Attualità

Perché le donne non fanno carriera

Un recente articolo del New York Times riapre l'eterno dibattito sul perché le donne fanno più fatica nel mondo del lavoro. Qualcuno si chiede: non è che il problema sono le donne, troppo insicure?

di Anna Momigliano

Lo scorso weekend il New York Times ha pubblicato un articolo che, pur non dicendo nulla di nuovo, aiuta a farci un’idea della questione e delle sue proporzioni: ci sono pochissime donne ai vertici delle grandi aziende e, in media, gli amministratori delegati femmine guadagnano molto meno dei loro colleghi maschi. Delle mille più grandi società statunitensi, meno del cinque per cento (il 4,9% per l’esattezza) ha una donna come ad. Similmente, dei 200 Ceo più pagati d’America, soltanto 11 sono donne – e di queste una, che incidentalmente è anche quella col salario più alto, è nata uomo: Martine Rothblatt, fondatore e Ceo della società di biotecnologie United Therapeutics, ha cambiato sesso nel 1994 (prima si chiamava Martin).

L’articolo, pubblicato sia online che nella versione cartacea, è in parte una presentazione del dossier “Top 200 Highest Paid CEO Rankings” commissionato dal giornale ad Equilar, una società di ricerca, che dimostra, tra le altre cose, come il numero di donne ai vertici delle società più importanti rimanga ad oggi, per usare le parole del Nyt, «ostinatamente basso».

Il dossier, potrebbero fare notare i maligni, arriva in un momento in cui il New York Times è messo sotto accusa per quelli che alcuni hanno interpretato come lo stesso pregiudizio denunciato dallo studio di cui sopra. Quando Jill Abramson, la prima direttrice donna del giornale, era stata licenziata lo scorso mese, il New Yorker aveva sostenuto che Abramson era stata “punita” perché, dopo avere scoperto che i suoi predecessori (maschi) ricevevano un salario più alto del suo, avrebbe chiesto un aumento. Dal canto suo, come peraltro ribadito nell’articolo di questo fine settimana, il Nyt ha categoricamente smentito questa versione. Che però, vera o falsa che sia, è molto circolata – anche perché, se presa per buona, conferma due sentimenti diffusi, e cioè che: 1) le donne guadagnano, ingiustamente, meno degli uomini e 2) quando si fanno valere, sono penalizzate (perché quando un uomo alza la voce è un leader, quando è una donna a farlo è una rompiscatole).

L’idea è che il medesimo comportamento deciso, sicuro di sé, è non solo tollerato, ma anzi incoraggiato, nei maschi, è mal visto nelle femmine: «stai facendo la prepotente»

Il secondo assunto, lo avrete capito, è lo stesso alla base della campagna “Ban Bossy” lanciata dalla Cfo di Facebook Sheryl Sandberg qualche mese fa. L’idea è che il medesimo comportamento deciso, sicuro di sé, è non solo tollerato, ma anzi incoraggiato, nei maschi, è mal visto nelle femmine. Il problema, questa la tesi di Sandberg, comincerebbe dall’infanzia, quando genitori e insegnanti tendono a riprendere le bambine – «stai facendo la prepotente», bossy – per comportamenti che invece verrebbero fatti passare a un maschietto, come per esempio volere a tutti i costi fare il capo in un gioco.

Il problema è che, nel mondo reale, quello degli adulti, comportarsi da leader, essere sicuri di sé – anche un po’ troppo sicuri, come vedremo più in là – paga. E questo ci porta al secondo assunto: e cioè che le donne fanno più fatica a fare carriera. Qui, banalmente, sono i numeri a parlare, come quelli del rapporto Equilar sopracitato, o il fatto che, stando ai dati ufficiali della Casa Bianca, in media le donne americane guadagnano il 23% per cento in meno degli uomini. In realtà su quest’ultima cifra, ci sono un po’ di controversie: per esempio non tiene conto del fatto che, spesso, uomini e donne scelgono carriere diverse. C’è anche chi ha provato a misurare la disparità di stipendio tra uomini e donne che fanno esattamente lo stesso lavoro… e ha scoperto che, un po’ di differenza c’è, ma non è affatto così macroscopica: a parità di altri fattori, gli uomini guadagnano tra il 4 e l’1 per cento in più.

Resta il fatto che le donne ai vertici sono poche e che, in effetti, anche a parità di impiego guadagnano un po’ meno degli uomini. Sul perché questo accada, finora le due teorie più diffuse, almeno sulla stampa mainstream, sono state due: da un lato c’è chi dice che a penalizzare le donne è soprattutto la maternità, dall’altro chi sostiene che esiste una certa discriminazione, fosse anche inconscia, da parte dei datori di lavoro, che tendono a fidarsi più dei dipendenti maschi, anche a parità di competenza (poi, naturalmente, si può ipotizzare una combinazione di questi fattori).

Qualche mese fa, però, The Atlantic ha pubblicato una storia di copertina che offre una prospettiva diversa: e se il problema fosse la psicologia femminile?, e se il problema fosse che le donne sono troppo poco sicure di sé e dunque incapaci di farsi valere? Questa la tesi di fondo di Katty Kay e Claire Shipman, autrici del saggio The Confidence Code: The Science and Art of Self-Assurance – What Women Should Know. Si tratta di un’altra classica storia da The Atlantic. Insomma una di quelle storie, ampie e ben documentate, che parlano di donne e lavoro con quel distintivo mix di aneddoti, studi scientifici e opinioni personali che ha fatto della rivista «un brand chiacchierato anche al di fuori della chattering class», come riassumeva Pamela Erens su LA Review of Books. Una di quelle storie pensate apposta per fare discutere, per toccare nervi scoperti e alimentare la conversazione, offline e online, che poi è una specialità dell’Atlantic (a chi interessa: di questo parlavamo più nel dettaglio in un pezzo pubblicato sul n.14 di Studio, che potete leggere qui).

