Attualità

Onda verde

La giornata dell'orgoglio leghista a Milano, la piazza, gli slogan, le bandiere

di Davide Coppo

Metti una domenica a Milano, ventidue gennaio (merla che incombe) e termometro che sfiora i quindici gradi. Metti anche decine di migliaia di leghisti venuti da tutta Italia (pardon, Padania) sotto il sole di un inverno siciliano in piazza Duomo: qualcuno si sarà fatto, spaesato dall’assenza di nebbiùn, qualche domanda. Spallata al governo, annunciava La Padania. «Libertà!» gridavano, pugni all’aere, le camicie e i cappotti verdi nell’arrivare sotto la Madonnina in corteo. Fischietti, costumi, corni vichinghi, il bestiario leghista al completo. Invocano Maroni, ma l’estetica è tutto fuorché maroniana, quest’ultima improntata a sobrietà moderata da futuro leader, quella imperante più fedele a un ideale borgheziano di vita, sbracato e di un dandysmo padano tutto elmi, spade e forconi.
Ecco, i forconi: ce ne sono e sono molti, richiamo smaccatamente bovaro dell’Italia contadina che si rimbocca le maniche, metaforicamente antitetici rispetto al signoraggio bancario, più che spettro, nuovo concreto nemico da battagliare. Aleggia un anticapitalismo nemmeno troppo nascosto da opporre al governo dei professori, governo “infame” come lo apostrofa Bossi dal palco, non in loden ma in un più popolare (e anticrisi) piumino verde militare. Cortocircuiti geopolitici curiosi: dalle Alpi all’Etna, i simboli scelti sono gli stessi.

Lo speaker che dal palco annuncia gli interventi urla con un entusiasmo che la piazza non rispecchia: le ovazioni richieste non vengono tributate a nessuno, non per malcontento ma per carenze vocali. L’età media è alta, l’ugola non più quella di una volta. Tra «compagni che prendono le tangenti» e «hanno fatto entrare i cinesi in Padania» lo slogan è dedicato alla “Europa dei popoli”, ideale padano da opporre all’Europa “come somma di stati”. Dal palco citano Catalogna e Baviera, motori del continente che conta insieme all’ovvia nostrana pianura, esempi virtuosi di economia che non soffre la crisi, anzi la soffre proprio perché costretta a farsi Atlante sotto lo schiacciante peso del meridione mediterraneo. Ma il leghismo è maturato, e lo slogan – immancabile – “Roma ladrona”, che pur risuona ancora tronfio, non ha più connotazioni anti-meridionaliste, ma anti-casta e anti-Monti: Cota, a mezzogiorno in punto, infuocato sotto il sole delle Alpi, urla tra fischietti e applausi che «la tracciabilità dei pagamenti serve solo a obbligare tutti ad andare in banca, altro che liberalizzazioni», e smonta le accuse della “stampa di regime” sulle divisioni interne dichiarando, epicamente, che «le Alpi uniscono, non dividono», richiamando il grande abbraccio nordista sulle regioni-culla del celodurismo duro e puro.

È il turno di Zaia, che invoca Walt Disney: «Mario Monti è lo sceriffo di Nottingham, la nostra Padania la foresta di Sherwood», tra applausi e risate della base. I fischietti non si fermano, ma si accentuano, iracondi, quando viene nominato l’eretico Reguzzoni e l’eretica “Rosy”, anzi, “la Rosy”, sottinteso Mauro. L’ora di Bossi scatta alle dodici e trenta in punto, e pur senza diti medi non ci mette molto a richiamare all’ordine il Professore: «Monti attento, la gente ti viene a prendere a casa» dice, voce cavernosa come da copione, facendo leva sull’orgoglio da ronde verdi, sogno tarpato prima che spiccasse il volo. Un appunto energetico quantomeno originale, «occorre fare le centrali a legna, in Padania abbiamo tanti boschi», e un attacco al governo “infame”, poi c’è spazio per l’ultimatum all’ex alleato: «Caro Berlusconi, non si può tenere un piede in due scarpe. La Lega ti obbliga alla scelta, non puoi essere sordo al grido della gente». Ma la gente grida e acclama poco, eppure sventola molto, e con il Va’ Pensiero finale che segue l’immancabile «Monti a casa, fuori dai coglioni!» del Senatùr la piazza si svuota, e si defluisce verso il Castello non prima di aver brindato con uno Spritz da otto euro in via Dante (diffusa indignazione dei veneti per i prezzi della “capitale”).

Davanti ai pullman facce sorridenti di chi ha dato un segnale forte, dalla Toscana, dal Piemonte, dalla Liguria. Un militante di Albenga, petto nudo esposto fiero (e sinceramente invidiabile per i sessant’anni che l’anagrafe recita), spiega così il suo credo ancestrale: «A scuola ho studiato il Ratto delle Sabine: già a quei tempi i romani rubavano, rubavano le donne, figuriamoci adesso», dilettandosi poi anche in linguistica: «Hanno un dialetto che insulta i defunti, dicono sempre “li mortacci”». Viene ripiegato lo striscione che sobrio recita “Italia di merda” e i chioschi, tra giapponesi curiosi e divertiti senegalesi, finiscono le scorte di birra. Rimane solo qualche instancabile partigiano verde che, in piazza Cairoli, ancora si raduna sotto la statua del Garibaldi equestre. «Garibaldi!» urla uno, «Pirla!» gli fanno coro gli altri, allegri di spritz e di orgoglio alpino. I non-lombardi partono, la base milanese torna a casa a piedi. «Buona Padania a tutti!» li aveva salutati Zaia, dal palco, poche ore prima.