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Porno Decadence

Dall’altra parte del buco della serratura: un viaggio tra le poltrone, i fantasmi e le ossessioni sessuali degli spettatori delle ultime sale a luci rosse ancora aperte, da Milano a Palermo. Una storia che comincia con una visione romantica, fatta di un'epica provinciale e felliniana, e che si conclude con la constatazione che di porno, in un cinema porno, non è rimasto granché.

di Giuseppe Rizzo

Le prime volte che entravo nei cinema porno non vedevo niente. Cazzi e fiche e dialoghi scarsi, quelli li vedevo e sentivo, sugli schermi di Milano Roma Palermo. Ma avevo paura di sedermi, di stare all’in piedi, di andare in bagno: avevo paura di restare e di andare via, del buio delle luci e degli altri spettatori. Poi ho incontrato X che mi ha indicato dove dovevo guardare.

Nel 1977 negli Stati Uniti esce Guerre Stellari, a Milano apre il primo cinema a luci rosse, il Majestic. Tra il 1979 e il 1984 in Italia si iniziano a produrre le prime pellicole hard, un’industria che dà lavoro a 10-15 mila persone (Luce rossa, di Franco Grattarola e Andrea Napoli, Iacobelli editore). Da nord a sud aprono 250 sale per adulti. Quattordici a Roma, ventitré a Milano. Oggi le due città sono le prime al mondo per accessi a YouPorn, dice YouPorn (dati del 2012). Il motore di ricerca PornMD conferma questi numeri e aggiunge: gli italiani passano su YouPorn in media quasi undici minuti, primi in Europa. Di sale porno ne restano una trentina in tutto il Paese.

X è sincero, a volte titubante: preferisce non rilevare il suo nome, né in quale sala di Roma  ha lavorato né cosa ha fatto di preciso. Mi dice di stare attento a quello che scrivo, ma sempre con gentilezza, mai veramente sgomento, solo un po’ preoccupato. «Per via dei proprietari del cinema, hanno molti interessi, strip club in centro e sale giochi, non mi va di  avere guai, o che li abbia tu». Ci ha messo in contatto un’amica comune nella primavera del 2013, ha accettato subito di fare due chiacchiere. Parecchi anni fa ha iniziato a fare qualche sostituzione in uno dei cinema di Roma, poi il tempo indeterminato. Poco prima del suo arrivo, la sala proiettava cartoni animati, dalla sera alla mattina è passata al porno.

A Roma è sopravvissuto solo il cinema Ambasciatori, vicino la stazione Termini. Il Mercury si trovava di fronte al Vaticano. In piazza Esedra, al posto di quella che oggi è la multisala Warner, c’erano il Moderno e il Modernetto. Fantozzi e Pina andavano a vedere per sbaglio Le casalingue allo Splendid prima che cambiasse nome e programmazione. All’Ulisse hanno messo i sigilli i vigili qualche mese fa per inadempienze sulle misure di sicurezza. Il Mouline Rouge è stato chiuso perché era diventato un bordello dove si andava per scopare con trans e ragazzini dell’est.

Gaetano Savatteri è un giornalista e scrittore di Racalmuto, il paese di Leonardo Sciascia. Mi racconta una storia degli anni Ottanta in provincia, questa: «Proiettavano qualcosa di piccante, poteva essere Il tempo delle mele o qualche pellicola più spinta. Da ragazzini andavamo ma eravamo fermati all’ingresso dal gestore. Quanti anni?, chiedeva. E noi: Ma come quanti anni? E lui: Quanti anni? E noi: Diciotto. Il che non aveva senso perché il gestore era il bidello della scuola media e sapeva benissimo che eravamo minorenni».

Quando decido di andare all’Ulisse ho immagini del genere in testa. Tutta un’epica provinciale che va dai racconti di mio fratello sul cinema del mio paese che il lunedì mandava i porno alle scene di masturbazione collettiva di Fellini. Fino all’anno scorso vivevo a pochi passi dalla sala, in via Tiburtina, le facce indifferenti della gente che ci passava davanti, qualche signore che entrava lesto, un intero palazzo di famiglie e studenti e mobili Ikea e credenze calabresi nei piani di sopra. Le domande che mi facevo suonavano così: Chi ci va ancora, chi sono questi ultimi romantici? Erano domande stupide, che sottintendevano fesserie tipo: preferisco l’odore della carta quando leggo, il vinile all’mp3, eccetera. Cinque minuti dentro l’Ulisse, e una prima chiacchierata con X, hanno smontato tutto.

