Attualità

Puro cinema

Come il feticismo per le belle immagini sta sostituendo in molti cinefili la ricerca del grande film

di Francesco Pacifico

Dopo essere uscito dalla visione di Super 8, dell’idolatra di Spielberg JJ Abrams, ho avuto un attacco di nervi. Ho capito finalmente cosa mi dà fastidio, oggi, dei registi bravi. Non l’ho capito razionalmente, ma ho sentito dentro di me due parole tipo oracolo: “Puro cinema”. Pensando alla “struggente” ricostruzione delle passioni giovanili dei protagonisti, al feticismo per il cinema di genere, alla strabordante scena del disastro ferroviario, mi è salito dentro questo mantra, “puro cinema”, e a un certo punto ho capito quale creatura malvagia stava parlando dentro di me: dentro di me parlava un amante del grande cinema, con la voce da amante del grande cinema, che diceva, diabolicamente, una serie di cazzate sul film appena visto: “Eeeeeeeh ma quando quel treno impatta contro la macchina e i vagoni saltano in aria e i ragazzini scappano fra la pioggia di vagoni è puro cinemaaaaa”. “Eeeeeeeh ma la scena in cui il ragazzino si innamora di lei mentre la trucca da zombie è puro cinemaaaa”. Siccome l’appassionato di grande cinema è sempre romano, immaginavo frasi come: “Le emozzzioni che tte dàà r cinema chi ttele dàà?”

Da lì mi sono accorto di una cosa. Il concetto di “è puro cinemaaaaa” è in origine un concetto virtuoso, utile a descrivere quel senso di cinematic, appunto, il senso di un’arte nuova che ha trovato il modo di darci qualcosa di unico, quel misto travolgente di realismo tangibile e fantasia sfrenata.

Ho cercato l’esempio meno criticabile possibile di questo concetto di “puro cinema” e l’ho trovato, fra i gusti miei e di quasi tutto il mondo dei cinefili, nella scena d’apertura della Dolce vita: l’elicottero che trasporta una statua di Gesù sopra Roma, sopra le borgate, sopra i viali della Roma ricostruita del dopoguerra, è puro cinema. Non c’è niente da fare. È veramente qualcosa che nessuno può dire con un’altra forma d’arte. La potenza del cielo, il frastuono dell’elicottero, i tetti con i curiosi che cercano di capire sto Gesù di pietra dove sta andando… Le parole per dirlo non rendono l’idea; non ci farei una poesia; al limite una costosa installazione; ma è chiaro che è soprattutto Puro Cinema.

Fino a qui, tutto bene.

Ma quando sento dire che Super 8 di Abrams è un omaggio al cinema, e sento il romano cinefilo in me gridare al puro cinema per ogni idea feticista del film, e poi vedo il film e mi accorgo che ha una storia senza senso in cui dei nerd adolescenti trovano alla fine del primo tempo un coraggio dell’altro mondo e nel secondo tempo affrontano un alieno per liberare dalla paura la terra, penso che questa storia del Puro Cinema sia diventata un equivoco: è come se certi registi bravi, non sapendo raccontare davvero le storie, si affidassero al gusto generico del cinefilo romano che è in noi, gli sparassero due tre scene de puro cinemaaaaa per saziarlo, e si risparmiassero la fatica di scrivere sul serio il film.

Il patto tra regista e cinefilo romano è che il cinefilo romano se ne sta zitto, fa oooooh di fronte a quel paio di scene madri, e chiude un occhio, anzi proprio si diseduca, di fronte ai buchi di sceneggiatura; in cambio il regista gli dà alcune scene di puro cinema, bombastiche, “memorabili”, che per esser meglio ricordate vengono pure accennate nel trailer e diventano come dei ritornelli, dei ganci per ricordarci cos’è in sostanza il film.

Siccome Puro cinemaaaaa per ora me lo immagino esclamato solo a Roma, faccio tre esempi di film italiani che mi paiono fatti allo scopo di far gridare Puro Cinemaaaaa al cinefilo romano, in cambio dell’amnistia sui copioni.

Prendiamo tre validi film italiani recenti: This Must Be the Place, Il Gioiellino, Habemus Papam.

In Habemus Papam è Puro Cinema il trionfo surrealista del torneo di pallavolo dei cardinali arbitrato con entusiasmo morettiano da Moretti psicanalista del papa in pectore. Mentre lo si guarda, il film fa gridare al miracolo. Quelle vesti lunghe gualcite e svolazzanti per il gioco, come di chierichetti, “valgono da sole il biglietto”. I grandi tableaux surrealisti ci fanno scordare di domandarci di cosa esattamente sia allegoria questa storia non realistica su un presunto uomo di potere – il neo-papa – che affronta una crisi morale semplicissima e privata, mentre i suoi colleghi cardinali, che in fondo noi cinefili romani abbiamo sempre considerato altrettanto avidi e macchinatori di un aspirante papa, si rilassano con la pallavolo. Di cosa parla esattamente Habemus Papam? Non di uomini di potere. Forse degli alunni di una scuola elementare di Monteverde Vecchio.

Nel Gioiellino di Andrea Molaioli ci abbagliano le perfette scene retro di ricchezza anni Ottanta: l’aeroplano privato, la Lancia Thema Ferrari, il packaging di latte yogurt e merendine, le divise dei calciatori. Poi ci sono due scene in stile Sorrentino, in stile film italiano sui temi sociali ma glamour: 1) quando ci si disfa dei libri contabili e la carta nevica nel bel palazzo dell’azienda. 2) La cittadina italiana di notte: ricca, vuota e illuminata. Ma per raccontare la storia di corruzione del Parma di Tanzi, il film macina scenette didascaliche, spiegoni riassuntivi, aggiungendovi un amplesso passionale in un albergo di New York tra due dei protagonisti per tenerci almeno eccitati.

This Must Be the Place di Paolo Sorrentino è un film per vogliosi di Puro Cinemaaaaa: ci sono i ripetuti piani sequenza in cui si passa dalle case popolari dublinesi al modernissimo stadio tutto trasparente che si leva come un Ufo proprio dietro il quartiere; c’è la partita a handball tra marito e moglie nella piscina svuotata della villa; c’è il viaggio in pickup nei grandi spazi aperti americani, sotto un cielo infinito; c’è il soggettone in tutina monocolore che pattina sussiegoso sui rollerblade a Central Park; c’è la madre che abbraccia il figlio nella piscina prefab in cima a una brulla collina, in mezzo al deserto; c’è perfino l’autostop all’indiano che poi scende in mezzo al nulla e va per la sua strada. Il film, che procede incerto, diviso in due com’è tra la parte circolare dublinese e il road movie del secondo tempo, culmina in un finale da svendita totale di puro cinema con: distese di neve e ghiaccio, un vecchio rachitico nudo che cammina infreddolito nel niente, un bungalow alle spalle, una macchina parcheggiata.