Attualità

Post-fumetti

Intervista con Dan Nadel, fondatore di PictureBox, casa editrice che in meno di un decennio ha ridefinito il concetto di comics indie americano.

di Timothy Small

Cobble Hill è la definizione di quello che Lena Dunham chiama “Grown-up Brooklyn” nella puntata pilota di Girls. Io stesso, quando passo del tempo a Brooklyn, sto in una versione di Grown-up Brooklyn, dalle parti di Fort Greene – che non è la Brooklyn di Williamsburg e di Greenpoint e di Bushwick e dei venticinquenni che lavorano nei media e spendono i soldi dei genitori per sviluppare un prematuro problema di cocaina. È la Brooklyn delle adorabili casette di pietra con le scale davanti e gli alberi ovunque e i ristoranti arredati con segni stradali alle pareti e sedie sfondate ai tavoli dove i tacos, però, sono conditi con il tartufo di Alba e costano ventidue dollari. La Brooklyn dove non trovi un sedicenne manco a pagarlo, ma dove le coppie miste con tre figli sono in saldo.

Dan Nadel, fondatore, editor e factotum della Picturebox, casa editrice fondata nel 2004, vive in un appartamento al secondo piano di una di queste adorabili casette, proprio su Court Street, una di quelle vie che appena le vedi pensi a quanto vuoi mettere su famiglia, che al confronto Fort Greene sembra uno studentato, la Brooklyn più Grown-up che c’è, la Brooklyn, per darvi un’immagine di Brooklyn consolidata nel nostro immaginario nazionale (forse l’unica immagine di Brooklyn consolidata nel nostro immaginario nazionale), della casa de I Robinson. È da questo appartamento che Dan fa tutto da solo: 70 pubblicazioni in otto anni, che spaziano dal libro del leggendario visual designer e artista Bob Zoell alla zine del visionario C.F. al manuale di regia di Michel Gondry alla ristampa dei romanzi della leggenda del noir Charles Willeford al libro fotografico della crew hip-hop più trending topic dell’anno, la Odd Future Wolf Gang Kill Them All. Oltre ad una particolare sensibilità pluridisciplinare che permette a Nadel di pubblicare cose così eterogenee, il vero nucleo del suo lavoro è legato alla cultura visiva, e nello specifico alla cultura visiva underground americana, e ancora più nello specifico a come questa si esprime nel mondo del fumetto. Nadel pubblica, in poche parole, libri d’arte di predecessori quali Robert Wirsum e Trenton Doyle Hancock, e poi un librone in due volumi che raccoglie l’opera dell’immenso Gary Panter, ispirati dal lavoro di Wirsum, e poi i fumetti iper-contemporanei di Brian Chippendale, C.F., Mat Brinkman, Ben Jones, Benjamin Marra, Frank Santoro, ispirati a loro volta dal padre del fumetto underground, Panter. È così che Nadel traccia una storia della cultura visiva americana degli ultimi 50 anni. Questi ultimi, poi, in poche parole, sono i più interessanti artisti  a lavorare nel fumetto underground americano contemporaneo, quelli che hanno ridefinito l’idea stessa del fumetto dopo la grande rivoluzione dei graphic novel alla fine degli anni Novanta, quella di Daniel Clowes e Chris Ware.

Un’ultimo dettaglio che mi pare necessario riportare, per dare colore al personaggio: Dan Nadel vive con un cane chiamato Mr. Fatty Pants. Cane che, durante la mia visita primaverile, non ha abbaiato nemmeno una volta. A dispetto del nome, non mi è sembrato un cane particolarmente ciccione.

TS: Com’è nata la Picturebox?

DN: La Picturebox è nata come evoluzione di Ganzfeld, un’antologia che curavo e pubblicavo, che mutava forma in base al suo contenuto. L’idea originale era solo quella di lavorare con gente interessante e cercare di fare dei libri che fossero davvero dei riflessi della loro sensibilità, senza aderire ad alcuna costrizione di formato. È per questo che i primi libri furono i libri dei Black Dice e di Paper Rad e Me A Mound di Trenton Hancock. Era quella l’idea: creare un tipo di casa editrice che non esisteva, che pubblicasse libri di qualsiasi tipo, di qualsiasi genere, con qualsiasi mezzo.

