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Ma quanto segna il Signor Rossi

Non solo la tripletta alla Juve, la storia di Pepito Rossi è il monumento al paradosso del calcio italiano: vogliamo quello che non è nostro e non sappiamo tenerci quello che lo è.

di Giuseppe De Bellis

Non è per i tre gol. O almeno, non è solo per quei tre gol. È per come, quando, perché. È per quanto segna, Giuseppe Rossi. La tripletta alla Juve s’aggiunge agli altri cinque. In totale quindi fanno otto in otto giornate. La media è facile e perfetta. Legge adesso: «Pepito d’oro» e tutti gli altri titoli post Juventus. Ripensa agli altri titoli, quelli di gennaio scorso, quando la Fiorentina lo comprò ancora mezzo rotto e tutti, sì tutti, scrissero e dissero la stessa cosa: «Vediamo se si riprende». Ecco, vedete. Anzi, avete visto.

Rossi è un altro pezzo di pallone che ci siamo ripresi. Sul mercato: pagando, investendo, rischiando. L’abbiamo perso e l’abbiamo riconquistato, l’abbiamo scelto scavalcando vecchi pregiudizi. Perché qualcuno se lo ricorderà il momento in cui ce lo siamo fatti portare via no? C’eravamo convinti tutti che servissero muscoli e altezze, l’abbiamo rivoluto perché abbiamo capito che essere piccoli è figo. Lui è la grandezza dell’italiano medio. Cioè è sotto media, ma è sopra alla media. Più forte, più furbo, più determinato. Più italiano di ogni altro italiano: perché da figlio di italiani, ha deciso di essere italiano pur essendo cresciuto all’estero con la testa dello straniero. Lui ha detto no all’America. Bruce Arena lo convocò per uno stage con la Nazionale Usa prima della Coppa del Mondo del 2006. Rossi disse no: «Voglio giocare nell’Italia». Perché con quella presenza nell’America non avrebbe mai più potuto essere calcisticamente italiano. Ha rifiutato per se stesso, non per altro.

Noi no: noi ce lo siamo ripresi con la fame di chi non ha più niente. Responsabile, allora. Per se stesso e per il pallone italiano, perché la sua storia è il monumento al paradosso: vogliamo quello che non è nostro e non sappiamo tenerci quello che lo è prima di scoprire che ci piace e provare a riprendercelo quasi a tutti i costi. Quasi. Pepito è la spiegazione fisica del teorema. Stati Uniti-Italia-Inghilterra-Italia-Spagna-Italia. La sua storia da emigrante ritornato con il peso dei centimetri che gli mancano serve a chiudere la porta alla storia di Joe Red, come lo chiamava Alex Ferguson ai tempi del Manchester United per marcare la differenza, per ricordargli di avere un nome italiano e una vita da anglofono. Canaglia sir Alex, pronto ogni volta a mettere zizzania nell’anima, divertito dalla battuta acida. Joe Red, diceva. E rideva. Giuseppe non ha mai capito se scherzasse o se fosse cinicamente serio. Non se l’è neanche chiesto, perché se giochi pensi al pallone, se pensi al pallone non hai tempo per il resto. Poi quello comunque lo stimava: «Non ha un grande fisico, ma è comunque forte in area, sia con i piedi, sia con la testa. Ha gambe corte, ma estremamente veloci. E’ calcisticamente intelligente. E segna».

Lo scandalo, i reportage, le inchieste sui vivai italiani che non esistono più. E poi? Poi il vuoto: non si fa nulla per incentivare i ragazzi, si continua a comprare dall’estero. Il che va benissimo, perché se uno è bravo chissenefrega se è italiano o straniero, basta mettersi d’accordo con se stessi e non lamentarsi se qualcuno poi viene a pescare da noi.

Manchester è stata una tappa, non il porto. Rossi ci è arrivato due volte per andare via comunque. Si fa una valigia, sempre: Clifton, Parma, Manchester, Newcastle, Parma, Vila Real-Firenze. «Segna», diceva Ferguson. Aveva ragione. Perché non sono i tre gol di ieri. È come, quando, perché e quanto segna, Pepito. Nove nel Parma; tredici, quindici, diciassette, trentadue nel Villareal (poi cinque nei primi mesi dell’anno dell’infortunio). Pepito segna, punto. Di sinistro, preferibilmente. E’ mancino, veloce, rapido, tecnico, mette il corpo davanti all’avversario: questo pallone è mio e non me lo togli. Il padre, Fernando, se lo guardava, se lo coccolava, se lo cresceva. Faceva l’insegnante di italiano in New Jersey, quando Giuseppe partì per l’Europa lui lasciò tutto per seguire il figlio. Manager? Accompagnatore, diciamo. Confidente, consulente, spalla, appoggio, sostegno. Che poi è per lui se Rossi è qui: a Clifton, in New Jersey, Fernando faceva anche l’allenatore di calcio, ha insegnato lui al figlio come si calcia un pallone. Un metro e settantatre centimetri hanno regalato al pallone un talento che il basket non avrebbe potuto esprimere. Allora l’Italia, meglio.

