Attualità

Pio pio. Il realismo della crime fiction

di Vincenzo Latronico

Pio pio, bau bau, miao miao.

1. Il regicidio

In questo testo vorrei discutere dell’idea di realtà, e di “raccontare la realtà”, che c’è alla base di una bella analisi scritta di recente su Studio da Tim Small. La sua tesi, detta molto approssimativamente, è questa: la crime fiction – sia letteraria che, forse più specificamente, televisiva – è una nuova forma di realismo sociale: un tentativo di racontare storie il cui scopo è descrivere il mondo che ci circonda.

Volevo intitolare questa mia risposta “Il regicidio” – era una specie di gioco di parole sul fatto che gli ultra-realisti della Restaurazione francese si definivano “più realisti del re”. L’idea era che se si comincia a fissare un parametro della realtà(il re, nel caso loro, la crime fiction, nel caso nostro) si finisce per superarlo e ritrovarsi, appunto, da un’altra parte. In questo contesto, la mia risposta voleva essere una sorta di regicidio. Alla fine ho cambiato titolo, però, perché questa roba era tutta un po’ macchinosa. Il titolo attuale sarà più chiaro alla fine.

2. Il solarium

Un’altra premessa: la parte più condivisibile, per me, della tesi di Tim Small, è che quanto di più interessante succede, oggi, nel campo della narrazione, succede a prescindere dalle divisioni tradizionali fra romanzi, film, serie TV ecc. Forse è vero che per accettare la TV nella famiglia dei “mezzi rispettabili” (in cui, ad esempio, il fumetto – o come lo si voglia chiamare – è entrato già da un paio di decenni) ci si è messo parecchio – e che questo è dipeso da reticenze e snobismi e luoghi comuni dei “letterati”. Ma in generale mi sembra che definire la letteratura (come fa Tim) “cose che fanno riferimento ad altri libri letterari, o a trattati di filosofia, o al post-modernismo o a qualsiasi altro –ismo” è tanto sensato quando definire la TV come “quella roba che io non ho in casa dove si vedono tette e culi”: una mossa fatta più che altro per arruffianarsi il lettore calcando la mano sugli stereotipi. Se non sono d’accordo con l’analisi, molto positiva, che fa Tim di The Wire non è perché in quanto scrittore io abbia qualche interesse a marcare il territorio della “letterarietà della letteratura letteraria”, ma perché, come cercherò di spiegare, trovo più realista una serie TV come Boardwalk Empire, o un romanzo “letterario-noioso-di-1000-pagine” come 2666 di Roberto Bolaño, o un capolavoro come Watchmen di Alan Moore e Dave Gibbons.

 

Questo è importante precisarlo, prima di tuffarsi in questo solarium abilmente camuffato da bar sport, da bagni in riviera romagnola o da terrazza crogiolata nel tramonto di un ottobre romano che è la discussione letteraria.

3. Ma non facciamoci prendere la mano

Sì, non facciamoci prendere la mano. Siamo qui per parlare di crime fiction. Tim la definisce come “narrativa realista incentrata attorno a un crimine”. L’idea sembra essere questa: il crimine entra nella storia della crime fiction quasi solo come pretesto scatenante, come filo conduttore che – attraverso gli sviluppi delle indagini, da una parte, e degli effetti collaterali dall’altra (altri crimini, litigi, ripercussioni, lutti) – fa dipanare una storia. Il “vero tema”, quindi, non è il crimine in quanto tale, ma la realtà che si snoda intorno ad esso.

La crime fiction, scrive Tim, non è semplicemente un giallo, in cui si tiene il pubblico agganciato alla promessa che prima o poi scoprirà se l’assassino è il maggiordomo (ma forse ci sono vari tipi di maggiordomo): è una forma di ritratto del mondo, una strategia per raffigurare una realtà sociale, parola da mettere in corsivo in segno di deferenza. E di cosa si compone questa realtà? Be’, di ciò di cui si compone la realtà, senza corsivo, in cui viviamo tutti i giorni: si compone di idraulici, professoresse, adolescenti, psicologhe, matrimoni, viaggi in bicicletta, procuratori corrotti, assassini senza pietà e imperatori dei cartelli della droga.

