Attualità

Ancora Pussy Riot

Pussy Riot: come sono nate, cosa vogliono e come sono percepite in Russia, dove tutto sommato sono meno famose che in Occidente.

di Leonardo Bianchi

I problemi per il concerto dei Faith No More a Mosca, tenutosi lo scorso 2 luglio allo “Stadium Live”, sono iniziati ancora prima che la band americana salisse sul palco. Gli organizzatori locali, infatti, erano venuti a sapere che il gruppo avrebbe fatto esibire alcune Pussy Riot in un intervallo dello show. All’epoca, l’ormai celebre processo era all’inizio, il collettivo punk non era ancora diventato la cause célèbre per eccellenza dell’Estate 2012 e le varie popstar (Madonna/Sting/Bjork/Vasco Rossi – sì, Vasco Rossi) si guardavano bene dal saltare sul carro del “Free Pussy Riot”. Nella capitale, tuttavia, la presenza non programmata di cinque ragazze in passamontagna colorato bastava ampiamente a spaventare a morte gli organizzatori. Le minacce e le intimidazioni di quest’ultimi erano arrivate a un punto tale che il concerto – racconta il bassista Bill Gould al giornalista Mark Ames – stava quasi per essere cancellato.

Negli anni ’90 i Faith No More avevano già suonavano in Russia, all’apice dell’era Eltsin. Il bassista, inoltre, oltre ad aver prodotto alcuni gruppi punk russi, aveva anche ospitato a San Francisco il leggendario leader dei Graždanskaja Oborona, Egor Yetov, scomparso nel 2008. Insomma: Gould e compagni conoscono bene certe dinamiche del Paese e la relativa scena punk. Se in astratto, dunque, potevano aspettarsi una simile reazione dagli organizzatori – persone che devono necessariamente interfacciarsi con le autorità per il loro lavoro – quanto successo durante il concerto è andato oltre la loro comprensione.

Quando le cinque Pussy Riot sono apparse sul palco tenendo in mano dei fumogeni, gridando che Putin si era “pisciato a letto” per la paura e srotolando uno striscione di supporto alle loro compagne arrestato lo scorso marzo (Nadezhda Tolokonnikova, Maria Alyokhina e Yekaterina Samutsevich, poi condannate a due anni di colonia penale il 17 agosto), il pubblico – composto da ragazzi difficilmente inquadrabili come fanatici di Russia Unita, e che anzi probabilmente hanno preso parte alle proteste del dicembre 2011 – le ha ricoperte di fischi ed insulti. Una reazione a prima vista davvero incomprensibile. Dice Bill Gould:

Eravamo un attimo spaventati, ma quello che non mi aspettavo sono state le reazioni negative. Ho ricevuto molti commenti, specialmente da parte maschile, che mi chiedevano cose di questo tipo: che bisogno hanno i Faith No More di abbassarsi a fare politica ad un livello così disgustosamente basso? L’ironia è che le ragazze della band hanno dai 20 ai 24 anni, e sono piccole e dolci. Considerate le circostanze, hanno mostrato di avere le palle, molto più di ognuno di noi. E ora sembra che tutti siano più preoccupati di come le ragazze abbiano mancato di rispetto alla Chiesa, piuttosto dei sette anni di carcere che stanno rischiando.

Quasi tutta la stampa occidentale, troppo impegnata a ricamare sessualmente l’immagine delle tre Pussy Riot sotto processo (“look pre-Raffaelita”, “labbra alla Angelina Jolie”, “sex symbol voluttoso”) e a trasformarle in una tela vuota dove proiettare le più sfrenate fantasie pseudo-rivoluzionarie, ha completamente ignorato o distorto alcuni aspetti importanti della storia. Uno su tutti: le Pussy Riot sono odiate non solo dai russi plagiati e/o terrorizzati da Putin, ma sorprendentemente anche dai russi “normali”, quelli “occidentalizzati” che, ad esempio, vanno ai concerti dei Faith No More e magari sono anti-Putin.

 

Perché le Pussy Riot sono più popolari a Los Angeles che a Mosca

Parte di questa strana ostilità, scrive Mark Ames in un lungo articolo su NSFWcorp.com, deriva sia dal “massimalismo russo” – cioè il portare le cose alle estreme conseguenze, anche in una direzione potenzialmente autolesionista – che dall’attenzione planetaria sul caso:

I russi non hanno mai avuto un’esperienza storica positiva con quello che l’Occidente pensa che la Russia debba fare […] Il ricordo del supporto americano a quel buffone alcolizzato di Eltsin, concesso mentre il paese e la sua popolazione sprofondavano nella miseria, è ancora vivido. […] E nulla scatena quel gene reazionario dei russi come una lavata di capo da parte di occidentali che moralizzano su qualsiasi argomento, anche su quello più ovvio, quello dove è chiaro al 100% che stiamo dalla parte giusta. E così, quando ci sentono finalmente interessati alla Russia perché un gruppo punk con un nome inglese è finito nelle grinfie del Cremlino, loro non vedono necessariamente un’ingiustizia come la vediamo noi dal nostro osservatorio privilegiato – ci scorgono un altro vile complotto ordito dall’Occidente per umiliare la Madre Russia e metterla in ginocchio.