Quando sono nato, nell’ottobre del 1983, il mercato del porno in Italia era fermo da un anno perché il procuratore di Civitavecchia Antonino Lojacono aveva scoperto la truffa dei visti censura. Funzionava così: con lo stesso girato si montavano due film; quello zeppo di dialoghi, vedute, passeggiate e qualche scena spinta si mandava alla commissione che dava il visto; quello zeppo di scopate si mandava in sala.

La seconda volta che sono entrato all’Ulisse non ho visto “Il bianco davanti, il nero di dietro”. Non l’ho visto perché sono rimasto incantato da una cosa, questa: una ventina di persone in sala che non stavano mai ferme, mai ferme, mai ferme. Un vespaio che si raggruppava in qualche angolo e poi rompeva le fila, avvicinava o veniva avvicinato dai marchettari minorenni dell’est, parlava a alta voce o con tono bassissimo, si dirigeva verso i cessi, entrava e usciva dai cessi, entrava e usciva dalla sala, si sedeva si rialzava, si masturbava. È stato un sms di quella che allora era la mia donna a rompere questa specie di fascinazione. Ero lì da quaranta minuti senza capirci granché, come in un sogno ansioso.

Fin da subito confesso a X le mie ingenuità e lui annuisce. Sta piuttosto sulle sue, ma alle domande risponde. Come funziona?, gli chiedo. Dice: qualcuno apre di pomeriggio, qualcun altro la mattina; quelli porno sono ormai gli ultimi cinema a fare le matinée; niente film per omosessuali: chi ci va spesso è omosessuale o ha rapporti omosessuali, ma se si proiettassero film con due uomini che fanno sesso, se ne andrebbe perché non vive l’omosessualità serenamente; i giorni festivi, compresi Natale e Pasqua, sono quelli in cui viene più gente, perché è più sola; niente amicizie tra i clienti, molti sono sposati, hanno figli, vogliono che quello che succede dentro resti lì; il biglietto costa sui sette euro più o meno ovunque e si può stare in sala quanto si vuole; si fuma. Aggiunge X che dove lavora lui fino a qualche tempo fa si poteva entrare e uscire a piacimento, ora non più. Il film è sempre lo stesso, per tutta la giornata, nessuna interruzione, un loop che in genere dura un paio di giorni, poi viene cambiato. Io ho lavorato con la pellicola, e macchinari della fine degli anni Sessanta, dice.

Io non li capisco quelli che vanno a vedere i film porno al cinema, bisogna vederli a casa (Moana Pozzi).

Quelli che vanno a vedere i film al cinema li vedo dopo che X mi ha dato delle dritte: non metterti troppo in fondo, resta vicino l’ingresso, se vuoi sederti stai sul lato esterno della fila, non incrociare troppo gli sguardi con qualcuno a meno che non voglia farci qualcosa. Non voglio farci niente, ma non incrocio solo sguardi, a Palermo incrocio una vertigine che fino a allora non avevo ancora provato.

Una volta l’Etoile di via Mariano Stabile fu preso d’assalto dai palermitani: era arrivata Moana per uno spettacolo dal vivo. Tra i Settanta e gli Ottanta nel capoluogo siciliano aprirono una quindicina di sale vietate ai minori. Oggi sopravvive l’Orfeo, vicino la stazione centrale, all’inizio di via Maqueda, una delle due arterie della città, in un punto in cui non è ancora via di struscio ma zona di reflusso tra le puttane di via Lincoln e il mercato di Ballarò. È passato qualche mese da quando ho messo piede all’Ulisse e con la donna di allora ci siamo lasciati, ma mi manda lo stesso un sms: Ma vai solo, e perché? Vado con P., un mio amico, scendiamo da via Ruggero VII tra risate nervose e battutacce per smorzare l’ansia: è agosto, è caldo, e sudiamo. Ci fermiamo davanti l’insegna arancio stinto dell’Orfeo, la vetrina sulla destra con la scritta “Locale a luce rossa, apertura ore 9.15”. Entriamo e alla biglietteria pago io per tutti e due: solo dopo pensiamo all’impressione di coppia che abbiamo dato al ragazzo che è fermo all’ingresso. Con P. ci sediamo all’altezza dell’uscita, uno accanto all’altro. Sul biglietto c’è scritto Mamma ho perso l’uccello, che però non corrisponde a quello che vediamo. Me lo ricorda P. in un sms un anno dopo, mi accenna la trama «Una che si scopava tutti, compagne di collegio, professori, amici, quelli che corrono nel parco»), non ricordo il film, non ricordo molto di Palermo, se non una certa vertigine.

All’Orfeo negli anni Ottanta ci andava qualche studente, ma sopratutto autisti di bus e spazzini, mi racconta Savatteri, che in città ha lavorato per Il Giornale di Sicilia. Ci andavano dopo il lavoro, facevano quello che avevano da fare da soli o si portavano l’eccitazione a casa. C’erano anche gli omosessuali ma molti andavano proprio per vedere il film, dice Savatteri.