4. Le astronavi

Naturalmente, la realtà si compone di moltissimi adolescenti e di pochissimi imperatori dei cartelli della droga. Questo, di per sé, non è un argomento: però dovrebbe far suonare un campanello d’allarme. Perché siamo portati a ritenere “realista”, o rappresentativo della “realtà sociale”, un genere di narrativa che parla, in fondo, di un settore molto ristretto della realtà, e che gli dà una visibilità del tutto sproporzionata rispetto a quella che ha nella nostra vita quotidiana? Può anche parlarne in modo realistico, ma la cosa non cambia: io posso parlare in modo realistico del fatto che una settimana fa ero in aereo con la nazionale italiana di body building over 50, ma non per questo riterrò di stare parlando del “mondo là fuori” in senso ampio e generalizzabile.

Forse stiamo arrivando da qualche parte. Un altro modo in cui Tim caratterizza la crime fiction è: “il crimine non è altro che una scusa, un espediente per esplorare un mondo popolato da tanti personaggi diversi che, se non fosse per lo scontro dell’omicidio, […] non si sarebbero mai incontrati”. Detta così, sembra una posizione molto fondata, e tutto sommato di buon senso. Ma forse lo sarebbe anche con qualche modifica. Ad esempio: lo sbarco dei marziani non è altro che una scusa, un espediente per esplorare un mondo popolato da tanti personaggi diversi che, se non fosse per lo scontro con le astronavi aliene, non si sarebbero mai incontrati. Mars Attacks è un affresco sociale?

5. Lo specchio che si rompe

Che cosa significa parlare della realtà? In un senso molto semplice, significa sforzarsi di descrivere realisticamente la propria materia, ispirandosi a ciò che si osserva, “inventando il meno possibile”. Ma naturalmente non è questo il senso in cui la crime fiction sarebbe particolarmente rilevante: anche ERThe West Wing lo fanno; anche un film sullo sbarco dei marziani potrebbe farlo. E allora? Probabilmente – quando si parla di “affresco sociale” o cose simili – significa descrivere realisticamente qualcosa che, pur essendo una storia/personaggio/evento singolo, può essere generalizzato: qualcosa che rappresenta, in piccolo, dei meccanismi più vasti che operano anche in altri settori della società. In questo senso, credo, nelle intenzioni di Tim la crime fiction è “più realista” di Mars Attacks: non nel metodo, ma nella scelta del proprio soggetto, che, appunto, è un soggetto particolarmente adatto a parlare del mondo di oggi o a raffigurarlo o a fornire lo specchio delle sue trasformazioni e dei suoi meccanismi e dei suoi lutti.

Il problema, certo, rimane. Come mai parlare di imperatori della droga e killer efferati ci dice o potrebbe dirci di più sul nostro mondo, piuttosto che parlare di alieni? Certo non è una questione statistica (tipo: perché al mondo ci sono più spacciatori alieni), altrimenti fare realismo significherebbe parlare di esperienze universali tipo l’esame delle medie e di tipi umani statisticamente significativi come i neonati. Ma allora perché il crimine “fa realtà” e i marziani no? Il problema, sì, rimane, ma improvvisamente non è più un problema di letteratura ma un problema di mondo, non è più legato alle storie ma a ciò di cui parlano, c’è uno specchio che si rompe e chissà cosa vedremo fra le crepe o invece abbassando lo sguardo nei frammenti che sono caduti in terra, forse ci siamo tagliati.

6. Che cosa vediamo nello specchio

Che cosa dice una crime fiction al suo pubblico? Dice: il mondo è pericoloso, là fuori. Dice anche: non ti immagini neanche che cosa succede nei vicoli bui. Dice anche: te lo faccio vedere io. E come riesco a fartelo vedere? Perché oltre alla mia capacità narrativa – un’abilità tutto sommato tecnica – ho fatto ricerca, e so come vanno queste cose. Nei vicoli bui io ci sono stato, dice lo scrittore di crime fiction, e sono tornato per raccontartelo, e quello che ho visto riguarda anche te. Alla base dell’idea che la crime fiction sia una forma di realismo sta quindi il presupposto che, per qualche ragione, il crimine organizzato sia un tratto particolarmente rilevante per capire il mondo che ci circonda.