In una serie di sondaggi condotti dal Centro Levada, il 42% degli intervistati crede che le Pussy Riot siano state arrestate per aver insultato la fede ortodossa; il 29% ritiene che la performance delle Pussy Riot sia solo “teppismo”, e il 19% la ritiene una protesta politica. Solo il 6% simpatizza con le Pussy Riot, mentre il 41% prova “antipatia” nei loro confronti. L’86% si è dichiarato a favore di una qualche forma di punizione, mentre appena il 5% pensa che le Pussy Riot non avrebbero dovuto essere condannate. Nel commentare questi dati, il direttore del Centro Levada Lev Gudkov ha spiegato che la maggior parte dei russi, informandosi solo attraverso la televisione, tende a uniformarsi alla “versione ufficiale” dello Stato. Un simile conservatorismo, però, sembra confermare quello che l’ex-oligarca Mikhail Khodorkovsky scrisse in una lettera del 2004 intitolata “La crisi del liberalismo russo”: “Putin [che dopotutto ha chiesto pene molto miti per le Pussy Riot, nda] probabilmente non è né un liberale né un democratico, ma è comunque più liberale e democratico del 70% della popolazione del nostro Paese”.

Effettivamente, in Russia i “liberali” non sono ben visti. Paul Robinson, professore all’University of Ottawa ed esperto di politica russa, scrive sull’Ottawa Citizen:

Per molto tempo i conservatori russi hanno additato i loro compatrioti liberali come degli asserviti copioni dell’Occidente, e hanno sostenuto che i liberali si sono sempre considerati al di sopra della legge. I liberali russi hanno fatto di tutto per rientrare in questo stereotipo. Negli anni ’90, ad esempio, hanno fatto passare in fretta e furia riforme economiche che ricalcavano il modello occidentale, e nell’opinione di molti russi hanno svenduto il Paese a prezzi stracciati mentre si facevano corrompere, arricchendosi nella transizione.

La “preghiera punk” delle Pussy Riot del 21 febbraio scorso nella Chiesa del Cristo Salvatore a Mosca (cattedrale fatta distruggere da Stalin negli anni ’30 e ricostruita negli anni ’90) non era rivolta contro la religione ortodossa, ma principalmente contro Putin. Tuttavia era anche un chiaro atto d’accusa al clero, a loro avviso sempre più piegato agli interessi politici del Cremlino. Questo ha scatenato l’ovvia reazione degli ortodossi integralisti, ma soprattutto quella degli ortodossi non praticanti – cioè la maggior parte dei russi, che vedono nella Chiesa Ortodossa il pilastro della loro identità nazionale. «Quando è crollato il comunismo» spiega Robinson «uno dei cambiamenti più repentini è stato il ripristino di centinaia di chiese in tutto il Paese. Le persone non sono improvvisamente diventate più religiose: stavano resuscitando un’identità a lungo soppressa, facendo rivivere un simbolo antico. Di conseguenza, molti vedono un attacco alla Chiesa come un attacco alla Russia, e quindi un’azione fondamentalmente antipatriottica». Resta da capire una cosa: le Pussy Riot sono un prodotto politico-culturale squisitamente russo o è qualcosa di pesantemente influenzato – o “corrotto”, secondo i detrattori – da subculture occidentali?

 

Dagli skomorokhi a Simone De Beauvoir

In un’intervistaVice, le Pussy Riot hanno citato come modelli di riferimento la subcultura Riot Grrrl degli anni ’90 (in particolare le Bikini Kill), il punk, l’Oi! (The Angelic Upstarts, Cockney Rejects, Sham 69) e le femministe Simone De Beauvoir, Emmeline Pankhurst, Judith Butler, ecc. I primi passi nell’ambito dell’attivismo politico li hanno però mossi dentro Voina (“guerra” in russo), un collettivo radicale nato nel 2007 che si rifà esplicitamente alla gloriosa tradizione anarchico-rivoluzionaria russa e al Concettualismo Moscovita. L’ideologo di Voina, Alexei Plutser-Sarno, tempo fa ha dichiarato che «in un momento in cui qualsiasi speranza per la democrazia si è infranta, disegnare fiori o gattini o produrre qualsiasi altro tipo di arte “pura”, cioè priva di un contenuto socio-politico, significa essere complici delle autorità reazionarie». Il suo giudizio sull’arte contemporanea russa è impietoso: «È profondamente provinciale, troppo influenzata dagli stili europei e americani. Qualche artista russo è moralmente ambiguo: coopera con le autorità e si aspetta dritte dal Ministero della Cultura. Alcuni si professano di sinistra, ma in realtà cercano solamente il plauso dell’Occidente; stanno fingendo di fare arte di protesta». Quella di Voina, al contrario, è un’arte «patriottica»:

Si può essere un patriota avversando completamente le logiche statali. Il Paese e lo Stato sono due concetti diversi, da non confondere tra loro. Una persona intelligente non può definirsi un “patriota dello Stato”. Lo Stato, infatti, è un’istituzione che veicola un tipo di violenza legalizzata: non può piacere. Noi siamo dei patrioti a tutti gli effetti.

