Attualità

Lo chiamavamo Impero

Un viaggio in Etiopia, alla ricerca di radici personali e di un intero Paese. Intervista allo scrittore Vincenzo Latronico sul suo ultimo libro.

di Davide Coppo

Andare in Etiopia, alla ricerca di una storia, della propria storia, del passaggio di una nazione, alla ricerca di qualcosa da raccontare. L’ha fatto nel 2012 Vincenzo Latronico, scrittore, autore dei romanzi Ginnastica e rivoluzione La cospirazione delle colombe (entrambi Bompiani). L’ha accompagnato, per il corredo fotografico, Armin Linke, fotografo. Ne è uscito un libro, si chiama Narciso nelle colonie. Un altro viaggio in Etiopia, il primo prodotto della neonata casa editrice Humboldt Books, fondata a Milano da Giovanna Silva; Humboldt si propone di rispolverare la letteratura di viaggio, quella, per dirla con una frase che forse non è del tutto sincera, “come si faceva una volta”. Cosa hanno fatto Latronico e Linke, dunque? Semplice: un viaggio.

Qualche necessaria nota: questa è un’intervista, o un dialogo, con Vincenzo, che nel frattempo è tornato in Europa, ormai da più di un anno, e da più di un anno, mi ha detto, ancora pensa a quel viaggio di tre settimane in quello che abbiamo chiamato, per qualche anno nel ‘900, Impero. Il viaggio è partito dal Gibuti, è entrato in Etiopia passando per Dire Dawa, per Harar, per terminare poi ad Addis Abeba. In mezzo, il racconto e le fotografie: le strade di asfalto e quelle di terra rossa, le palme e i grattacieli, i mercati e i sassi, gli etiopi, i cinesi, gli italiani. E la storia dell’Italia certo, e ancora la storia stessa dello scrittore, alla ricerca di un pezzo di passato personale, sulle tracce dei nonni, russi fuggiti dal bolscevismo e rifugiatisi qui, prima che l’onda lunga (e distorta?) del comunismo arrivasse anche nel deserto africano per farli muovere finalmente in Italia, nel 1969. Per questo Narciso nelle colonie sconta una forte componente soggettiva, che arricchisce il racconto del viaggio, etnografico e storico, di una trama romanzesca che inganna il lettore (un inganno buono, si capisce) e si maschera da fiction, quando fiction, però, non è. Un’altra nota, non meno necessaria: il libro di Latronico/Linke è raro e importante, è una dei pochissimi tentativi italiani di ragionare su quella disgraziata anti-impresa coloniale fascista, è un “riportare a casa” qualcosa, un tirare – pur, inevitabilmente, parziale – delle somme, un confrontarci con un passato con cui questo paese, probabilmente, non si è mai confrontato affatto. Nel libro, infine, ci sono altri, più brevi, scritti: un capitolo di un libro mai pubblicato, Ethiopia Hoy!, scritto in francese dalla nonna di Latronico, ritrovato soltanto giorni dopo il ritorno in Italia, a Roma, in una casa di famiglia, sorta di strana conclusione di una ricerca, quella personale, che non si è affatto conclusa (o non si poteva concludere, più probabilmente); un Dizionarietto delle parole italiane in lingua amarica, firmato Graziano Savà; un racconto di Angelo Del Boca, scrittore e giornalista, dei suoi incontri con Hailé Selassié; dei brevi testi di Simone Bertuzzi ancora su Selassié, sul suo mito, sul suo culto. Ma queste sono tutte cose contenute nell’intervista, che inizia, in qualche modo, così:

VL: Una premessa, a cui tengo: la storia del romanzo non è un espediente narrativo. Io ho veramente ritrovato questo testo di mia nonna dopo che il libro era già finito, è stata una cosa veramente pazzesca. È veramente un espediente testuale perfetto. Io sapevo dell’esistenza di questo libro a Roma, pensavo si fosse smarrito in vari traslochi, e quando è saltato fuori…

DC: Io ho abboccato molto felicemente, non ho dubitato mai della veridicità.

VL: Ad esempio Armin [Linke], che aveva letto la bozza del testo quando ancora non esisteva l’appendice, quando ha letto il libro completo mi ha detto “Wow, sei stato geniale a far entrare questa informazione in questo modo!”. Ma è tutto vero. Comunque.

 

E continua, poi, così:

 

DC: Il libro si apre con un ragionamento sul pittoresco e sul fascino “facile”: ci sei tu che guardi, fresche di stampa, le fotografie di Linke e confessi di non saper scegliere, e un po’ ti imbarazzi, e dici: «Le foto che mi piacciono sono tutte di paesaggi drammatici, o donne che lavorano al mercato, insomma, cose così, un po’ pittoresche». E lui, con una frase che è una specie di epifania, ti risponde: «Sai, forse non mi interessava evitare il pittoresco». E la bellezza del libro è tutta qui: una scrittura che parla di panorami e montagne nere e deserti «crivellati di laghi» e tramonti, sfacciata e senza ironia e soprattutto senza paura di cadere nel cliché.