Si comincia da Parma, dove arrivò quando un osservatore lo vide nel camp estivo del club emiliano. Lo portarono dall’America nel collegio dei giovani del Parma. Dodici anni, 1999. Il padre con lui, la madre in New Jersey con l’altra figlia. Esordienti, giovanissimi, allievi. Sinistro, gol; sinistro, gol; sinistro, gol. Destro, gol. Testa, gol. Altezza? No problem. Ha sempre segnato come un pazzo, Rossi. Perché non se ne è accorto nessuno in Italia prima? A Parma lo chiamavano l’Americano e la verità è che nessuno immaginava che sarebbe diventato uno forte davvero. Perché ce ne sono tanti che nelle giovanili sono dei fenomeni e poi si sgonfiano. Con i coetani sono bravi tutti, no? Questo, poi, sognava di diventare Van Basten o Van Nistelrooy, ma aveva il corpo di Alessio Pirri. Adesso tutti zitti, per favore. Semplice dire che il Parma era in crisi, alla vigilia del crac Parmalat. Sarà anche vero, ma è facile. E siccome è facile non vale. Perché non l’ha visto nessun altro? Milan, Inter, Juventus, Fiorentina, Roma: Rossi aveva i numeri di uno che quantomeno va visto. Una media di quasi un gol a partita. Gli osservatori del Manchester United vennero in dieci per valutarlo: dieci in dieci partite diverse. Alla fine scrissero un rapporto complessivo a Ferguson: «Giuseppe Rossi è il miglior ’87 d’Europa». Cioè: impossibile non vederlo. Adesso siamo tutti qua a raccontare ogni volta che un ragazzino di una squadra italiana viene preso da qualche club straniero. Ci divertiamo sempre a chiamarlo “ratto”, perché certo è incomprensibile che un italiano se ne vada. Era successo con Gattuso e non è servito a niente. Rossi è stato il secondo, ma anche con lui è finita come con Rino. Lo scandalo, i reportage, le inchieste sui vivai italiani che non esistono più. E poi? Poi il vuoto: non si fa nulla per incentivare i ragazzi, si continua a comprare dall’estero. Il che va benissimo, perché se uno è bravo chissenefrega se è italiano o straniero, basta mettersi d’accordo con se stessi e non lamentarsi se qualcuno poi viene a pescare da noi. I calciatori sono complici.

Si capisce poco, si comprende di meno. Giuseppe Rossi è andato, tornato e andato di nuovo. Arrivò a Manchester con padre al seguito: 4 anni di contratto da professionista. Due anni nella squadra delle riserve: due scudetti, miglior giovane del settore giovanile come era successo a Giggs, Scholes e Beckham, una vittoria della classifica marcatori, 45 gol in 47 partite. La convocazione nello United vero per la Carling Cup: vittoria. Gol all’esordio in prima squadra, come sempre. Perché ogni volta che ha avuto una prima volta, Beppe ha segnato. A Parma, per esempio: gennaio 2006, 19 anni, spedito di nuovo in prestito a casa. Era appena arrivato Claudio Ranieri. L’Italia capì mister Rossi: nove gol in neanche mezzo campionato, come solo Roberto Mancini aveva fatto da giocatore prima di compiere vent’anni. Esordio contro il Torino. Gol, ovviamente. Salvezza per il Parma che pareva disperato, spacciato e finito. È stato Rossi a tenerlo in piedi un’altra stagione prima della retrocessione. È servito ad avere un altro rimpianto. Ancora uno. Perché tenerlo è stato impossibile per tutti e non si è ancora capito il perché. A quel punto costava undici milioni di euro a vent’anni. Il Parma poteva prenderselo: il Manchester era pronto a darglielo. No. Il prezzo era troppo alto, perché non c’era garanzia.

Lo prese il Villareal e ringraziamo il cielo che in quella maledetta stagione dell’infortunio, il Villa retrocesse. Il crollo in Segunda ha regalato all’Italia Borja Valero e Giuseppe Rossi. Li ha presi la Fiorentina perché Eduardo Macia e Daniele Pradè sapevano che ne valeva la pena. Chi li smentisce ora? Rossi è stato capito, è stato aspettato. Poi è entrato in campo. Un gol a partita. Dicevano: Mario Gomez segnerà a valanga. Petito avrebbe dovuto essere quello che gira attorno, che sta al largo, che mette l’altro di fronte alla porta. Vero e pure no. Tira da fuori, si infila in area, calcia i rigori. Ha una faccia da ragioniere appena uscito dall’ufficio, pronto a prendere a pallate il compagno di scrivania nella partita scapoli e ammogliati. Invece segna a tutti, l’errore di Buffon sul secondo è un dettaglio. Per informazioni chiedere agli altri 104 portieri che hanno preso gol da lui. Joe Red era il miglior 1987 d’Europa? Ferguson aveva fatto una stima per difetto.

 

Nell’immagine, Giuseppe Rossi esulta dopo un goal contro il Catania, il 26 agosto 2013. Gabriele Maltinti/Getty Images