La 22enne Nadezhda Tolokonnikova (la Pussy Riot da copertina, quella con le “labbra alla Angelina Jolie”) ha partecipato ad alcune delle azioni più clamorose di Voina. Nel 2008, due giorni prima del passaggio di mano al Cremlino tra Putin e Medvedev, una dozzina di attivisti è entrata nel Museo Statale di Biologia di Mosca, si è tolta i vestiti e ha cominciato a fare un’orgia. Tra questi c’era anche una giovanissima Tolokonnikova, incinta di nove mesi. La partecipazione a “Scopa per il Successore – l’Orsacchiotto!” (questo il nome dell’operazione) le è costata l’espulsione dall’Università Statale Lomonosov di Mosca, la più antica università del Paese nonché una delle più prestigiose. La cacciata non ha fatto altro che radicalizzarla. Il 29 maggio del 2009, la Tolokonnikova e le altre due compagne condannate questa estate hanno preso parte all’azione “Cazzo nel culo, o concerto punk nell’aula di tribunale”. I membri di Voina avevano interrotto l’udienza di un procedimento contro due importanti curatori d’arte, improvvisando un concerto punk. «La polizia ha cercato di arrestarci sul posto», ricorda un’attivista, «ma miracolosamente siamo riusciti a scappare dal tribunale».

Durante il processo di questa estate, la Tolokonnikova ha dichiarato: «Siamo giullari, skomorokhi, forse addirittura pazzi sacri. Non volevamo fare del male a nessuno». Gli shomorokhi erano dei menestrelli che si esibivano sia in pubblico che per lo zar nella Russia medievale e, come le Pussy Riot, univano il dileggio alla indisciplinatezza. Come riporta il blogger Sean Guillory, gli shomorokhi non facevano solo divertire la gente: la derubavano. Mentre alcuni cantavano e danzavano nei villaggi, altri si portavano via gli animali, saccheggiavano le stalle e rubavano tutto quello su cui riuscivano a mettere le mani. I menestrelli, naturalmente mal sopportati dalla Chiesa Ortodossa, caddero in disgrazia dopo un editto dello zar Alexei, che nel 1648 che li mise fuorilegge.

A differenza di come sono state dipinte, le Pussy Riot non sono una semplice riedizione post-sovietica del movimento Riot Grrrl. Sono un gruppo – anzi: un non-gruppo, come evidenzia bene un articolo di Radio Free Europe – saldamente inserito in una tradizione artistica/politica profondamente russa, sia contemporanea che storica. La riprova di questa appartenenza si è avuta quando Madonna e Bjork le hanno invitate a suonare con loro: “Siamo lusingate – ha risposto un’appartenente alle Pussy Riot – ma le sole esibizioni che facciamo sono quelle illegali. Rifiutiamo di esibirci come parte del sistema capitalistico, in concerti dove vendono biglietti”.

Joshua Frost ha scritto su Registan.net che non siamo di fronte «a contadine prese per strada e trascinate in tribunale per il solo fatto di essere donne», oppure a delle innocue e indifese ragazzine inspiegabilmente perseguitate dall’orribile fascio-stalinista Putin. Tutt’altro: le Pussy Riot sono delle attiviste politiche che fanno del serio attivismo politico, in una Nazione sempre più autoritaria che oltre una certa soglia non tollera il dissenso. Gli ultimi dodici anni hanno reso piuttosto chiaro che a ogni nuovo mandato corrisponde un eccesso di zelo da parte deičinovniki del Cremlino, con relativo rotolamento di teste. Non era un caso che Voina avesse organizzato l’orgia due giorni prima delle elezioni presidenziali del 2008; non è un caso che le Pussy Riot abbiano fatto la loro performance poco prima delle elezioni presidenziali del 2012. Nella sua dichiarazione conclusiva, Yekaterina Samutsevich ha affermato: «Provo sentimenti contrastanti su questo processo. Da un lato, mi aspetto un verdetto di colpevolezza. Rispetto alla macchina giudiziaria, noi siamo nessuno, e abbiamo perso. D’altra parte, abbiamo vinto. Tutto il mondo sa ora che il procedimento penale contro di noi è stato fabbricato ad arte. Il sistema non può nascondere la natura repressiva di questo processo».

La frenesia mediatica à la “Kony 2012” (ora completamente evaporata) ha fatto sì che la maggior parte della stampa occidentale si sia focalizzata sugli aspetti più facilmente accessibili e accattivanti della vicenda, rimuovendo completamente le coordinate politiche e artistiche in cui si muovono le Pussy Riot – ossia un movimento di protesta, non necessariamente liberale, che chiede più libertà civili ed è (anche fisicamente) represso da Putin & Co. «In altre parole», conclude Joshua Frost, «l’attenzione sulle Pussy Riot non solo ha banalizzato le stesse Pussy Riot, ma ha banalizzato l’intero movimento di protesta russo. Il risultato non avrebbe potuto essere peggiore di questo».

 

(Immagine: Getty Images / NATALIA KOLESNIKOVA – AFP)