E quanto è cresciuta la cosa, da quei primi anni?

Be’, in termini di numeri di stampa, siamo sempre lì [ride]. Ma il pubblico è cresciuto. Comunque, ho cominciato pubblicando libri di figure di culto nell’ambito dell’underground, gente con un suo pubblico già stabilito. Era rischioso, perché nessuno lo stava facendo, ma comunque sapevo che là fuori esisteva un pubblico per queste cose, e oggi posso permettermi con una certa sicurezza di pubblicare un libro di disegni di C.F. oppure un libro di fumetti di Brian Chippendale e sapere che non sarà presa come una follia ma che c’è un gruppo sempre maggiore di persone che segue i miei autori di anno in anno.

Considerando la varietà di cose che pubblichi, viene da chiedersi se sia tutto fatto un po’ a caso, in base ai tuoi gusti del momento, o se segui una forma di pianificazione.

Mah, quello era il piano dall’inizio, ma alcuni accorgimenti sono occorsi un po’ per via di un adattamento alla realtà oggettiva del mercato. Parlo del fumetto: in realtà c’è un pubblico maggiore per il fumetto rispetto a quanto  non ci sia per il libro d’arte o per il libro di una band. C’è più una cultura dell’acquisto. Quindi è stato più facile creare una sorta di nicchia di mercato in quel campo. Ma sì, quell’equilibrio tra le diverse forme è basata interamente sui miei interessi.

Chiaro.

Anche perché alcuni libri richiedono anni di lavoro, altri possono essere pronti in due mesi, quindi a volte l’equilibrio salta, e mi trovo alla fine dell’anno con un catalogo di soli fumetti o di soli progetti da galleria.

Quindi, alla fine, stai vendendo una tua sensibilità.

Una sensibilità. [ride] Suona molto europeo. Come vendere “una fragranza”.

Dai, sai cosa intendo.

Be’, sì, è quella l’idea.

Quindi il tuo lettore ideale è praticamente un tuo clone?

Oddio, se la metti così è terrificante! In realtà il mio pubblico ideale è la gente con cui lavoro: Ben Jones, Christopher Forgues… sai com’è, ci vediamo, parliamo di questa roba, della roba che ci interessa. Ma sì, è un pubblico proiettato da una sorta di narcisistica speranza che la gente là fuori abbia lo stesso gusto crudo e fantastico che ho io. Ovviamente, non è un’aspirazione molto lecita. O sana.

Ma speri anche di creare connessioni culturali? Tipo, che ne so, magari gli Odd Future, tramite te, iniziano ad apprezzare C.F., e gli chiedono di disegnare, chessò, la copertina del loro nuovo disco. Cose del genere.

Sei fantasticamente ottimista. Guarda, nella mia esperienza, la gente non sviluppa interessi così rapidamente. Nel senso, ok, magari uno che legge Yuichi Yokoyama potrebbe comprare il libro di C.F., ma non è che quello che ha comprato il mio libro sul design delle copertine dei dischi psichedelici anni ’70 poi si compra pure gli albi di Frank Santoro o un romanzo di Willeford. Sarebbe bello, ma non funziona così.

Senti, secondo la definizione di fumetto post-moderno, o di fumetto post-fumetto, ha un senso? Quest’ultima l’ho inventata io.

Fumetto post-fumetto! [ride]

Ok, ok. Mi chiedevo, secondo te questi artisti – chiamali come vuoi – fanno parte di un “movimento”?

Ho una teoria su questo. Io penso che la gente come C.F., Brinkman e Brian e questi qui siano, in fondo, dei tradizionalisti. C’è tutta questa gente che parla di quanto siano avant-garde e bla bla bla, quando in realtà il loro lavoro deriva molto direttamente da quello che veniva pubblicato sui giornali prima della guerra, e dall’estetica heavy metal, dalla musica, dall’arte, e dalla cultura del fumetto, specialmente europeo. Ovviamente sono anche molto influenzati dalla cultura degli anni ’80, dai fumetti Marvel e dai videogiochi e da quella roba lì. La cosa che li distingue dagli altri è che filtrano tutte queste influenze tramite delle sensibilità estremamente personali. Lavorano con una mano nella cultura tradizionale e commerciale e mainstream, e con l’altra nel mondo dell’arte e della musica underground.

