Attualità

Punti deboli

Parliamo di stroncature di libri: cosa significa scriverle e cosa significa esserne vittima. Uno scrittore e recensore riflette sull'arte di demolire le opere altrui. Quando si scade sul personale, ma anche quando il rischio è di auto-censurarsi.

di Cristiano de Majo

Pubblichiamo un estratto dal nuovo numero di Studio, che per l’occasione cambia nome e diventa Scrivo. Si tratta di uno speciale annuale soltanto digitale dedicato al mondo della letteratura e, per l’appunto, all’arte dello scrivere. I possessori di iPad possono scaricarlo direttamente dalla nostra applicazione (che, in caso non ce l’aveste, è qui), mentre tutti gli altri possono rivolgersi all’edicola virtuale di PortReview, dov’è in vendita.

*

1.

Dopo essermi ciucciato le quasi cinquecento pagine che Guido Mazzoni intitola, con semplicista superbia, Poesie, ho diritto, perdio, a una qualche ricompensa. Voglio – mi si perdoni la francioseria – pagarmi la sua testa di professore canterino e non ho paura di rovinarmi: la spesa è piccola e il divertimento è grande. Il senatore Mazzoni mi somiglia a un di quei passerotti agevolini che girano liberi per la casa; cantan male, cacano ogni momento e ti sono sempre attorno anche quando non avresti voglia nè di sentirli nè di vederli. Non danno, in fondo, gran noia, ma non si può fare a meno, una volta o l’altra, di pestarli o spiaccicarli.

Incluso in un volume intitolato Stroncature, questo che appare sopra in corsivo è il passo di  un violento attacco all’opera di Guido Mazzoni e, si è tentati di dire, alla sua intera parabola umana, uscita nel 1913 dalla penna di Giovanni Papini (Firenze 1881) forse il più malefico stroncatore letterario del Novecento italiano.

Si parte con un scontro frontale, sprezzante – il passerotto da spiaccicare che canta male e caca in ogni momento  – un’umiliante presa di wrestling, per arrivare dopo qualche pagina al dettagliato elenco delle citazioni, cioè delle motivazioni che hanno generato in Papini così tanto livore.

In questo mondo, come tutti sanno, le “selve” sono sempre “tacite”; le “estasi” sempre “beate”; la “speme” sempre “fiorita”; la “plaga” sempre “ignota”; i “raggi” sempre “miti”; le “praterie” sempre “verdi”. […]Chi abbia un po’ di pratica della poesia italiana può indovinare, vedendo di sfuggita una parola, quale sarà l’altra destinata a seguirla: il Mazzoni adopera continuamente le coppie più centenarie, più grinzose, più solite, più comuni, più usate che sia dato trovare.

Il problema è che, a ogni riga, il discorso critico finisce per diventare un impietoso giudizio sulla persona, sui modi discutibili in cui si è fatto strada nella società culturale italiana (leccando il culo a Carducci, secondo Papini), arrivando persino a ridicolizzarne la sfera intima: Egli ha tentato di poetizzare la vita del piccolo borghese casalingo perché le altre non seppe e non potè gustare. V’immaginate voi il prof. Mazzoni che fa all’amore?

In un ipotetico manuale di psicologia della stroncatura il caso Papini contro Mazzoni sarebbe da inserire nel capitolo “Furia cieca”, che potrebbe essere più prosaicamente intitolato “Fai schifo”. Mentre nel capitolo “Sarcasmo in punta di fioretto” si dovrebbero mettere i brillantissimi pezzi scritti da Martin Amis nel corso della sua quarantennale attività critica, di cui a novembre Einaudi pubblicherà una raccolta scelta.

Per Amis: Provare piacere nell’insultare qualcuno è una forma di corruzione data dal potere che può avere il suo fascino quando si è giovani.  Comincia a non piacere più quando finalmente si capisce che comunque gli altri si impegnano in quello che fanno, ci rimangono male e non dimenticano facilmente.*

Un discorso che ha un fondamento serio e che tuttavia non è in grado di mettere così in cattiva luce le magnifiche, divertentissime, persino condivisibili stroncature dello scrittore inglese a nomi sacri della letteratura mondiali quali Burroughs (in toto), Roth (per Il teatro di Sabbath), DeLillo (per Mao II). E se nel primo caso non si va tanto per il sottile – si potrebbe anche buttar via tutto: la sua statura di scrittore resterebbe immutata – negli altri due l’analisi riesce a essere al tempo stesso tagliente e rispettosa, una impossibile via di mezzo tra la presa per il culo e l’omaggio. D’altra parte anche chi ha amato questi scrittori non può non riconoscere nelle parole di Amis il barlume di un sentimento che, leggendo i loro romanzi, ha provato.

