Attualità
Nuova televisione italiana
Le serie, i talent, le storie, il modello italiano: chiacchierata con Andrea Scrosati, la testa dietro la tv che piace.
Quest’articolo è tratto dal nuovo numero di Studio, in edicola da mercoledì 9 marzo.
Anche Scrosati si fa tentare dalla metafora calcistica. «In che campionato vuoi giocare, questa è la domanda. Io scelgo quello di Serie A, punto all’eccellenza in tutti e tre i settori: per una serie local-local come I delitti del BarLume, ambientata in un paesino toscano, ma pure per il titolo d’autore che pensa in grande. Il problema è che in passato l’industria italiana invece di aspirare a essere anche l’ultimo fra i primi, preferiva essere il primo degli ultimi. La mia ambizione è creare un prodotto che, se proiettato di fronte a una platea straniera, non mi metta in imbarazzo neanche per un momento». La platea straniera cresce (The Hollywood Reporter ha segnalato l’assai sbertucciata 1992 tra i titoli imperdibili dell’anno), quella italiana ci tiene a riconoscersi come pubblico eletto: dire «guardo solo le serie di Sky» si porta molto nei salotti degli Anni Dieci. «Per prima cosa, un pubblico che in tempo di crisi continua a scegliere di pagare per l’intrattenimento non è un dato scontato.
Ma c’è uno scarto in più. Per un lungo periodo, non solo in Italia, ha resistito un approccio arrogante nei confronti del pubblico, la teoria della casalinga di Voghera secondo cui si pensava che qualunque cosa fosse andata in onda lei l’avrebbe vista. Oggi quell’entità non esiste più, gli schermi si sono moltiplicati, i più giovani hanno altri riferimenti, quando proponi qualcosa per cui è stato evidentemente fatto un grosso lavoro arriva anche dall’altra parte il riconoscimento della qualità, che si tratti di un documentario di Sky Arte o di X-Factor. Forse da lì nasce la voglia di entrare a far parte di un club, e dunque di parlarne». E twittarne, condividere sui social, condizionare lo storytelling, chissà. «Anche questo ha cambiato il nostro modo di pensare ai contenuti, non c’è dubbio. È più facile con programmi in cui con il voto si condiziona direttamente il risultato, ma anche per la serialità va tenuto conto dell’umore dei nuovi media, dall’unanime consenso su Gomorra al dibattito su 1992, che alla serie ha comunque fatto solo bene».
La Rete apre anche più facilmente il campo a quel che succede all’estero, forse da invidiare, forse da rubare. «Canal+ in Francia ha messo a segno una cosa che a noi manca: creare appuntamenti quotidiani con talk autorevoli, anche quello è produrre storie. In Brasile vedo grande fermento nell’action, a noi frena il fatto che a fare soldi è ancora la commedia». Arriva l’ultimo bicchiere di bianco, vengono fuori le storie che di recente hanno lasciato il segno su uno che con le storie ci lavora, «Sottomissione di Houellebecq mi ha colpito molto, e Don Winslow be’, lui sempre, per me è obbligatorio». Poi il discorso torna a quello scenario futuro solo abbozzato al principio: e se davvero tra qualche anno le serie Tv non fossero più il luogo del grande racconto popolare? «Già oggi s’intravede il pericolo più grosso: l’autoreferenzialità. Quando un formato raggiunge una maturità anche produttiva così alta, c’è sempre il rischio che diventi un saggio di perfezione. La storia ci insegna che la novità nasce anche dall’imprevisto, a volte pure dai difetti. Non posso immaginare il futuro, bisogna aspettare che la tecnologia faccia l’ultimo passo, davvero l’ultimo. Si può presumere che con Oculus e via dicendo la fruizione sarà totalmente immersiva, esperienza che la televisione da sola non potrà più offrire. Ma le storie sono le stesse da sempre, continueranno a esserlo anche a 360 gradi. Tutto è un racconto».