Filtrano il fumetto mainstream tramite una sensibilità underground?

Diciamo. È una generazione cresciuta con G.I. Joe e Pac-Man e una cultura di merda e che ha poi scoperto Gary Panter ed è andata alla scuola d’arte ed era probabilmente più interessata a guardare le cose e creare dei mondi piuttosto che nella forma letteraria del fumetto. Per la maggior parte, non erano persone interessate a Dan Clowes e Chris Ware – ma non voglio generalizzare perché, ad esempio, C.F. venera Clowes. Non erano persone eccitate dalla rivoluzione del fumetto letterario del 2000-2001. Erano eccitate dalla roba più trashy, quel mondo rivelato da Panter, dall’approcciare il fumetto non tanto dicendo “sono un fumettista” ma “sono un’artista”. Fanno disegni, dipinti, musica e fumetti. Non hanno quella fissa con l’arte “alta” e l’arte “bassa”. Non gli interessa tanto…

Disegnare la copertina del New Yorker.

Manco lo leggono, il New Yorker. Leggono Wire.

Chiaro. La cosa che mi dà fastidio del lavoro di molti fumettisti di quella generazione del 2000-2001 è che mi pare di percepire una specie di senso di inferiorità che li spinge a dimostrare, in maniera quasi disperata, che il fumetto sia letteratura. Intendo dire cose come Blankets, o Adrian Tomine.

Già.

Cioè: la necessita di dire, “Ehi, guardate qui, anche i fumetti vanno presi sul serio! Leggi qui, che te lo dimostro”, piuttosto che, “ok, facciamo dei fumetti, divertiamoci con i fumetti, impazziamo con i fumetti, e se non ti li capisci, cavoli tuoi”.

Ci sono due lati di questo discorso. Da una parte, non devi fare l’errore di confondere come un’artista viene recepito dal pubblico e dalla critica e l’artista in sè. Non penso che potrei mai accusare Ware di fare fumetti assecondanti le richieste di mercato. Ma sì, è vero che quei fumetti, come Blankets, hanno vita facile sulle mensole delle librerie perché stanno molto più tranquillamente all’interno della percezione pubblica di cosa sia un libro. Mentre gente come Yokoyama o Chippendale o Panter, quando li leggi, in pratica devi imparare un nuovo linguaggio, perché parte della loro voglia di inventare mondi totalmente nuovi è inventare il linguaggio che ti permette di avere accesso a quel mondo. Quello è il grande regalo che ci ha fatto Panter: l’idea che con il fumetto puoi inventare un nuovo punto di vista, un nuovo modo di vedere, che non ci sono limiti. Ma vogliono comunque essere capiti. Sono preoccupati di cosa pensa ilNew Yorker? Probabilmente no. Direbbero no, se il New Yorker chiedesse loro di fare una copertina? Non penso.

Forse è questa particolare ossessione con il linguaggio unico del fumetto a separarli dalla generazione precedente. Nel senso: un fumetto di Adrian Tomine potrebbe tranquillamente essere un romanzo. Non si può dire lo stesso di Panter e di tutti questi suoi figliastri.

È vero, sono interessati a esprimere cose che potrebbero essere espresse solo tramite il fumetto. E questo li rende unici. Penso che solo il fumetto dia a un artista la possibilità di creare mondi totalmente unici con un totale controllo del linguaggio di quel mondo. Ed è questo che gli interessa.

Penso che nel mondo del fumetto, poi, stiano succedendo un sacco di cose estremamente interessanti. Cioè: le due case storiche del fumetto mainstream – la D.C. e la Marvel – ormai sono più interessate a trasformare le loro proprietà intellettuali in franchise cinematografiche piuttosto che nel fare fumetti. E la gente interessata ai fumetti deve per forza di cose uscire da quel mainstream.

