Attualità

Pietà, di Kim Ki-Duk

Recensione atipica (SPOILER ALERT!) e molto critica del film che vinto il Leone d'Oro a Venezia: orientalismo artefatto per occidentali.

di Francesco Pacifico

Vorrei parlare di Pietà di Kim Ki-Duk, Leone d’Oro al Festival di Venezia, rivelandone tutta la trama. Un po’ mi dispiace, perché il film è tutto giocato su una rivelazione che capita più o meno a metà del film, quindi questo pezzo lo può leggere 1) chi ha già visto il film, 2) chi non è interessato a vederlo ma vuole leggere il pezzo perché KKD gli sta antipatico e vuole farsi due risate facili facili sentendo uno a cui non è piaciuto. (Questa seconda funzione del pezzo non mi crea problemi morali, visto che uno dei modi di amare il cinema è, da sempre, godersi la propria antipatia per qualche regista bravo. La vita e la carriera del regista non subiranno alcun contraccolpo, e il Gollum cinefilo che è in molti di noi coltiverà e custodirà gelosamente il tesoro del proprio astio.) C’è pure 3) chi vuol vedere prima il film e poi leggersi il pezzo (ma non posso spingermi così analmente a organizzarti la settimana: scusa, decidi pure da solo). Ma c’è anche 4) chi crederà al mio consiglio: non guardare il film, è molto violento e la sua violenza non pare molto sofferta dall’autore, ma impiegata un tanto al chilo, non al solito scopo pulp dell’intrattenimento postmoderno, ma allo scopo di colpire la tua immaginazione e farti provare pietà/generico senso di colpa per quei poveri torturati e mutilati del film, che sono vittime della recessione più di te (che devi solo rinunciare alle vacanze all’estero o a un contratto garantito, ma almeno non ti vengono a mutilare gli arti o a stuprare come succede ai poveri in questo film).

SPOILER ALERT: LA TRAMA FINO AL COLPO DI SCENA. Il giovane tirapiedi di uno strozzino fa ogni giorno un giro per lo slum di una città “orientale” e mutila gli arti di chi non ha pagato gli interessi del 1000% sui prestiti. Lo slum è specializzato in siderurgia, quindi le mutilazioni sono effettuate con gli stessi strumenti di lavoro del metallo con cui i debitori si guadagnano il pane. Lo scopo delle mutilazioni è far riscuotere ai debitori menomati il premio assicurativo sull’invalidità per poter ripagare lo strozzino. Il tirapiedi fa una vita vuota e triste. Un giorno, una donna comincia a seguirlo e si intrufola, non invitata, in casa sua. Dice di essere la madre del tirapiedi: l’aveva partorito quand’era troppo giovane e l’aveva dunque abbandonato ed è perciò che lui ha fatto quella vitaccia. La “madre” viene a riscattarlo, a chiedergli perdono, a riscattarsi. La “madre” comincia a poco a poco a farlo sentire amato. Questo amore spinge il tirapiedi, lentamente, a distanziarsi dalla propria vita di violenza, a vederne la vacuità, la tristezza. L’amore lo redime: un amore duro, che la “madre” riesce a caro prezzo a comunicare al figlio. Il figlio comincia a vivere una vita dall’aria più piena, vera. SPOILER ALERT: QUI SVELO IL COLPO DI SCENA CHE DÀ IL SENSO A TUTTO IL FILM: PUOI ANCORA TIRARTI INDIETRO. Scopriamo che la “madre” non è sua madre: è invece la madre di uno dei debitori che, mutilato, si è poi tolto la vita per disperazione. La “madre”, come spiegherà lei stessa molto didascalicamente verso la fine del film (la sceneggiatura è tutta telefonata e il doppiaggio italiano, sgraziato, da cartone animato, la rende ancora più comica), aveva elaborato, e mette in atto, la vendetta perfetta: costringere anche il tirapiedi a perdere una persona amata come lei ha perso il figlio: la “madre” lo farà affezionare a sé e poi si toglierà la vita per ricongiungersi, nell’aldilà, col figlio perduto, con ciò spezzando il cuore del tirapiedi, unica compensazione possibile, ben più della morte.

È una trama interessante, e ora che la leggo scritta la trovo perfino avvincente. Ma c’è qualcosa che mi ha dato fastidio e mi è parso falso durante tutta la visione: questo qualcosa ruota intorno all’incrocio, a mio avviso furbo, tra morale occidentale ed estetica della morale “orientale” (nel senso di genericamente orientale, fatto apposta per noi occidentali, tipo surimi), un intreccio congegnato per colpire l’immaginazione del pubblico occidentale.

Al pubblico occidentale questo film dà due cose apparentemente inconciliabili: 1) il gusto della storia di redenzione in stile cristiano, con il cattivo che conoscendo l’amore cristiano (il titolo fa riferimento alla Pietà di Michelangelo) perde la voglia di fare il male; 2) il gusto per la storia “orientale” di vendetta, come noi occidentali abbiamo imparato ad amarla da film come Lady Vendetta: la vendetta come forza ancestrale di organizzazione sociale, di ristabilimento intrinsecamente giuridico ma per noi scandaloso dell’ordine rotto.

