Attualità

Panem et circenses

L'impatto della folla parigina, una delle più esigenti, sul corso dei match e sulla psicologia dei tennisti. E poi le prime vere partite, con Federer e Haas.

di Fabio Severo

Terza puntata del diario molto narrativo dai campi rossi parigini. In fondo all’articolo i collegamenti per le prime due puntate.

Comincia così ogni giornata, con la discesa nella metro e un viaggio di più di venti fermate e tre cambi, durante il quale hai l’impressione di incontrare e separarti con mezza città nell’arco di mezz’ora. Dentro quelle catacombe piastrellate di bianco i parigini ci sciamano con l’aria infastidita, come se quel dedalo di efficienza fosse il minimo dovuto, e invece di camminare con gli occhi spalancati a ringraziare per quel teletrasporto che li scarrozza ovunque li vedi che fanno le facce perplesse, e un po’ mi contagiano, finendo anche io a sospirare di disappunto quando il tabellone mi informa che il prossimo treno arriverà tra almeno tre minuti. Dentro, nel viaggio verso lo Stade Roland Garros la compagine di avventori del tennis non si distingue particolarmente dal resto della popolazione in movimento, se non per qualche zaino sportivo di troppo o per dei fogli stampati o dei Plan de Paris stretti nelle mani ancora dentro il vagone. Poi una volta scesi si cammina lenti tutti assieme verso l’uscita, c’è chi cerca di districarsi brandendo un accredito in mezzo al gruppone che intasa il binario, ma è inutile. I bagarini contrattano prezzi con spettatori dell’ultim’ora, scrivendo su pezzi di cartone preventivi a quattro cifre, mentre una sequela di strilloni chiama a raccolta per acquistare il programma del giorno o partecipare a una lotteria, come se vendessero l’edizione straordinaria che annuncia la fine della guerra.

Al bagno incontro il capo del reparto interviste, l’uomo più indaffarato di Parigi, sempre alla radio a dare orari e luoghi e a prospettare scenari sulla base di chi vince il dato incontro e a che ora. Anche di fronte all’orinatoio non molla le comunicazioni.

Adesso che ho dimostrato di non essere venuto soltanto a rubare una settimana di partite mi prorogano l’accredito fino alla fine del torneo. Mi danno anche un desk, dove sono circondato da giornalisti che parlano russo, polacco o croato con voci cavernose, gesticolano e litigano. Scopro che anche in russo si dice ‘mamma mia’, detto dal collega davanti a me per salutare il passaggio ai quarti di Svetlana Kusnetsova, che qui ha vinto nel 2009. Trovo qualcosa da mettere nel mio cassetto giusto per omaggiare la chiave che mi è stata data, e ora che ho una postazione posso smettere di andare in giro con giaccone e zaino come un visitatore, sempre con l’aria di uno che è appena arrivato giusto per dare un’occhiata. Mentre mi do un tono selezionando i canali della diretta del mio monitor mi offrono Perrier in lattina, io declino. Al bagno incrocio John McEnroe, e stiamo lì per qualche secondo dandoci le spalle, lui che si sistema la cravatta allo specchio e io che mi servo di uno degli orinatoi senza acqua che presumo siano marchio di fabbrica degli Slam, visto che già li osservavo ammirato in Australia per il loro potere magico di far sparire ogni traccia senza spreco di risorse idriche (“Urinoir sans eau”, dice appunto l’adesivo che ci si trova davanti, a ricordare il prezioso contributo alla sostenibilità). Sempre al bagno incontro il capo del reparto interviste, che immagino sia l’uomo più indaffarato di Parigi, sempre alla radio a dare orari e luoghi e a prospettare scenari sulla base di chi vince il dato incontro e a che ora. Anche di fronte all’orinatoio non può mollare le comunicazioni, e continua a parlare mentre io lascio il bagno vincendo la tentazione di spiare come gestisce il walkie talkie nel momento del bisogno.