P. si è portato la macchina fotografica ma la lascia nello zaino, io prendo appunti sul cellulare (che poi perdo). Fumiamo una sigaretta. Il quadro non è molto diverso da quello visto all’Ulisse: se non per il fatto che qui ci sono più vecchi e non si vedono marchettari stranieri. Qualcuno si masturba da solo, sulla propria poltroncina. A un certo punto entra un tipo sulla quarantina, si siede davanti a noi, gli si avvicina un vecchio e gli slaccia i pantaloni e inizia a fargli un pompino. Io e P. ci sorridiamo, ma la verità è che ci stiamo irrigidendo, perciò distogliamo lo sguardo e cerchiamo di guardare in altre direzioni e è in questa ricerca che entrambi incrociamo, dietro di noi, in un angolo, un vecchio e un ragazzo che stanno facendo sesso, all’in piedi, e un terzo che li guarda. Il vecchio è praticamente schiacciato a muro, cerca di reggersi le braghe, il ragazzo gli tiene la testa con una mano, con l’altra si regge la camicia. Il rumore dei corpi che impattano e il godere del vecchio mi arrivano dopo, come se avessi visto prima il lampo e poi fosse arrivato il tuono, il cui rumore mi scuote: e così P., e perciò dopo un po’ decidiamo di uscire. P. telefona alla sua donna: No, ma siamo stati poco, tutto ok, niente di che.

Si gira e inizia a fissarmi e cerca i miei sguardi. Me ne voglio andare e voglio restare: è il punto più vicino alla tensione sessuale altrui in cui mi trovo dall’inizio di questo giro.

Racconto tutto a X. È normale, più si va verso sud e più le situazioni diventano limite, mi dice, disegnando una specie di geografia dell’oscenità italica. Gli chiedo come faccia a saperlo. I marchettari girano, racconta, da Roma scendono a Napoli e qualcuno più giù, ritornano di nuovo vergini agli occhi dei clienti. E al nord come funziona?, chiedo. Non ne so molto, dice. Perciò decido di andare a dare un’occhiata.

Sul treno per Milano leggo Detti e contraddetti di Karl Kraus e mi ritrovo a segnare una frase, questa: «L’erotismo è una corsa ad ostacoli. L’ostacolo più seducente e più popolare è la morale».

A X una volta chiedo come si senta a fare il suo lavoro, e non tanto a farlo, quanto a viverlo. Mi dice che non ha particolari problemi di morale o etica, a volte dice di avere provato un po’ di pietà, ma non giudica chi va nei cinema hard, e se decide di raccontarmi delle storie è perché confida che anch’io non lo faccia. Eccone una. Il Conte lo chiamano così perché ha vestiti eleganti e pratica di quattrini. Conosce i marchettari e il loro prezzo. Arriva al cinema per loro, non cerca altro, entra in bagno con due o più ragazzi e allunga 20 euro alla maschera perché nessuno li disturbi. La maschera incassa, lui sbriga le pratiche e se ne va.

Anche a Milano, così come a Palermo e Roma, è rimasto un solo cinema porno in piedi. Si chiama Pussycat e ha la più bella insegna vista in questa rassegna: il font rotondo, affusolato, rosso su sfondo nero, il disegno di una donnina nuda sulla sinistra, quattro bandiere italiane sventolano poco sopra. Lo stabile ha un pianterreno e un primo piano, e si trova nella periferica via Giambellino. Sono le sei di un pomeriggio di ottobre e dentro mi capita quello che non mi era ancora capitato negli altri cinema.

L’uomo grasso e mal vestito lo chiamano “quello di Villa Borghese”, ha un lavoro stabile in uno dei parchi più belli d’Europa e un unico desiderio: gli piace portarsi i marchettari nei cessi dei cinema, fargli abbassare le braghe e depilargli le vergogne. Non chiede molto altro. Chiede che gli venga chiamato un taxi quando ha finito.

Non c’è molta gente al Pussycat, una decine di persone, un travestito, l’aria è abbastanza satura; affanni e umori, mi pare, non mi va di sedermi. Sto accanto all’uscita, guardo una bionda sullo schermo che sta scopando con due neri, penso a quello che una volta ha detto il proprietario dell’Orfeo, e cioè che le pellicole le compra in blocco, quasi a peso, e non se ne trovano più. La bionda dice cose tipo: i negri non mi sono mai piaciuti ma non posso fare a meno del loro cazzo. Un uomo sui quarantacinque anni si avvicina, si appoggia al muro dietro di me. Non lo vedo, non mi piace, mi sposto e vado a sedermi. Lo vedo fare un paio di vasche, su e giù sotto lo schermo assieme a altri, poi viene a sedersi nella mia fila, all’estremo opposto. Scrivo delle cose sul cellulare: c’è puzza, è alto, camicia grigia, me ne vado, stempiato, nervoso. Si avvicina a poco a poco, saltando da una poltrona all’altra, senza mai distogliere lo sguardo dallo schermo. Mi dico che appena arriva a metà mi alzo e esco: arriva a metà, la supera e io resto dove sono.