Di certo è un argomento sugoso. Non è un “whodunnit”, come sottolineava Tim (e cioé: non pone al lettore una sfida enigmistica), ma certo è accattivante. Gli intrighi di potere nei vertici delle forze dell’ordine sono accattivanti (e se lo facessero anche quelli di casa mia?). I regolamenti di conti fra gli spacciatori sono accattivanti (e se capitasse nel mio quartiere?). Gli spacciatori stessi, e i killer e gli ex-pistoleri a cui l’esperienza ha donato una patina di rispettabilità, e abbastanza soldi per sostituire le giacche col petto sformato dal peso della fondina, sono accattivanti (e se lo diventasse mio figlio? Oppure: e se lo facessi anche io? Chissà quanti soldi, quanto brivido…). Ci sono tutta una serie di elementi della crime fiction che – per ragioni di ordine diverso – sono molto accattivanti per il pubblico, pubblico che, è utile pensarci, si compone in buona sostanza delle classi medie più o meno scolarizzate, che siamo noi. E c’è una cosa che accomuna questi elementi: sono lontani (a livello sociale, psicologico, emotivo, territoriale) dalla vita delle classi medie più o meno scolarizzate, che siamo noi. A partire dalla nostra esperienza quotidiana ci paiono tutto fuorché reali, ma proprio per questo abbiamo paura che lo siano.

Questo, certo, era anche il meccanismo alla base del successo di una serie come Sandokan, di Emilio Salgari. Anche i lettori di Salgari credevano che in Malesia certe cose andassero veramente così (non tutte, certo; ma alcune). E anche Salgari, come gli autori di The Wire, andava fiero della propria attività di documentazione. E anche i lettori di Salgari non erano mai stati in Malesia, come noi non siamo mai stati alla riunione di un cartello della droga, e per una serie di contigenze storiche ritenevano che ciò che accadeva nei paesi delle colonie fosse intrinsecamente interessante e “rappresentativo” del mondo che li circondava.

Sarebbe facile fare un altro passo, a questo punto. Proviamo a farlo, con una gamba fantasma se non con la nostra: perché la crime fiction ha successo, oggi? Perché fa leva sulla paura. Perché sembra realista? Perché parla di cose di cui un largo settore della società ha paura, e se di qualcosa hai paura sei per ciò stesso più incline a considerarlo reale. E di quale paura stiamo parlando? Della paura che accanto alle schiere di persone più o meno ordinate e a posto che siamo noi, che lavoriamo e teniamo puliti i nostri appartamenti e ci sforziamo di seguire un’immagine più o meno condivisa di come debbano essere fatte le cose, ci sono organizzazioni misteriose e capillari, con molteplici punti di contatto con la nostra vita di tutti i giorni (e noi, ignari!, non ce ne accorgiamo), che invece reputano completamente normali attività che ci sembrano fuori dal nostro quotidiano, come l’omicidio e la corruzione. E queste organizzazioni sono composte da persone in certa misura insospettabili che grazie al potere economico e alla forza bruta condizionano anche ad alti livelli la società “visibile”. E ci sono altre persone che lottano contro queste persone, e che in certa misura fanno compromessi con esse e che nella loro lotta si trovano anche a dover affrontare complicazioni politiche e disastri emotivi e litigi e tradimenti, perché anche se impegnate in questa lotta sono persone come noi. E anche le persone delle organizzazioni sotterranee sono persone come noi, e come loro, con vite private del tutto analoghe, perché anche loro affrontano problemi personali e litigi e compromessi e sono schiacciati dalle difficoltà pratiche legate al loro lavoro: e questa è la marca del “realismo”, perché prende qualcosa di esotico (le tigri di Mompracem, lo spacciatore assassino) e ti mostra o ti fa credere di vedere che in realtà è qualcosa che ti assomiglia.

