Attualità

Sorvegliare i giornali e punirli

Se per il lettore americano l'informazione cartacea è il modo per evitare fake news, per l'italiano è una forma di attivismo da esercitare soprattutto sui social.

di Arnaldo Greco

Italian newspapers feature front page photos of US newly elected President Donald Trump, at a news stand in Rome on November 10, 2016. / AFP / Alberto Pizzoli (Photo credit should read ALBERTO PIZZOLI/AFP/Getty Images)

Pochi giorni fa il New York Times ha pubblicato un editoriale in cui l’autore, Farhad Manjoo, raccontava quest’esperienza: per due mesi si è informato solo leggendo quotidiani cartacei. Niente social network, nessun sito web, neanche gli alert delle catastrofi sullo smartphone. Non è il primo articolo di questo genere che riscuote un po’ di successo (successo che curiosamente misuriamo in successo online), e anzi, a me pare, negli anni, di aver letto decine di storie di limitazioni analoghe. Limiti auto-imposti e limiti imposti da altri, due mesi senza Facebook, un mese senza Twitter, oppure un mese guardando solo Fox News, o La 7, un mese senza internet perché ero in vacanza, due settimane solo con la mia bolla. Tutti questi articoli, per quanto raccontino esperienze diverse, finiscono per assomigliarsi perché si concludono, sempre, con un più o meno vago appello alla moderazione.

Ho capito che i social sono importanti, ma bisogna moderarsi. Ho capito che internet è importante, se preso con moderazione. Insomma, due settimane senza connessione e diventiamo tutti Seneca. Moderati e desiderosi d’essere presi a modello. Per le due settimane successive, si intuisce, poi torniamo ai vizi e al disinteresse di prima. Senza contare che, per l’appunto, c’è il solito e immaginabile paradosso: a me è capitato di leggere questo editoriale perché qualcuno (non ricordo chi) l’aveva segnalato da qualche parte, non perché avessi comprato il quotidiano. (Curiosamente, nelle stesse ore in cui scrivo, tutti parlano di un pezzo del Guardian su un disastro di Facebook di cui io mi sono accorto perché l’hanno condiviso in sei su Facebook).

Per me (che, tuttora, leggo avidamente i quotidiani, anche quelli pessimi) una soluzione, forse, praticabile potrebbe essere “migliorate la vostra bolla”, quantomeno è quello che suggerirei come moderazione dei comportamenti. Invece di tagliare fuori le informazioni in eccesso, tagliate fuori chi ve le porta. Ogni tanto mi capita di chiedere a qualcuno se posso guardare per un po’ il suo news feed di Facebook (o di Twitter). E non c’è volta che non mi trovi a pensare che il problema sia la bolla che ognuno si sceglie. A sapersela costruire meglio ci si lamenterebbe meno dei giornali, del malanimo, della vanagloria o, quantomeno, ci si farebbe meno il sangue amaro. Magari presto si diffonderanno anche degli esperti, i disc jockey delle bolle, e diventerà un buon lavoro quello di adattare i news feed alle esigenze delle persone come fossero playlist di Spotify. (Gli algoritmi già ci provano ma non funzionano ancora per bene. C’è gente che, attraverso twitter, ha scoperto che l’algoritmo li considera “simili a” qualcuno che detestava e non si è più ripresa).

Temo che, a ripetere lo stesso esperimento in Italia, le conclusioni non cambierebbero molto, la moderazione è quanto di meglio possiamo permetterci. Però una differenza sostanziale la noterebbe comunque. Dove per il lettore americano l’informazione cartacea è il modo per evitare fake news, polemiche sterili e camere dell’eco, il lettore italiano – almeno così come ce lo restituiscono i social – vive la sua esperienza di lettura del quotidiano attivamente. Da attivista. E, forse ancora di più, da sorvegliante. E si starà chiedendo: d’accordo, capisco come ha fatto Farhad Manjoo a resistere per due mesi leggendo solo quotidiani ma come avrà resistito senza twittare mai: «guardate cosa ha scritto Tizio, perché non si vergogna»? Senza mai fare uno screenshot e condividere un titolo sbagliato? L’attivista legge il giornale per poter dare la colpa ai giornali di ciò che per lui non funziona. Se il paese è sessista, beh, è colpa di quell’editorialista lì che al rigo dodici ha fatto una battuta (brutta, per carità, mica dico sia bella) su un paio di scarpe da donna. Se il paese è moralista, non può che essere colpa di quella rubrica di lettere a pagina ventuno, se a Roma sono così è colpa dei titoli del Tempo, gli italiani dei sondaggi di Libero.

A volte si definisce giornalista anche se non è mai stato più di un pomeriggio in una redazione, a volte attivista, a volte ha semplicemente velleità satiriche, altre solo gusto per la polemica. Ma, fondamentalmente, è un sorvegliante. Sorveglia i quotidiani e sta attento che non sbaglino. E se sbagliano li punisce. Quanto è spudorato quel passaggio, quanto è copiato da Wikipedia quell’altro, quanto è impreciso quel dato che altrove (nei paesi dove le cose funzionano, come diceva il tennico di Stefano Benni) non l’avrebbe fatto nessuno. Commenta l’amaca di Serra sulla sua pagina Facebook e non si chiede mai perché il pubblico (sempre meno d’accordo, ma ancora tanti e da trent’anni almeno) si mette il cappotto la mattina anche per andare a comprare la Repubblica (mentre la sua pagina Facebook – per non dire i pezzi – non li guardano manco gratis). Credono di voler migliorare, ma in realtà contribuiscono a demolire – per di più senza nemmeno conoscerlo davvero – l’unico sistema che potrebbe integrarli. Persino gli stessi giornalisti dei quotidiani finiscono, spesso, sui social, per mettersi a fare i guardiani del giornalismo dei colleghi. (Poi, certo, ogni tanto è doveroso far riflettere sugli errori degli altri. Ed è straziante doverlo scrivere in una parentesi, per sicurezza, senza poterlo dare per scontato. Ma è il 2018).

Qualche giorno fa (sempre attraverso i social) ho notato una cosa che ha detto Concita de Gregorio in un’intervista (Radio 3): ha perso interesse per i quotidiani cartacei man mano che i giornali hanno cominciato a sentirsi subordinati prima alla televisione e adesso all’informazione online. Ecco, forse dopo due mesi di soli quotidiani, qui da noi, ti accorgeresti che i primi a non avere fiducia nei propri mezzi, nella propria capacità di incidere nella società, sono quelli che i quotidiani dovrebbero farli. Non credono più del tutto alla loro missione e, pensano, che per completarla occorra completarla anche in qualche altro modo. Ma, così facendo, danno forza a chi li svilisce. Un amico commentando il voto del 4 marzo mi ha detto (e non su internet) che, dopo l’elezione di Trump, le vendite dei giornali negli Usa sono triplicate. Ci mancherà anche questa consolazione.

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