Le tribune d’onore continuano a riempirsi di uomini con paglietta bianca che assistono con sufficienza al panem et circenses della folla, scortati ai loro posti da signorine vestite come le Demoiselles de Rochefort.

Fuori la folla che mi ha accompagnato nel viaggio si distribuisce tra i campi, e io sono giorni che la osservo cercando di cogliere i famosi tratti caratteristici del pubblico francese: estremamente partigiano, rumoroso, incline a dinamiche di amore e odio verso alcuni giocatori. Agassi in Open parla di puzza di pipa e sigaro, e anche se ormai credo non fumi più nessuno, le tribune d’onore continuano a riempirsi di uomini con paglietta bianca che assistono con sufficienza al panem et circenses della folla, scortati ai loro posti da signorine vestite come le Demoiselles de Rochefort. Poi ci sono il tifo e i cori, che seguono le dinamiche del tutto particolari del luogo, e se Parigi ha la fama di essere un posto dove è facile rimanere soli perché ognun pensa a sé, anche le incitazioni prendono la forma di questo solipsismo, poiché il pubblico francese costruisce la propria partecipazione sulla base di contributi rigorosamente individuali: c’è il classico “Allez” seguito dal nome del giocatore, poi una sorta di “Eeehhh” molto prolungato che termina su una nota acuta, infine c’è lo scambio tra il singolo e la folla, con uno spettatore che fa un lungo “Popopooh” a cui la massa risponde con un”Ooolé!”. Questi tre momenti sono il sottofondo di tutti gli incontri che si giocano qui, e solo durante match particolarmente intensi a questi suoni si vanno a sovrapporre vere e proprie ovazioni, canti della marsigliese e così via.

Quando sei in campo e il pubblico ti gira contro ti tocca sopportare un continuo starnazzare di voci e vocette che se non sei in grado di chiudere fuori dal cervello possono finire per corrodere la determinazione e far saltare i nervi. Parlano a voce alta tra la prima e la seconda di servizio, rallentano la ripresa del gioco fischiando quando una cosa non gli va bene, ridacchiano quando i giudici di linea urlano per segnalare gli out. Non è il pubblico tipico che partecipa eccitato al grande evento sportivo, si presenta più come una massa di spettatori che pretende, che vuole essere parte attiva dell’avvenimento, che non ringrazia per il fatto di poter assistere. Forse abituati a un’offerta culturale così ricca e articolata che i manifesti pubblicitari della stagione di danza contemporanea sono grandi quanto quelli dei saldi dei costumi da bagno alle Galeries Lafayette, i francesi sono diventati una massa di fruitori estremamente consapevoli, al limite dell’eccessivo.

Nel 2008 l’allora numero 1 Maria Sharapova ha urlato alla folla, resa ostile da alcune sue dispute arbitrali, “Allez up your fucking ass!”

Diversi sono gli episodi di giocatori portati sull’orlo di una crisi nervosa dal pubblico del Roland Garros: nel 2008 l’allora numero 1 Maria Sharapova ha urlato alla folla, resa ostile da alcune sue dispute arbitrali, “Allez up your fucking ass!”, a riprova di quanto quel mantra saputello ripetuto all’infinito possa nuocere alle menti spigolose dei tennisti. Nel 1999 Martina Hingis, all’epoca anche lei numero 1 e ancora adolescente gioca in finale contro Steffi Graf, ormai a fine carriera. In una partita altalenante finita al terzo set la Hingis sotto match point serve dal basso, ingannando la Graf e vincendo il punto. Da quel momento il pubblico si inferocisce fino a che la Hingis non perde l’incontro, finendo in lacrime e singhiozzi, tornata improvvisamente ragazzina di fronte alla pressione della folla. Dieci anni prima Michael Chang, anche lui diciassettenne, aveva fatto la stessa cosa a Ivan Lendl, eliminandolo tra le ovazioni. Non tutti i servizi dal basso sono uguali nella Ville Lumière. Per ciò la folla qui può essere un’alleata come una condanna per i giocatori francesi, molti dei quali vanno in giro con l’aria da nobilotti accigliati, tutti presi dal cruccio di dover difendere il proprio onore.

