Attualità

Psicoanalizzare Lena Dunham

Esce oggi Non sono quel tipo di ragazza, il libro per cui Lena Dunham ha firmato un contratto milionario con Random House. Come ha fatto una ragazza di 28 anni a diventare la voce della sua generazione?

di Anna Momigliano

Pubblichiamo un pezzo estratto dalla cover story del numero 21 di Studio, che trovate in edicola, in libreria e sulla nostra applicazione per iPad. La soluzione più comoda per leggerci in formato cartaceo e digitale è sempre l’abbonamento.

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Lena Dunham vuole essere psicoanalizzata – da voi. Voi, spettatori (assai più spesso: spettatrici) di Girls, la fortunata serie Hbo da lei ideata e interpretata, trasmessa in Italia su Mtv, e che nel 2015 arriverà alla quarta stagione. Voi, lettori del New Yorker, che le ha pubblicato “personal essays” su temi come il primo amore e il suo desiderio di avere tanti cagnolini, con tutte le carenze affettive che esso implica (nota: anche Hannah Horvath, la protagonista di Girls, ha la fissa dei “personal essays”, quel genere di articoloni dal tono apparentemente colloquiale, ma in realtà ben ruminati, intimisti e, secondo i detrattori, un pochino ombelicali, che in questi anni sta vivendo una seconda giovinezza). Voi, infine, futuri lettori del suo libro: Not That Kind of Girl: A Young Woman Tells You What She’s “Learned”, che esce oggi, in contemporanea negli Stati Uniti e in Italia, dove è edito da Sperling&Kupfer e si intitola Non sono quel tipo di ragazza).

Prima dell’uscita del libro, di Not That Kind of Girl era possibile leggere un estratto, apparso sul New Yorker qualche settimana fa. Ma il buzz mediatico intorno al libro andava avanti da quasi due anni, e cioè da quando s’era sparsa la voce che Lena Dunham aveva firmato un contratto da 3,5 milioni di dollari, circa 2,7 milioni di euro, con la casa editrice Random House: non male per una ragazza di 26 anni (oggi ne ha 28) alle prese con la sua prima fatica letteraria. Certo, molto prima del contratto con Random House, Lena era già stata eletta a «voce della sua generazione» da quelli che hanno preso più sul serio la sua serie Tv, come Chloe Pantazi di Salon e Rob Sheffield di Rolling Stone (nota n.2 sulla sovrapposizione di Lena Dunham col suo alter-ego Hannah Horvath: quando la protagonista di Girls annuncia ai suoi genitori di volere diventare una scrittrice, dice proprio così, «penso che potrei essere la voce della mia generazione»).

Certo, molto prima del contratto con Random House, Lena era già stata eletta a «voce della sua generazione» da quelli che hanno preso più sul serio la sua serie Tv.

Altri, a dire il vero, come Simon Hattenstone sul Guardian, si sono limitati a descrivere la serie come «un Sex and the City per le ventenni», paragone che comunque non sembra infastidire l’autrice più di tanto. Tutto questo per dire che esiste un disaccordo sulla dignità letteraria di Girls, la cui cifra può essere riassunta in frasi come «sesso, gossip e disturbi alimentari nell’era del precariato lavorativo» oppure «essere femmina e avere vent’anni è la cosa più terribile, mostruosa e a tratti sublime che possa capitare a un essere umano», a seconda di come la si pensa. Ed è forse anche a causa di questa ambivalenza che quando Random House ha diffuso la notizia del contratto, descrivendo Lena come «un raro talento letterario», si è scatenata una serie non comune di reazioni mediatiche. Tanto per cominciare, diversi siti hanno ottenuto e commentato il “book proposal”, insomma l’email con cui Dunham sottoponeva ai potenziali editori la sua idea per un libro.

L’unico che ha pubblicato quasi per intero il “book proposal”, salvo poi essere costretto a rimuovere il post dagli avvocati di lei, è stato Gawker, che ha pure aggiunto una serie di commenti al vetriolo: «l’intera proposta emana una precocità nauseante e stucchevole», ha scritto John Cook. Il giornalista accusava l’autrice di «narcisismo da primadonna», di «vivere in una bolla di privilegiati che si guardano l’ombelico» e di essere «incapace di concepire una ragione per scrivere che non sia attirare l’attenzione su di sé». Inoltre ha descritto la qualità letteraria del progetto «al livello del, sai, ho seguito un corso all’Oberlin college». Fatto interessante, pare che Lena Dunham abbia detto all’editore di volersi rifare al bestseller di Gurley Brown Having It All, insomma, di volere scrivere quel tipo di libri che danno consigli alle ragazze moderne. A leggere l’estratto anticipato dal New Yorker, però, si direbbe che più che un libro di consigli Not That Kind of Girl sia un classico memoir. In breve, il capitolo anticipato parla dell’infanzia e dell’adolescenza di Lena, passate in compagnia di una forma non leggera di disordine ossessivo compulsivo, il genere di cose che ti porta a chiedere a tua madre di assaggiare ogni tua pietanza “così nel caso moriremo insieme” e a ripetere otto volte, non sette e non nove, ogni singolo gesto. No, non è sul «livello del, sai, ho seguito un corso all’Oberlin college». Però, sì, è tutto molto ombelicale e ambientato «in una bolla di privilegiati che si guardano l’ombelico».

No, non è sul «livello del, sai, ho seguito un corso all’Oberlin college». Però, sì, è tutto molto ombelicale e ambientato «in una bolla di privilegiati che si guardano l’ombelico».

Lena non si limita a descrivere il suo rapporto con la malattia e il lavoro di psicoanalisi che l’ha portata (più o meno) a conviverci meglio. Come ha brillantemente fatto notare Eliana Dockterman su Time, «Dunham ci sta invitando a psicoanalizzare il suo lavoro», che poi è più o meno quello che aveva già fatto con la serie Girls: se spesso i libri e le serie Tv che esplorano da vicino le nevrosi dei loro protagonisti (basti pensare ai Soprano!) mettono il lettore/spettatore nei panni del paziente, le creazioni di Lena Dunham puntano a trasformare il loro interlocutore nell’analista – talvolta correndo il rischio di essere didascaliche o fin troppo prevedibili.Nelle prime due pagine dell’estratto del New Yorker sono già chiare due cose: Lena è morbosamente attaccata alla madre e soffre di un disturbo ossessivo compulsivo.

Tutto è spiattellato con un linguaggio che punta non a suscitare compassione o empatia, bensì a solleticare l’interesse intellettuale del lettore/analista della domenica. Che ovviamente unisce i puntini, giunge alla conclusione che Lena è in uno stato di ansia cronica che la spinge a controllare perennemente le cose onde avere l’illusione di avere un controllo sulla propria esistenza, e che questo stato di perenne ansia è causato dal mancato distacco dalla madre, dal fatto che, come un bambino di otto mesi, Lena non riesce ad accettare il suo essere un individuo a sé stante. Ah, mentre unisce questi puntini il lettore/analista della domenica si sente molto intelligente. Poi però si rende conto di essere caduto in pieno nel tranello dell’autrice, che puntava esattamente a questo, cioè ad attirare l’attenzione su di sé trasformandosi in un caso clinico. Forse Gawker aveva ragione, Lena Dunham è «incapace di concepire una ragione per scrivere che non sia attirare l’attenzione su di sé». Che poi non è necessariamente un male. Basta saperlo.
 

Dal numero 21 di Studio, in edicola.

Foto Getty Images.