VL: Non mi interessava comportarmi come uno che cammina in un campo minato. Quello che cambia oggi rispetto a quando il genere “racconto di viaggio” era veramente in voga è la consapevolezza dell’esistenza di queste mine, però secondo me un testo che parte dicendo “devo evitare questo, evitare questo, evitare quest’altro” è un testo che nasce dalla paura. Penso che forse sia anche sbagliato caratterizzare certe cose in cliché e non-cliché, cioè: certe immagini, certi panorami, certe descrizioni, prima che pittoresche, sono belle, sono emozionanti, sono toccanti. Sono una delle ragioni profonde che spingono le persone a viaggiare. In fondo sarebbe stato profondamente castrante cercare di evitare o eliminare questa dimensione “pittoresca” dal viaggio, anche perché, in fondo, il senso del libro di viaggio è il senso del libro del dilettante. Se qualcuno avesse voluto fare un reportage sociologico, un’inchiesta sulle condizioni del paese africano schiacciato tra la globalizzazione da una parte e la tradizione dall’altra… io non sono la persona giusta per farlo. In fondo, se fai un viaggio come osservatore, come “guardatore”, cioè come persona che guarda, e racconta quello che ha visto, beh, è veramente limitante fare una selezione di quello che si è visto, decidendo a priori di eliminare quelle cose che sono le viste più spettacolari, più emozionanti, più uniche di quell’esperienza.

 

DC: Parlando della tua storia personale, e di quella tua familiare, fidandomi ciecamente del fatto che tu non abbia romanzato alcun fatto… beh, la storia sembra lo stesso uscita da un romanzo ottocentesco: c’è il nonno, con la sua uniforme dell’Armata Bianca che arriva ad Addis Abeba, c’è la fotografia di tua nonna «bellissima», la prigionia dello stesso nonno con la liberazione inglese nel ’41, la sua fuga in Italia. A tratti Narciso nelle colonie sembra quasi Ogni cosa è illuminata.

VL: La cosa strana è che anche io, facendo mente locale su questi ricordi, ho avuto paura che fossero romanzati. Forse in qualche misura lo sono. È strano, perché ieri ho ricevuto una mail da una zia, diceva “ho visto che è uscito questo libro, l’ho comprato”. E io lì ho avuto un po’ paura, e le ho risposto, le ho detto “so che tu non riconoscerai molte delle cose che scrivo. Perché queste sono le cose come io mi ricordo quello che mi ha raccontato mia nonna”, che già è diverso da quello che si ricorda mia mamma, ad esempio, che è diverso da quello che si ricorda la zia, che è diverso da come le cose sono andate davvero. Anche io mi sono reso conto che sembra esserci un grado di “romanzazione” abbastanza alto. Mi chiedo dove sia intervenuto, in che passaggio: nel viverlo di mia nonna? Nel raccontarlo a mia mamma? Nel raccontarlo di mia mamma a me? Nel mio ripensarci a posteriori, unendo tutti questi punti? Non lo so.

DC: Di grandi romanzi sul colonialismo italiano, a parte Tempo di uccidere di Flaiano, non c’è grossa traccia. Forse è perché abbiamo sempre demonizzato il colonialismo altrui ed esaltato le liberazioni altrui. Forse ci vergogniamo del nostro colonialismo, non perché crudele ma perché goffo, imbranato?

VL: Più che con la goffaggine, penso abbia a che fare con una sorta di immagine auto-indulgente che abbiamo di noi, in cui in fondo, come popolo, ci mascheriamo dietro questa nostra immagine un po’ cialtrona per discolparci collettivamente. Discolpiamo il fascismo e lo distinguiamo dal nazismo perché diciamo che era meno serio, che tutto era più disorganizzato, in guerra abbiamo sempre perso… E quest’immagine, che al contempo sembra molto autoironica, in realtà è un grande alibi, permette di non prendere sul serio le nostre colpe. Mi mette in difficoltà pensare alla frase “non ci sono romanzi sul colonialismo” perché mi riesce difficile pensare che la letteratura, intesa come disciplina, abbia un dovere. Il fatto che il colonialismo italiano non si studi a scuola, questo è un grosso problema.

 

DC: Cambia la parola “romanzi” con la parola “narrazioni”.