Federer ovviamente è uno dei pochi giocatori che riesce a cancellare le bandiere sventolate sugli spalti. Un po’ perché essere svizzero equivale quasi a essere apolide, un po’ perché lui quella nobiltà spadaccina dei tennisti francesi l’ha elevata a brand universale, ben tutelata dall’industria in quanto appeal necessario alla disciplina, al punto che origliando al ristorante ho sentito una giornalista giapponese dire che al suo giornale non è proprio concesso parlare male dello svizzero, pena richiami o addirittura provvedimenti. Ma nel suo ottavo di finale contro Gilles Simon anche lui ha dovuto patire qualche “Allez Gillou” di troppo, e dopo un primo set vinto in un soffio a metà del secondo è inciampato finendo mani e ginocchia a terra, la presa sulla racchetta diligentemente lasciata al momento della caduta. Scosso da quella perdita di compostezza ha poi perso secondo e terzo set, per poi andare un attimo in bagno, tornare e vincere quarto e quinto in poco più di un’ora. Ognuno ha i propri turbamenti, al Maestro è bastato abbandonare l’allez con cui per gentilezza verso i presenti lui stesso si è incitato negli incontri passati, e rispolverando il consueto come on navigare un po’ la tempesta e arrivare ai quarti, vincendo la novecentesima partita in carriera.

A Federer è bastato abbandonare l’allez con cui per gentilezza verso i presenti si è incitato negli incontri passati, e rispolverare il consueto come on per arrivare ai quarti, vincendo la novecentesima partita in carriera.

Altri incontri hanno visto lotte fin sul traguardo, con il tedesco Tommy Haas che ha battuto l’americano John Isner (quello del 70-68 al quinto a Wimbledon) 10-8 al set decisivo, dopo aver mancato dodici match point nel quarto. Con la sua andatura dinoccolata, la bocca semiaperta e lo sguardo vacuo Isner è l’idealtipo dello sportivo americano, condannato alla competizione come se non avesse scelta. Alto più di due metri, ha un servizio così potente che lo costringe a sopravvivere nelle partite anche quando tutto il resto del suo gioco non funziona più, ammassando punti che trascinano la competizione suo malgrado. Esausto, non si siede neanche più al cambio campo, cammina con le gambe storte come un airone ferito, mentre l’altro a 35 anni continua a lavorare la palla come pochi ormai fanno. Dopo una catena di infortuni, operazioni e classifiche sotto al numero cento, Haas per la prima volta ha raggiunto i quarti di finale a Parigi, dove giocherà contro Novak Djokovic.

Anche lo spagnolo Tommy Robredo viene da un lungo infortunio, l’anno scorso era finito sotto il numero 400, e qui stabilisce un primato di sopravvivenza, avendo vinto tre partite di seguito dopo aver ceduto i primi due set. Nella seconda gioca contro Gael Monfils, amato parigino che nel quarto set ha avuto quattro match point. Durante quei minuti di gioco, con la folla in delirio, Robredo si muove cauto tra un punto e l’altro, esulta poco, la testa bassa, i deboli applausi per i suoi vincenti che scorrono come rivoletti d’acqua soffocati, con cui piano piano si riesce comunque a dissetare, vincendo la partita. Nell’incontro successivo il pubblico è ormai tutto dalla sua parte: lui che non riesce ad andarsene dal campo a fine match, continua a aprire le braccia, si guarda intorno, la folla che lo tiene lì con applausi che ricominciano a ondate. Poi alla fine prende le borse e se ne va lasciando nello stadio qualche lacrima, e un paio di banane poggiate sulla sua sedia.

 

 

Prima puntata: Rossa terra di Parigi

Seconda puntata: Tennis bagnato