nel 1990 e si è sposata tre anni fa: se c’è una categoria antropologica che si accasa presto e sforna tanti pargoli, questi sono gli ebrei ultra-ortodossi.

Quel poco che so della vita privata degli ultra-ortodossi lo so grazie a Facebook e YouTube. Intendiamoci, ho vissuto a Gerusalemme, dove gli ultra-ortodossi sono onnipresenti, eppure per me – donna, laica ed europea – è rimasto un mondo virtualmente impenetrabile, gente che si incontra sull’autobus o in coda alle poste ma che non fa veramente parte della tua quotidianità, fino all’avvento dei social media. Grazie alla creatura di Zuckenberg annovero un discreto numero di ortodossi e ultra-ortodossi (se fossimo in America userei il termine, abbastanza in voga, “modern orthodox”) tra i miei “amici,” tutti conosciuti per vie neppure troppo traverse – un paio di ex compagni di studi che avevo perso di vista e che poi sono diventati religiosi, qualche parente molto alla lontana, amici di amici, roba da procedura standard. A questo punto incuriosita, ho scoperto su YouTube“Jew in the City,” lo one woman show di una matrona trentenne con un fondotinta male assortito, quattro pargoli e una parrucca a caschetto: se volete sapere perché le donne ultra-ortodosse indossano la parrucca, fatevelo spiegare direttamente da lei.

Riassumendo: è un mondo con cui non avrei avuto il minimo contatto se non fosse per i social media, e immagino questo non valga soltanto per me. Ed è proprio per questo che, in un primissimo momento, non ho saputo come reagire quando ho scoperto che era stata organizzata, per domenica scorsa, una grande manifestazione ultra-ortodossa “contro internet”.

Quaranta mila persone (quaranta mila!), tutti rigorosamente maschi, riuniti al Citi Field Stadium del Queens. Pare un rabbino abbia detto:“Internet e le nuove tecnologie hanno portato il popolo ebraico ai più bassi livelli dopo la distruzione del secondo tempio a Gerusalemme nel 70 d.c”.

Lo stupore è durato pochi secondi, tuttavia.

Scorrendo brevemente alcuni nomi degli organizzatori ho cominciato a capire come stavano le cose: tra i promotori dell’evento, per intenderci, c’è la comunità Satmar di Brooklyn, i famosi “rabbini antisionisti” famosi per litigare con quasi tutte le altri correnti ultra-ortodosse perché le considerano troppo moderni (attenzione però a non confonderli con i rabbini che hanno stretto la mano ad Ahmadinejad: quelli sono i Neturei Karta, sono antisionisti pure loro, ma è un’altra cosa…). L’arcano era presto velato: la grande manifestazione anti-internet non era promossa da tutte le comunità ultra-ortodosse di America, ma soltanto dalle frange più estremiste, che spesso e volentieri sono in guerra contro gli ultra-ortodossi, be’, più mainstream.

Ora, il copione l’avrete già visto: quando si diffonde la notizia dal sapore medieval-oscurantista che riguarda una minoranza etnica o religiosa, subito ci si precipita a puntualizzare che è solo “opera di una minoranza estremista,” perché gli altri, la maggioranza silenziosa, sono bravi e belli. Non vorrei, insomma, scadere nel mantra del politicamente corretto, però il caso della mega manifestazione anti-internet, messo in contrasto con il cyber attivismo di un’altra fetta della comunità ultra-ortodossa è una dimostrazione di quanto variegato sia questo mondo.

Che non sempre è così chiuso come si tenderebbe a pensare.

Wonderland: A Hasidic Guide to Love, Marriage and Finding a Bride è un documentario girato da Paddy Wivell per Bbc 1. Il filmaker, un tizio uber britannico che nel suo profilo twitter si definisce “proud daddy, makes telly, loves cricket” e che non compare mai in video, esplora Stamford Hill, il quartiere hassidico di Londra (i hassid sono una corrente dell’ultra-ortodossia che pone un forte accento sulla mistica e la gioia di vivere, presenti i quadri di Chagall con i rabbini che ballano? ecco, quelli lì).

Quello di Wivell non è un viaggio in un mondo misterioso e apparentemente ostile. Nulla a che vedere con le atmosfere da Una Estranea tra di Noi, il poliziesco in cui una detective wasp (Melanie Griffin) viene messa sotto copertura in una casa hassidica di New York, e tutti la guardano un po’ storta: è l’ennesima storia del personaggio all-American che riesce a farsi accettare da una comunità che non vorrebbe accettarlo, ma solo dopo avere imparato la lezione del “diverso.” Le persone che ospitano e incontrano il filmaker, al contrario non sono per nulla sospettose: anche quando piomba in un matrimonio, dove gli uomini indossano le tradizionali palandrane e i cappelli di pelliccia, è tutto un baci abbracci, chi sei, cosa fai, fa come se fossi a casa tua.

In principio Wivell viene adottato da una coppia anziana molto spiritosa e piuttosto camera friendly. Il padrone di casa discute amabilmente con il suo ospite di legge ebraica, di etica e di rapporti personali. Quando la moglie rientra a casa, il filmaker le stringe istintivamente la mano, salvo poi scusarsi: si è ricordato troppo tardi che i costumi ultra-ortodossi proibiscono contatti fisici tra uomini e donne non sposati. La vecchina ride amabilmente: “C’mon I forgive you,” fa con un gesto da cui si capisce che non si prende troppo sul serio, e poi si lamenta del marito che non vuole mangiare le verdure.

Quando però Wivell incontra Avi, un simpatico ciccione fumatore accanito, le cose cambiano. Sebbene la cosa non sia mai esplicitata dalla voce narrante, si capisce che il filmaker abbandona il piano originale – l’adozione temporanea da parte della anziana coppia – e decide di seguire una creatura più interessante: Avi è brillante, espansivo, fa tenerezza e ha un passato oscuro (si è fatto due anni di carcere per riciclaggio di denaro, poi la moglie l’ha piantato). Porta il nuovo amico giornalista a feste hassidiche, dove si sbronzano tra uomini (tutti sorprendentemente scapoli, in una società dove ci si ammoglia presto e ci si ammoglia tutti), un mondo di letti sfatti, cicche di sigarette e junk food.

Anche la comunità ultra-ortodossa, scopre Wivell, ha i suoi cattivi ragazzi

Il documentario non è più sui hassiddim, è su Avi. Quando torna dall’anziana coppia, il giornalista viene un po’ cazziato: se vai a zonzo con questi qui non capirai molto di ebraismo. Lui saluta il quartiere dicendo di avere capito finalmente che dietro ai cappelli e alle palandrane scure questi hassiddim sono più simili a lui di quanto non avrebbe immaginato. La chiosa, sì, è piuttosto telefonata. Se Wivell voleva fare un ritratto della comunità hassidica londinese, probabilmente ha fallito. Però è riuscito a raccontare una persona.