Per ottenere entrambi i risultati, KKD sforza, costringe le interpretazioni degli attori a grandi funambolismi. Il funambolismo principale è quello della madre: l’attrice che interpreta la madre fa, nella scena chiave alla fine del film, un’operazione impossibile. Deve finalmente morire per compiere la sua vendetta e spezzare il cuore del tirapiedi, che crederà di aver perso sua madre, e deve morire per ricongiungersi al figlio. Poco prima di morire lanciandosi da un palazzo dando l’illusione ottica al figlio di esser costretta da un assassino a buttarsi nel vuoto, fa mostra – in favore di telecamera – di inattesi sentimenti per il tirapiedi redento, che da là sotto supplica l’assassino (immaginario) della madre di risparmiarla e uccidere lui al suo posto. La finta madre prova pietà per l’assassino del figlio. Bene, per un attimo ho pensato: adesso non si butta e finisce a fare da madre adottiva al tirapiedi. Il massimo per la morale cristiana, il perdono che viene dalla pietà. Invece, alla fine si butta lo stesso in modo da compiere la vendetta.

In questo modo, KKD è riuscito a darci due cose, che entrambe desideravamo: il gusto per l’esotico, ossia quella vendetta che ha tanta parte nei film “orientali”; e il gusto per il sistema morale occidentale, quello cristiano, che qui viene trattato in maniera non problematica, come se fosse naturalmente vero, ossia come se quel tipo di pietà cristiana esistesse nonostante la trama vada nella direzione del dramma di vendetta alla “orientale”, che tanto ci fa correre al cinema eccitati. Cucina fusion della morale. Mischione morale.

Per tutta la visione non sono riuscito a trovare altro che furbo lo sforzo di mescolare le due morali. Non tanto per l’idea come mi appare sulla carta, ricapitolandola, ma per come soffoca il film di fatto. Nel film tutto deve correre in una certa direzione. Il denaro deve mostrare in ogni scena la sua faccia diabolica. I debitori, con la loro sete di denaro, devono rappresentare da un lato la crudeltà della recessione globale (causata, non si dice ma è implicito, dall’alta finanza lontana dai bisogni del popolo) e dall’altro la povertà dell’avidità umana vecchio stile dei debitori che chiedono denaro a prestito per consumare di più. Il tirapiedi pentito grazie all’amore materno che lo sta riscattando intorno alla metà del film deve improvvisamente trovare molto triste ogni situazione lavorativa che lo vede protagonista. Memorabile, in senso negativo, la scena in cui il tirapiedi prova a convincere un giovane futuro padre a non farsi tagliare le mani per riscuotere il premio dell’assicurazione: “Dai”, dice più o meno, “risparmia le dita, usale per suonare a tuo figlio questa chitarra” (chitarra messa qui apposta, didascalicamente, dal regista, nella bottega, dove non c’entra niente e pare pure nuova, appena comprata dalla segretaria di edizione perché esista un motivo oggettivo per risparmiare queste mani, per non mutilarle). Insomma, bisogna costringere il tirapiedi a una redenzione forzata, a mostrare apposta che l’amore materno cambia il cuore anche del malvagio. Il bello è che questa conversione forzata non ha niente di sottile e il regista non spreca tempo a problematizzarla: il rapporto del tirapiedi con la “madre” è morbosissimo (per scoprire se è sua madre la stupra, poi le dà da mangiare un pezzo di carne che si è tagliato dal corpo), e ciò nonostante produce in lui un amore caritatevole per il resto del mondo. Quel tipo di amore morboso, “incestuoso”, non sembra capace di produrre una rivelazione autentica della natura del male: è un rapporto anch’esso tutto malvagio e parecchio pazzo, non c’entra niente con la redenzione classica cristiana, con il bene sbloccato e reso visibile e possibile, quindi KKD ha piazzato nel film la pietà cristiana un po’ a cazzo di cane, contando sul gusto che avremmo provato nel riconoscere schemini morali cristiani in un film “orientale”. Intanto, tutta quella scoperta della pietà cristiana non impedisce alla “madre” di portare avanti crudelmente – in quel modo “orientale” che al cinema adoriamo – il progetto di vendetta. E, ripeto, nel finale KKD cerca di fare il miracolo di compiere la redenzione lasciando che la “madre” provi pietà per il tirapiedi e allo stesso tempo mantenga intatto, senza problematizzarlo, il proposito di vendetta. Così nel finale la “madre” è redenta e vendicata contemporaneamente, senza che nessuno si alzi a dire: non può esserci pietà e vendetta contemporaneamente, e questo film dice e invece che può esserci. Solo noi spettatori occidentali che non ci poniamo mai le questioni morali in maniera creativa ma ci piace la scimmiottatura delle questioni morali potremmo davvero credere che questo finale sia una sintesi, una soluzione, un esame delle vie sottili del cuore e delle vie maestre delle morali tradizionali “cristiana” e “orientali”.

Un’ultima cosa: la “madre” è vestita in ottima lana e cardigan sempre ordinati ancorché casual, nonostante faccia vita da barbona. Non ha rughe, ha i capelli in buono stato, e ha assolutamente l’aria da attrice, e non si riesce a capire da che contesto sociale provenga, e a me pare una ricca, una ricca attrice vestita comoda a una conferenza stampa; e soprattutto dimostra al massimo dieci anni più del figlio.