Su DeLillo, per esempio:

Ben presto, tutti cominciano a parlare come il protagonista (una tendenza diffusa nel romanzo di idee). E tutti non fanno che dichiararsi d’accordo con lui a ogni piè sospinto: “Mi piace la tua rabbia”, “interessante”, “molto bello, davvero”. A un certo punto Karen dice: “Io non ci penso mai al futuro”. E poi abbiamo: “Tu vieni dal futuro”, disse lui tranquillamente. Quando i personaggi principali parlano “tranquillamente” sappiamo che stanno dicendo qualcosa di profondo. […] DeLillo riesce meglio – riesce magnificamente – quando interpreta senza teorizzare.

E su Roth:

I pericoli, quando si scrive di sesso in modo concertato, sono numerosi e Roth di certo non li scansa. Alla sua sinistra c’è la Scilla della banalità, a destra la Cariddi della pornografia. Così rimbalziamo dai “seni soffici e pieni che non avevano mai smesso di attrarlo” ai gorgoglii primitivi “Ohhhh. Ohhhh. Ohhhh” e ai “Lì! No, lì! Proprio lì, sì, sì! Lì! Lì! Lì! Sì! Lì!” e ancora “Oh! Oh! Oh! Mickey! Oh, mio Dio! Ahhh! Ahh! Ahh!”. […]Per quanto infelice, il maschio di Roth non ha intenzione di tramandare ai posteri la sua infelicità. La ragione per cui la gente fa figli è, se non buona, di una certa portata. A prescindere dalle strade che prenderanno, i figli prolungano la storia dei genitori. Ti accompagnano fuori dal tuo deserto biologico, dove senti solo il vano chiacchiericcio del sesso e della morte. E fra tutte le coppie, il sesso e la morte sono la più terribile.

L’impeccabile stroncatura edipica di David Wallace a Verso la fine del tempo di John Updike, contenuta in Considera l’aragosta, a distanza di anni, sembra uno dei pezzi  che meglio invecchiano di quella celebrata raccolta di saggi.

Proprio in quest’articolo, pubblicato nel 1995 sul Sunday Times, l’Amis stroncatore sembra dare il meglio di sé, incarnando  uno dei più luminosi esempi di stroncatura edipica o generazionale. Infatti, al di là dei rilievi stilistici che vengono fatti al romanzo, il tema di fondo è la difficoltà o l’impossibilità per il recensore di condividere la visione del personaggio (Mickey Sabbath) che, in questo caso, sembra coincidere con quella dell’autore. L’esaltazione del binomio sesso-morte, l’apologia dell’adulterio, il rifiuto più completo dell’altro binomio amore-famiglia possono essere oggetto d’immedesimazione per quella che David Foster Wallace ha chiamato la generazione dei Grandi narcisisti (Mailer, Updike, Roth), molto meno per quella dei loro figli letterari, che per reazione hanno negli anni maturato avversione per personaggi così simili ai loro padri reali. L’impeccabile stroncatura edipica di David Wallace a Verso la fine del tempo di John Updike, contenuta in Considera l’aragosta, e che oggi, a distanza di anni, sembra uno dei pezzi  che meglio invecchiano di quella celebrata raccolta di saggi, parla anch’essa esattamente di questa avversione.  Esattamente dell’impossibilità per un lettore di un’altra generazione di appassionarsi alle spettacolari, drammatiche, nevrotiche evoluzioni del binomio sesso-morte celebrate dalla generazione dei Grandi narcisisti.

La mia idea è che per i giovani istruiti degli anni Sessanta e Settanta, per i quali l’orrore massimo era il conformismo ipocrita della generazione dei loro genitori, l’evezione di Updike dell’io libidinoso sia apparsa come una ventata d’aria fresca. Ma molti under quaranta di oggi, giovani adulti degli anni Novanta – che sono, ovviamente, il frutto delle focose infedeltà e dei divorzi descritti da Updike con tanta bellezza, e che hanno assistito al deteriorarsi di tutto questo mirabile individualismo e libertà sessuale nel lassismo privo di gioia e anomico della Me Generation – hanno orrori molto diversi, fra i quali spiccano anomia, solipsismo e una solitudine squisitamente americana: la prospettiva di morire senza aver mai, nemmeno una volta, amato qualcosa al di fuori di se stessi.

Nell’ipotetico manuale di psicologia della stroncatura, il capitolo sulla stroncatura generazionale, intitolato “Edipo review”, occuperebbe una parte centrale, la più sofferta e coinvolgente. Uccidere un padre, anche se metaforicamente, non è mai una passeggiata, ma prima o poi bisogna farlo per diventare adulti.