Che cosa vediamo nello specchio? Vediamo il nostro vicino di casa travestito da imperatore del crimine. Non aprire quella porta.

7. Tiriamo le fila

Siamo partiti dall’osservazione di Tim che la crime fiction sia una nuova forma di realismo sociale. Abbiamo visto che descrivere realisticamente qualcosa (un ufo, uno spacciatore) non basta a definirsi realisti: bisogna che questa cosa sia “rilevante” per capire il nostro mondo. Ma non c’è nessuna ragione per cui il crimine sia intrinsecamente più rilevante di altri argomenti: se non il fatto che è accattivante e misterioso, e che ci stuzzica in certi punti deboli sui quali, anche per via di certi meccanismi della società contemporanea, ci interessa molto essere stuzzicati. Questo argomento si basa su un presupposto: che il settore ristrettissimo di cui la crime fiction parla sia per qualche ragione rappresentativo di tutto il resto del mondo. E dove si fonda questo presupposto? Non certo sul mondo: piuttosto, su una tradizione di letteratura e cinema e serie TV che l’ha preceduta (da Poe e Conan Doyle a C.S.I. e Dexter) e le ha spianato la strada, abituando il pubblico a vedere certe storie e certi meccanismi narrativi come realisti. Si basa, quindi, su una convezione di genere, che elegge un ambito e una serie di situazioni e personaggi a “rappresentativo” della realtà di un’epoca. Lo stesso accadeva, ad esempio, con la letteratura esotica della fine dell’Ottocento, con il neorealismo (ha!) che misurava la resistenza partigiana in etti di piombo, con la poesia pastorale di età latina.

Cosa avrebbe detto Virgilio se gli avessero detto che i suoi canti dei pastori non erano realistici?

1) Ma come! Le piante e le fioriture e il comportamento degli animali sono descritti con molti particolari – particolari che ho tratto da un lavoro di ricerca e documentazione sul campo.

2) Ma come! Certo, i pastori non sono tanti quanti sembrerebbe dalla poesia, ma sono un’angolatura particolarmente rilevante per spiegare i meccanismi del mondo in cui viviamo.

3) Ma come! La sfida di canto fra due pastori non è altro che una scusa, un espediente per esplorare un mondo popolato da tanti personaggi diversi che, se non fosse per questa sfida, non si sarebbero mai incontrati.

Quanto erano lontani i pastori dai raffinati salotti dei poeti latini? Quanto è lontano Sandokan dai barbuti lettori risorgimentali di Salgari? Quanto sono lontani gli assassini senza pietà dal prato del parco Sempione in cui rileggo questo testo? “Pochissimo, pochissimo”, sussurra la crime fiction. “Sono reali, e sono fra noi. Potrebbero essere alle tue spalle proprio ora.”

8. Il titolo

Non ho ancora spiegato perché ritengo una storia di supereroi come Watchmen più realistica di una storia di spacciatori come The Wire. È una cosa legata al titolo di questo testo. Il titolo di questo testo viene da un passo di 2666, di Roberto Bolaño. Lo mette in bocca a uno scrittore messicano con problemi di alcolismo. Il passo è questo.

Da parte loro, gli intellettuali stanno sempre di spalle e quindi, a meno che non abbiano gli occhi sulla nuca, è impossibile che vedano alcunché della realtà. Sentono solo i rumori che escono dal fondo della miniera. E li traducono o reinterpretano o ricreano. Il loro lavoro, va detto perché salta agli occhi, è molto scarso. Usano la retorica quando si intuisce un uragano, cercano di essere eloquenti quando presagiscono la furia scatenata, tentano di rispettare la metrica quando c’è solo un silenzio assordante e vano. Dicono pio pio, bau bau, miao miao, perché sono incapaci di immaginare un animale di proporzioni colossali o l’assenza di animale.

9. The Wire

Prima di scrivere questo pezzo non l’avevo mai vista, questa serie. È bellissima.