Il parrucchiere è uno dei più chiacchierati a Roma. Arriva tardi in via Tiburtina, entra e va dritto a piazzarsi all’ultima fila dell’Ulisse. Nel buio della sala si spengono le ultime tensioni, le ore della sera sfiniscono nella notte, fuori ci sono i pakistani che tengono aperti i chioschi dei fiori e qualche studente che si beve i soldi dei genitori all’Onda Caffè. Il parrucchiere sfila via dalla borsa una lunga parrucca bionda e la indossa; poi sfila via un vibratore e lo piazza tra una poltrona e l’altra, in posizione verticale, e se lo scopa, gli occhi pieni delle immagini sullo schermo. Non cerca nessuno, finisce e se ne va. Alcuni dicono di averlo visto battere in via Palmiro Togliatti.

L’uomo in camicia è accanto a me e il continuo affondare i pugni nelle cosce gli disegna addosso il nervoso: io sto fermo. Si gira e inizia a fissarmi e cerca i miei sguardi, ne trova un paio che dovrebbero fargli capire che non è cosa ma non so come sono, lui allunga la mano sul bracciolo della mia poltroncina. Me ne voglio andare e voglio restare: è il punto più vicino alla tensione sessuale altrui in cui mi trovo dall’inizio di questo giro. Resto e sento la sua mano scivolare sul mio ginocchio, la sento tremare – e lentamente muoversi, e piano piano stringersi. All’altezza della coscia affonda verso l’interno, lo fermo mentre sta per salire verso l’inguine. Come se l’avessi risvegliato, mi guarda smarrito e scappa, non passa davanti a me, come sarebbe logico, visto che l’uscita è a pochi metri, torna indietro, fa un giro lungo e affrettato e esce.

Sciascia una volta andò a vedere un porno: «E ho fatto l’immediata constatazione che di pornografico, in un film pornografico, ci sono soltanto gli spettatori», scrisse in Nero su Nero. Dando ragione a Carmelo Bene quando esagerava e diceva che l’etimo di “osceno” rimanda a “fuori-dalla-scena”. E implicitamente (e suo malgrado) a Nietzsche quando affermava che non esistono affatto fenomeni morali, ma soltanto una interpretazione morale di fenomeni.

Quello che voglio dire. Di porno, in un cinema porno, non è rimasto granché. Svuotate di destino prima dai Vhs poi dai Dvd e ora dal web, le sale sono delle ridotte in cui finiscono storie che non si trovano da altre parti e che raccontano ormai un mondo di fantasmi. Il porno è fuori dalla scena, appunto: il groviglio di tensioni e frustrazioni e soddisfazioni e nevrosi e paradisi e abissi e sessualità irrisolte è molto più interessante di quello che succede sullo schermo, e si sbroglia in queste storie. E bisogna avere occhi asciutti da morale e moralismi per non etichettarle come Sciascia, farne esercizio di condanna o lirismo ovvero nostalgia come fanno certi articoli di giornale, trattarle come Catone trattava Flora nei versi di Marziale: «Tu conoscevi il dolce rito della giocosa Flora, / e l’allegria della festa e la libertà della gente. / E allora perché sei venuto a teatro, o severo Catone? / O sei venuto solo per questo: per uscirne?».

Ho chiesto a X se non temesse un giudizio morale sul suo lavoro da parte di amici e amori. Mi ha raccontato un’altra storia. Uno spettatore fu colto da un infarto in sala: capita, spesso sono anziani e sempre in tensione, dice. Bisognava decidere se portarlo sul marciapiede e chiamare l’ambulanza (si fa così per evitare le rogne). Dice X che l’uomo non fu abbandonato per strada, fu soccorso dentro il cinema e poi messo sull’ambulanza. L’indomani arrivò il figlio, una furia. Voleva sapere perché diavolo suo padre si trovasse lì, se fosse un cliente e da quando. La risposta di X: Gli ho detto che era entrato perché aveva bisogno di cambiare dei soldi, il ragazzo se n’è andato. Ciascuno di noi ha bisogno di bugie, i legni a questo mondo sono storti e impuri, a giudicarli si fa presto, e spesso sommariamente, raramente si ascoltano le storie.

 

Dal numero 21 di Studio

Le immagini sono di Flavio Favelli, dalla mostra Royal Rouge