Negli ultimi dieci anni la definizione di cosa sia un fumetto mainstream è cambiata radicalmente. Nel senso: l’ultimo libro di Dan Clowes vende il triplo dell’ultimo numero di Superman. Quindi, in un certo senso, Dan è mainstream, come Spike Jonze è mainstream, come un sacco di artisti molto interessanti sono diventati mainstream. È questa cosa non succedeva, nel mondo del fumetto, dai tempi dei grandi fumettisti dell’anteguerra, gente che faceva arte vera con una visione potente, che veniva distribuita e riceveva attenzione a livello nazionale. È un cambiameno che, ovviamente, è iniziato con Maus.

Ovviamente.

Ma non ha preso piede fino all’arrivo di Clowes e Ware e Tomine. Ed è grazie a loro se la gente che legge e che va alle gallerie d’arte oggi ha una mensola in casa con sopra una dozzina di fumetti.

Si può dire che il pubblico di 3 milioni di persone che leggeva Wolverine, ora legge Clowes, da quando Wolverine è diventato un beniamino delle centinaia di milioni di persone che lo segue al cinema? E che quindi la gente che leggeva fumetti underground dieci anni fa, quei centomila, diciamo, ora legge roba veramente fuori, come C.F. o Ben Jones? C’è una specie di scala mobile in questo senso?

Forse. Di nuovo, sei fantasticamente ottimista. Penso che quello che stia succedendo, in realtà, è che quei 3 milioni che leggevano Wolverine ora giocano ai videogiochi.

Già. Comunque, se ci pensi, non è sconvolgente che uno dei film con il budget più alto dell’anno prossimo sarà il film di Deadpool? Deadpool! O che il nuovo Batman di Nolan farà un fantastilione d’incassi?

Sì, lo è. Ma non so quanto questo poi avrà una influenza sui fumetti. Il fatto è che il film di Batman sarà ottocento volte migliore di qualsiasi numero di Batmandell’ultimo decennio. È solo cultura pop. Non penso che ci sarà un singolo membro del pubblico del prossimo Batman di Nolan che, uscito dal cinema, dirà, “Wow, che fico Batman, ora devo proprio andare in fumetteria a comprare un libro di Johnny Ryan.” Non c’è proprio relazione tra le due cose. Purtroppo.

Capisco. Senti, un’ultima domanda, di rito. La domanda sulla crisi. Pensi che renda la cose più facili per un operatore indipendente come te? Nel senso, se lavori con un libro stampato in 3000 copie, chissenefrega se chiudono le grandi catene di librerie. E nessuno, comunque, comprerebbe mai un libro d’arte di Panter in formato Kindle. La crisi colpirà i grandi editori generici, quello sì, ma questo aprirà un po’ il mercato. Ma, allo stesso tempo, essendoci meno soldi in giro, ci saranno meno soldi anche per il libro indipendente. Quindi, insomma, la vedi come un’opportunità? Oppure è solo più dura per tutti?

Guarda, un po’ sì e un po’ no. La crisi, è vero, non mi sta colpendo in modo drammatico, perché come dici tu, comunque i miei libri non erano in vendita nelle grandi catene. Però è anche vero che le librerie con le quali lavoro tagliano tutti gli ordini, e quindi tagliano anche quelli della Picturebox. Quello che cerco di fare è puntare sul sito, di vendere da lì, di fare offerte speciali che invitino la gente a comprare direttamente dal produttore. Avere un target più mirato e fare cose che convinceranno il mio pubblico hardcore. Chiaro, non è un piano particolarmente innovativo. Però penso che una delle conseguenze di questa crisi sia che la gente è più disposta a guardare alla cultura locale e indipendente, e a consumarla come se fosse una cosa virtuosa. Cosa che, tra l’altro, è vera.

 

 

Immagini, nell’ordine:
Gary Panter, Where to find your pot of gold
Trenton Doyle Hancock, da Me a Mound
Sammy Harkman, da Kramers Ergot
C.F., da Lone Disguiser