2.

La stroncatura è una forma che produce in chi la scrive una specie di euforia che può dare dipendenza. Si assume un tipo di tono che può facilmente trasformarsi in un tic stilistico.

Non sono uno stroncatore abituale. Sulla rubrica quindicinale che tengo da due anni su rivistastudio.com credo si possano trovare, su più di cinquanta pezzi, forse cinque o sei stroncature in senso stretto, le ultime: quella a ZeroZeroZero di Roberto Saviano, quella a Viaggi e viaggetti di Sandro Veronesi, quella, più recente, a Maestri di finzione di Francesca Borrelli.  Eppure sono in teoria un convinto sostenitore dell’utilità della stroncatura. Dell’utilità per il lettore. E in alcuni limitati casi per lo scrittore stroncato.  I motivi per cui non lo faccio abitualmente sono vari: 1) La stroncatura è una forma che produce in chi la scrive una specie di euforia che può dare dipendenza. Si scrive con la sensazione di avere un effetto preciso sulla realtà e sulle persone e si assume un tipo di tono che può facilmente trasformarsi in un tic stilistico. Una volta trasformato in tic, la frittata è fatta: siamo nel campo della pura, pretestuosa denigrazione. 2) La stroncatura come genere è in grado di stabilire una relazione di fortissima empatia tra stroncatore e lettore, tale da produrre un travaso integrale dall’opinione del primo a quella del secondo: una supplenza delle idee che bisogna gestire secondo me con senso di responsabilità. 3) Quella forma di vertigine euforica che la stroncatura fa provare a chi la scrive ha un pericoloso rovescio della medaglia, che in fondo è anche il motivo per cui scriverla genera euforia – l’euforia del salto nel vuoto – e si chiama: tagliare i ponti. Mi è capitato di essere sul punto di scrivere una cattiva recensione di un libro di un autore che conoscevo abbastanza bene: mi sono fermato un attimo prima. E mi è capitato di fermarmi un attimo prima altre volte per bieche ragioni utilitaristiche. Quando, per esempio, ho temuto che scrivere male di un certo libro avrebbe reso difficili se non impossibili  collaborazioni potenziali legate in qualche modo alla parte che avrei potuto offendere. Tra l’altro, non è bastato a fermarmi, ma anche mentre scrivevo male del libro di Veronesi pensavo: sto tagliando i ponti con uno dei migliori scrittori italiani, sto tagliando i ponti con Fandango, e mentre scrivevo una moderata stroncatura a Mr. Gwyn di Baricco su Studio di carta, pensavo che non sarei mai stato chiamato alla Holden per una collaborazione. Colpa della congenita assenza di rigore e di laicità delle nostre latitutidini, si sarebbe tentati di dire. E si sarebbe tentati di dire: può scrivere stroncature solo chi gode di un contratto a tempo indeterminato, chi ha la sicurezza del Welfare e non si trova costretto a procacciarsi nuovi lavori ogni giorno della sua vita. Ma, a ben vedere, le ripercussioni nefaste per lo stroncatore sul piano lavorativo non possono essere considerate un fenomeno solo italiano.

Una delle  più belle e analitiche stroncature che abbia mai letto – la lunga e acidissima disamina  di When the Lights Go Down, raccolta di recensioni cinematografiche di Pauline Kael, firmata dalla sua collega al New Yorker Renata Adler  e uscita nel 1981 sulla New York Review of Books – causò alla stroncatrice non pochi problemi. Anche in quella che ci figuriamo come la laicissima e rigorosissima societa culturale newyorkese, scrivere male di un libro di una collega di giornale sembrò un affronto imperdonabile e fu considerato una specie di raptus isterico nonostante il giudizio negativo fosse molto ben argomentato. Al punto che quel pezzo, intitolato The Perils of Pauline, rappresentò per la Adler l’iniziò di un declino professionale che progressivamente la allontanò dal centro della scena del giornalismo culturale americano.

[Pauline Kael] ha un vocabolario sottolineato con circa nove parole preferite, che ritornano centinaia di volte, spesso molte volte per pagina, in questo libro di quasi seicento pagine.

Sul perché una stroncatura possa fare tanti danni, arrivando a provocare sentimenti di vendetta, la questione è probabilmente stilistica, sta cioè nello stile che il recensore si trova ad adottare in automatico quando vuole parlare male di un libro. Ed è uno stile che prevede implicitamente l’offesa, il sarcasmo, l’umiliazione. Scrivere una stroncatura senza sarcasmo è come scrivere un giallo senza delitto. Ma  è impossibile non chiedersi perché, quando leggiamo un libro che non ci piace, la tentazione istintiva sia quella di fare del male (spiritualmente) al suo autore. Sembra che nessun mezzo espressivo sia in grado di suscitare antipatia quanto la scrittura.

