Attualità

Curarsi dalla Roth-mania

C'è il rothiano intimista, pessimista, quasi leopardiano, e quello degli editoriali: la questione Nobel a Philip Roth ha rivelato un identikit umano.

di Andrea Minuz

L’ultima volta che ho incontrato qualcuno a cui non piace Philip Roth non me la ricordo. Non è come con Pynchon o De Lillo. C’è sempre chi è lieto di dirti che li ha mollati dopo venti pagine, come capita con gli scrittori che piacciono molto a chi scrive e meno a chi legge, un po’ come Audrey Hepburn che piace soprattutto alle donne. Niente a che vedere con Wallace, uno che resta inchiodato a un target preciso: trentadue anni, master in regia teatrale e un progetto di crowdfunding di cui poi dovrei parlarti. Descrivere il lettore di Roth è più difficile perché Roth piace a tutti. C’è chi lo legge per l’ebraismo e lo infila nel pantheon della narrativa yiddish. Chi si sente uno spirito libero dell’erotismo e se lo gioca provando a rimorchiare con frasi come «molti conoscono le altre persone per scopare, io le scopo per conoscerle». C’è il rothiano intimista, pessimista, quasi leopardiano, quello dell’ultimo Roth, della riflessione sulla morte, l’impossibilità della trascendenza, il disfacimento della carne, l’arbitrarietà della Storia. C’è il Roth che trovi in un editoriale di Paolo Mieli sulle antiche sartorie della Galizia, il patto Molotov-Ribbentrop, Shylock, i cosacchi e La coscienza di Zeno. C’è chi ha preso Ho sposato un comunista in una Feltrinelli del centro soltanto per il titolo e chi non ha mai letto nulla, ma ritiene assurdo che Philip Roth non abbia ancora vinto il Nobel.

2013 Winter TCA Tour - Day 11

La rothmania prende tutti e copre un arco che va da Zoro a Ravasi. Ma è nei social che trova la sua massima espressione. Dickens si augurava di «essere letto a ogni piano della casa, dal salone alla cucina», ma non immaginava di poter diventare un meme. Come ogni anno, dopo l’assegnazione del premio Nobel per la letteratura, immagino un reboot di Misery non deve morire con i fan di Philip Roth al posto di Kathy Bates. Una banda di lettori invasati che va in Svezia per sequestrare alcuni membri dell’Accademia e obbligarli a premiare l’autore di American Pastoral. Nella motivazione dovranno scrivere: perché-è-il-più-grande-scrittore-del-mondo-e-lo-meritava-da-un-pezzo. Il Nobel va a Roth ma lui non si trova, peggio di Dylan. Lo cercano anche nei boschi del Connecticut. Niente. Alla fine tutti si scocciano e si buttano su Murakami. Fossi l’agente di Philip Roth, gli suggerirei di scriverlo. Potrebbe essere un bel modo di interrompere il silenzio letterario annunciato nel 2010, all’indomani di Nemesis.

Ci sono gli scrittori che hanno la vocazione della letteratura, quelli con la vocazione del bestseller, quelli che confidano nei posteri. I fan di Philip Roth hanno introdotto la categoria degli scrittori ingiustamente-privati-del-premio-Nobel. Un canone letterario costruito su un paradigma vittimista che prende Mark Twain e Zola, Čechov e Ibsen, Tolstoj e Nabokov. Roth dovrebbe vendicarli tutti. Provate a iniziare un discorso su uno scrittore qualsiasi che contenga la parola “Nobel” e verrete fulminati: “E allora Philip Roth?”. È peggio delle foibe. Per fortuna quest’anno l’hanno dato a Bob Dylan, spostando per un po’ la discussione sulla liceità della canzone come oggetto degno di venerazione letteraria oppure no, anziché sull’ennesimo furto a Philip Roth. La questione date-un-Nobel-a-Roth risale almeno al 1993, quando vinse Toni Morrison. «In racconti caratterizzati da forza visionaria e rilevanza poetica dà vita a un aspetto essenziale della realtà americana» (basta leggersi le motivazioni degli ultimi vent’anni per capire che Roth non vincerà mai o meglio non dovrebbe mai vincerlo).

Morrison disse che «Roth avrebbe dovuto ricevere il Nobel da molto tempo». La rothmania non aspettava altro

Per gli scrittori di tutte le altre nazionalità l’Accademia usa cose come «la vulnerabilità dell’Uomo» (Camillo Jose Cela), lo «sconcertante ritratto della condizione umana» (Kenzaburo Oe), «l’integrità umanistica» (Octavio Paz), «la dignità degli oppressi» e «l’assurdità del potere» (parecchi). Così, quel riferimento sfacciato alla «realtà americana» usato per Toni Morrison sembrava l’inevitabile preludio al Nobel di Roth. Nel 2008, intervistata da Le Nouvel Observateur, Morrison stessa disse che «Philip Roth avrebbe dovuto ricevere il Nobel da molto tempo». La rothmania non aspettava altro. I social fecero il resto. E Philip Roth? Non serve scomodare l’annosa diatriba narratologica tra autore, personaggio, alter ego dell’autore, ma la costruzione dell’immagine pubblica di Philip Roth è un caso abbastanza interessante. Il successo fulminante del Lamento di Portnoy e lo scandalo a seguire lo santificò come l’ebreo permanentemente arrapato e oppresso dalla madre che diventa famoso mettendo in scena il gesto più privato che c’è; come disse Jacqueline Susann: «Philip Roth è un bravo scrittore, ma non vorrei stringergli la mano».

A questa prima fase, segue il rifiuto della celebrità. Roth si dedica alla letteratura, alla produzione seriale di romanzi e all’insegnamento. Opta per un graduale, moderato salingerismo. Trascorre sempre più tempo nella sua casa di campagna in Connecticut. Un isolamento costellato di incursioni curiose nei media. Alcune celebri, come la sua critica a Wikipedia, altre meno. Nel 2009, in un’intervista per il Los Angeles Times, Roth si mette a ululare cercando di illustrare il senso dell’adattamento cinematografico di Portnoy (portato sullo schermo da Ernest Lehman nel 1972) da lui così definito: «È un film sul gridare. Sul gridare ebraico». Il giornalista registra tutto e l’ululato di Roth viene remixato in un file mp3 che fa il giro della rete (potete sentirlo qui). All’Accademia non deve essere piaciuto di sicuro, ma la rothmania non si dà pace. Non bastavano Nathan Zuckerman e David Kepesh. I fan di Roth dovevano creare l’ultimo alter ego dello scrittore, un vecchietto che se ne sta seduto su una veranda nella campagna del Connecticut aspettando una telefonata da Stoccolma. Speriamo si realizzi invece il suo desiderio. Quello di finire dentro una tomba che fa concorrenza al Jim Morrison del Père Lachaise, con Roth circondato da ragazzine che si struggono per non aver fatto in tempo ad andare a letto con lui.

Nelle immagini: Roth in collegamento in un incontro organizzato dall’emittente Pbs nel 2013 (Frederick M. Brown/Getty Images)