Il sottotesto è che le donne dovrebbero imparare ad avere un po’ più fiducia di sé. Insomma, va riformata la psiche femminile, non il mercato del lavoro.

Tornando alla storia di copertina di The Atlantic, la tesi di Kay e Shipman può essere riassunta come segue: 1) le donne sono troppo insicure, tendono sistematicamente a sottostimare le proprie capacità, e questo è un male perché l’insicurezza le spinge a non farsi avanti; 2) gli uomini, al contrario, sono sicuri di sé, tendono sistematicamente a sovrastimare le proprie capacità, fino al punto di ritenersi qualificati per lavori che in realtà richiederebbero il doppio delle loro competenze. E questo è un bene perché essere sicuri di sé, anche quando questo significa avere un’idea spropositata delle proprie capacità è esattamente ciò che il mercato richiede. Il sottotesto è che le donne dovrebbero imparare ad avere un po’ più fiducia di sé. Insomma, va riformata la psiche femminile, non il mercato del lavoro.

A supporto della loro tesi le due autrici citano alcuni studi interessanti. Come quello effettuato da uno psicologo di Berkeley, Cameron Anderson: il ricercatore ha sottoposto alcuni studenti a un test, chiedendo loro di dichiarare il loro grado di conoscenza di alcune figure storiche. Alcuni dei nomi presenti nel test appartenevano a personaggi reali, altri erano inventati di sana pianta. Anderson ha notato che molti studenti maschi dichiaravano di essere “esperti” sulle biografie non solo di personaggi reali, tipo George Washington, ma anche di persone inventate, di cui mai avrebbero potuto sentire. In pratica, erano convinti di essere molto più “preparati” di quanto in realtà non fossero (una persona realmente ferrata in storia avrebbe saputo che non esiste nessun “Galileo Lovano”). Successivamente, Anderson ha verificato che gli studenti più convinti (del tutto senza ragione) di essere ferrati in storia erano anche quelli considerati più svegli dai loro compagni. Conclusione: spararla grossa paga, ed è un’arte prevalentemente maschile.

Nella stessa direzione vanno alcuni dati raccolti dalla Hewlett Packard sul comportamento dei propri dipendenti. In breve: le donne, in media, fanno domanda per una posizione soltanto quando possiedono il 100% dei requisiti, gli uomini quando hanno il 50% dei requisiti.

La conclusione delle autrici è che «gli uomini senza i giusti requisiti non si fanno problemi a farsi avanti» e che, peraltro, fanno bene. Le due poi citano studi che dimostrerebbero che una confidenza eccessiva nelle proprie possibilità è socialmente sdoganata, e persino apprezzata, purché sia fatta in buona fede. Tradotto un po’ brutalmente: se sei un mezzo ignorante ma vai in giro vantandoti di essere una specie di Einstein, va benissimo, purché tu ci creda veramente. Le donne, questo il sottotesto, in queste cose non sono molto brave, ma dovrebbero imparare.

Ora, perdonate la ripetizione, ma non c’è bisogno di essere Einstein per capire che c’è qualcosa che non va in questo ragionamento. Se prendiamo per buono la tesi di Kay e Shipman secondo cui gli uomini tenderebbero sistematicamente a sopravvalutare le loro capacità e che le donne tenderebbero sistematicamente a sottovalutarle… ammesso che vogliamo prendere per buona questa tesi, si si diceva, siamo sicuri che il modello da seguire sia quello “maschile”?

Lasciamo per un secondo da parte le questioni di genere. La domanda che dovremmo porci è: ma chi l’ha detto che la over-confidence, insomma, una fiducia nelle proprie capacità ingiustificata dalle capacità reali, sia una cosa utile? Kay e Shipman sono convinte di sì. Altri, però, potrebbero fare notare che una cultura che premia la spacconeria, il narcisismo, insomma l’avere un’idea di sé che non trova basi concrete, porta anche a correre rischi inutili, al di là della propria portata. Volendo esagerare un po’, c’è chi arriva a sostenere che un’eccessiva presenza di narcisisti e sociopatici – insomma, gente che ha un’idea eccessiva di sé – ha contribuito a scatenare la crisi finanziaria del 2011. Che fossero maschi o femmine, poi, fa poca differenza.

Tornando alle questioni di genere, vale la pena di notare che c’è chi sostiene tesi diametralmente opposte da quella di Kay e Shipman. Non è educando le femmine ad assumer ecomportamenti rischiosi che si risolve il problema della discriminazione delle donne sul posto di lavoro. Semmai è creando pratiche nel mercato di lavoro che smettano di «premiare comportamenti rischiosi, specie quando si tratta di rischi non necessari, che sarebbe meglio evitare», spiega qui Moshe Hoffman della Rady School of Management dell’Università della California. Questo non solo faciliterebbe la presenza delle donne nelle aziende, ma, quel che forse più conta, ridimensionerebbe una propensione al rischio eccessiva di per sé. Tradotto: se alcuni aspetti dell’economia occidentali sono poco compatibili con la psiche femminile, forse il problema non è la psiche femminile.