VL: La domanda vera è: perché questa esperienza non è entrata nel patrimonio di cose che sentiamo di dover sapere per costruire la nostra identità? Voglio dire, per costruire la nostra identità dobbiamo conoscere la Breccia di Porta Pia, e crediamo che conoscere la Breccia di Porta Pia sia più importante, per formare l’italiano di oggi, di conoscere il colonialismo in Etiopia. Perché? Probabilmente perché se lo conoscessimo saremmo costretti, sia da sinistra che da destra, a mettere in crisi un’immagine di italiani che seguivano Mussolini come si può seguire un pifferaio di Hamelin, in fondo non del tutto convinti, che è un’immagine che ci fa molto comodo.

E d’altro canto, ho pensato, e se questo libro dovesse uscire in lingua inglese, in un paese che ha sviluppato questa auto-analisi? Il libro sarebbe crivellato, massacrato in un contesto diverso da quello italiano. Sarebbe allora necessaria una nota, all’inizio e alla fine, che sarebbe un continuo cospargersi di cenere il capo. E non sono sicuro che questo sarebbe un bene. Sarebbe soltanto un pro forma, un’etichetta conversazionale. Forse in Italia se ne può ragionare più liberamente proprio in ragione di questo vuoto. Non credo che questo libro possa essere un’apologia, affatto. D’altro canto credo che secondo una mentalità anglosassone, questa presa di coscienza abbia creato un tabù. Sono argomenti che non si possono più trattare in modo “neutro”.

 

DC: E però noi siamo quelli che nel 2012 costruiamo un mausoleo a Graziani.

VL: [prima ride, poi torna serio]. Questa cosa di Graziani mi ha un po’ sconvolto: io stesso, che mi reputo una persona consapevole, non conoscevo… il fatto che una strage come quella di Addis Abeba sia un argomento quasi completamente sconosciuto… mi ha sconvolto. E la colpa credo che, più che ai fascisti, vada data ai democristiani. Qualcuno insomma ha riflettuto e ha deciso che la Breccia di Porta Pia era più importante.

DC: A un certo punto nel libro c’è la descrizione di una parte di deserto etiope, una sterminata distesa di sacchetti di plastica che un incrocio di venti ha depositato lì. È una cosa che in Africa si vede spesso. E mi ha colpito. Mi ha fatto quasi incazzare, la totale incuria del territorio naturale che trasmettevano quei sacchetti. E so che è profondamente sbagliato, il fatto che mi faccia incazzare, come se da europei ancora con un occhio colonico trattassimo l’Africa come il fratello a cui bisogna sempre dire tutto.

VL: Più che il fratello a cui bisogna dire tutto, secondo me è ancora peggio: anche a me ha fatto rabbia, frustrazione. Ma è come se giustificassimo i nostri grattacieli sulla spiaggia o le nostre colline distrutte da piloni dell’elettricità e pale eoliche con un “noi facciamo questo perché tanto c’è la natura dell’Africa”. È come se volessimo, in fondo, che questo posto, l’Africa, fosse sottomesso ai nostri bisogni. E i nostri bisogni in questo caso sono quelli di “grandi panorami di natura incontaminata”. E vogliamo che i nostri bisogni coincidano con quelli di chi abita davvero quelle zone.

 

DC: Un’ultima cosa: in questo libro si avverte, fortemente, il fascino dell’esotico. Ed è una sensazione quasi strana da provare in questa epoca.

VL: Forse questo è il risvolto più drammatico del post-moderno. Fino a un certo momento si pensava che il ripetere un’esperienza già fatta da altri fosse una cosa sostanzialmente formativa. E poi a un certo punto è stato visto come una prova di inautenticità. Per cui adesso, quando proviamo un fascino che ascriviamo a un’esperienza del passato, a un’esploratore, a un orientalista, invece di pensare “bello, ho trovato qualcosa di simile con un esploratore dell’Ottocento”, pensiamo “oddio, sarò sempre epigonale e derivativo”.

Certo che c’è ancora il fascino dell’esotico, e perderlo significa sostanzialmente perdere la capacità di stupirsi. Il problema non è farsi sedurre da questa sensazione, ma è non considerarla come un’esperienza conoscitiva di qualche cosa che sia altro da te. Il fascino dell’esotico non ha a che fare con la replicazione di un modello culturale, ma con la presa di coscienza della debolezza di questo modello: la consapevolezza che per quante cose tu abbia letto, quanti film abbia visto, quando sei lì c’è qualche cosa che esonda completamente da quello che avevi visto e letto.

Vincenzo Latronico, Armin Linke
Narciso nelle colonie. Un altro viaggio in Etiopia
Quodlibet / Humboldt
167 pagine
18 euro

 

 

Tutte le fotografie sono di Armin Linke