Non molto tempo fa, ho ricevuto un’istruttiva lezione da un’autrice a cui ho senz’altro fatto un po’ di male. La sua risposta via mail a una mia stroncatura è stato l’esempio più elegante e aperto di reagire a una recensione negativa a cui mi sia capitato di assistere. Nel riconoscere alla mia analisi un fondamento, l’autrice si riprometteva addirittura di meditare sui suoi difetti. Una reazione che ha completamente cambiato le carte in tavola. Se, leggendo quel libro, avevo desiderato anche solo per brevi momenti che l’autrice soffrisse (spiritualmente), dopo la mail ho iniziato a sentirmi in colpa o persino a dubitare delle giuste ragioni della stroncatura che avevo scritto.

3.

La scrittura sembra in grado di suscitare antipatia come nessun altro mezzo espressivo. Non solo verso le cose scritte da altri, ma anche verso le cose scritte da se stessi

Forse è per questo che adesso sento il bisogno di parlare male di me. Dal 2005 a oggi ho pubblicato quattro libri, più racconti in numerose antologie. Non ho mai ricevuto stroncature vere e proprie. Invece ho spesso ricevuto indifferenza sotto forma di recensioni sterilizzate da qualunque valutazione critica.  Ma una volta, in un articolo dai toni elogiativi uscito su Alias, Daniele Giglioli chiosava in questi termini: qualcosa è andato storto ma de Majo lo sa, è alla sua prima prova. A parte il fatto che non ero alla prima prova, mi sento di dire che no, non lo sapevo e ci sono rimasto male. Se quel libro fosse stato di un altro, dopo aver letto l’articolo, nonostante  non fosse una stroncatura, penso che non lo avrei comprato. Sembra incredibile, ma riaprendo a distanza di anni  la cartellina che contiene la rassegna stampa dei libri che ho pubblicato e delle antologie a cui ho partecipato, dopo aver riletto una buona parte degli articoli, mi sono reso conto che  il pezzo di Giglioli non mi dava più fastidio, mentre mi sono sentito molto imbarazzato nel leggere i pezzi più elogiativi ed entusiastici. L’imbarazzo di chi ha preso per il culo qualcuno e poi se ne vergogna.

Anzi, non è incredibile, perché oggi, mi provo vergogna al pensiero che quei libri possano ancora essere letti. Io stesso non ho mai avuto il coraggio di riaprirli. E so perfettamente, anche senza averli riaperti, da che genere di problemi sono afflitti. Problemi di ingombranti influenze non ancora assorbite soprattutto. Scorro mentalmente le pagine che ho scritto e tutto mi sembra troppo uguale a qualcos’altro che c’era già. E dire che sono stato definito un autore “tra i più originali”. Arrivo a chiedermi, ripensando a un certo passaggio, a una certa scelta strutturale o stilistica, quale fortunata coincidenza ha fatto sì che quei libri e quei racconti abbiano prodotto altri libri, altri racconti, addirittura collaborazioni pagate. Penso al mio nome scritto su quelle copertine e provo il desiderio impossibile da realizzare di aggiungere tra parentesi: (Non proprio lui).

Dunque, vediamo… Questo l’inizio: un racconto scritto come parodia di una soap opera, il cui unico pregio era la sola idea di scrivere un racconto imitando una soap opera; per il resto, una cosa veramente vuota. Alla notizia che sarebbe stato incluso in un’antologia che si proponeva di raccogliere Il meglio delle riviste letterarie italiane, aspettative irrealistiche, un senso trionfale di vittoria personale.  Dopo l’uscita, un grandioso sentimento di frustrazione. Com’era possibile, mi chiedevo, che nessuno notasse il mio genio? Ma in alcuni caratteri predisposti, la frustrazione è una spinta ad alzare la posta. Ci si convince che questa sarà la volta buona e, con un entusiasmo che sconfina nella disperazione, si ricomincia a scrivere…

4.

Quando sopra dicevo che la scrittura sembra in grado di suscitare antipatia come nessun altro mezzo espressivo, non avevo ancora considerato l’interpretazione più possibile estensiva della tesi. Antipatia non solo verso le cose scritte da altri, ma anche verso le cose scritte da se stessi, se si esclude quel folle periodo drogato che sta tra la fine della stesura di qualcosa e l’elaborazione del lutto per aver beckettianamente fallito ancora.

E se immaginassimo lo scrittore di stroncature come un burattino guidato inconsapevolmente dall’autore ventriloquo?

 

*Tutte le citazioni dei pezzi di Amis sono state tradotte da Federica Aceto.