Attualità

Nostalgia Polaroid

Ritorna la Polaroid (in digitale). Vi raccontiamo i sognatori che l'hanno tenuta in vita in tempi duri

di Davide Coppo

In occasione dell’annunciato ritorno sul mercato delle macchine fotografiche della Polaroid (una fotocamera digitale, che opererà con Android, annunciata qualche giorno fa), ripubblichiamo un’intervista tratta dal numero 1 di Studio a Marlene Kelnreiter, una delle colonne di The Impossible Project, ovvero il progetto di un team di giovani imprenditori che per primi ricominciarono (e continuano) a produrre macchine fotografiche istantanee e pellicole proprio come le vecchie Polaroid.

Occorre innanzitutto distinguere tra un prima e un dopo.

Prima erano dei rettangoli con cornice bianca, con il perimetro sud spiccatamente più largo degli altri tre. Al centro, un quadrato. Un quadrato nero, pieno di enzimi e molecole, che sviluppava un’immagine. Nell’immagine c’era tua moglie con in braccio tuo figlio, nel salotto appena ammobiliato. C’era il tuo migliore amico, laureato con una birra in mano e un’espressione improbabile. C’era anche la tua prima macchina, lucida e parcheggiata nel vialetto della casa dei tuoi. O la tua prima casa, una villetta a schiera come tutte le altre lì intorno e il cielo azzurro dietro. Il tutto immobilizzato da un’angolazione un po’ storta, con elementi di disturbo (pali della luce, schienali di sedie, photobombers d’antan) che si intromettevano in quel perimetro bianco. Tutto questo era prodotto con un clic da una macchinetta fotografica che in pochi secondi sputava fuori la tua immagine.

Poi il tutto è diventato arte. Inutile descrivere le mille pieghe che questo tipo di fotografia ha preso nel formato artistico. Adesso che pixel e megapixel sono diventati espressioni comuni, questi rettangoli sono diventati un culto per appassionati, un solipsismo vintage che appassiona neo-luddisti, hipster e semplici nostalgici, che sappiano fotografare o meno. Però, adesso, creare quadretti grandi quanto il palmo di una mano è sempre più difficile. Sempre più dispendioso. Perché la Polaroid (di questo stavamo parlando) ha interrotto la produzione di pellicole istantanee circa due anni fa.

Morte della fotografia istantanea? Forse. Sarebbe più corretto parlare di coma. Perché nel giro di ventiquattro (più o meno) ore due signori, armati di defibrillatori, hanno resuscitato la salma, l’hanno rimessa in sesto, e via di nuovo a girare per il mondo, i rettangoli con cornice bianca e immagine al centro. La bizzarra idea di salvare quelle che tutti noi chiamiamo “polaroid”, l’hanno avuta Florian Kaps e Andrè Bosman, e l’hanno chiamata The Impossible Project. C’è una frase di Edwin Land, il creatore delle Polaroid istantanee, che dice “don’t undertake a project unless it is manifestly important and nearly impossible.”

Abbiamo fatto una chiacchierata con Marlene Kelnreiter, che è nell’Impossible Team (così si fanno chiamare) proprio dagli esordi. È una ragazza di ventisei anni, con i capelli neri a caschetto e una maglietta a righe orizzontali, parla in inglese con un delicato accento austriaco. “Il nostro nome viene esattamente da quella frase. E in parte anche dai commenti di tutte le persone con cui parlavamo della nostra start-up. Ognuno ci diceva che sarebbe stata un’impresa impossibile, salvare non solo le pellicole ma la fotografia istantanea.”

Tutto comincia nel 2008, dice Marlene. “Florian Kaps, il fondatore, voleva disperatamente salvare la fotografia istantanea dalla morte che l’attendeva, e da tempo stava scrivendo tonnellate di e-mail alla Polaroid, dopo l’annuncio da parte dell’azienda di voler interrompere la produzione delle pellicole. Tutto quello che ottenne però fu un invito alla cerimonia di chiusura dell’ultimo stabilimento, quello di Eschede in Olanda, proprio il 16 giugno 2008. Lui ci andò, le cose sembravano segnate, ma incontrò Andrè Bosman, per molti anni il production manager dell’impianto, ora incaricato della distruzione che sarebbe avvenuta il lunedì successivo.

Era anche stato avvertito dalla Polaroid di tenere d’occhio Florian e assicurarsi che stesse calmo, perché il suo entusiasmo preoccupava l’azienda. Cominciarono a parlare. Florian sapeva, per la sua esperienza precedente (gestiva un sito internet che si occupava di materiale a marca Polaroid), che c’era ancora mercato per la fotografia istantanea, e Andrè d’altronde sapeva che c’era ancora la possibilità di produrre pellicole. Insieme decisero di tentare l’impossibile. Avevano poco più di ventiquattro ore, un salvataggio quasi disperato.

“Impossibile sembra l’aggettivo giusto per ogni cosa facciate”, le dico. Marlene annuisce. “Sì, Andrè era incaricato della demolizione e invece fece fermare tutto. Nel frattempo Florian cercava investitori per il progetto, per mettere insieme abbastanza soldi per comprare i macchinari. Ma la Polaroid non voleva vendere, quindi tutto quello che fece Florian fu minacciarli. Minacciò di dire al mondo che c’erano persone che volevano comprare l’azienda e continuare la produzione ma che la stessa Polaroid glielo aveva impedito. L’azienda allora accettò l’offerta e gli diede i macchinari.”

Sembra una favola. “Con quanti soldi avete iniziato l’avventura?”, domando. “Una somma molto piccola, davvero: cominciammo il tutto con un budget di 1,2 milioni di euro, che includeva la spesa per le macchine e l’affitto dello stabilimento.” Marlene poi mi spiega che il primo anno di commercio delle pellicole è stato il 2010, e che si erano prefissati di venderne un milione. Invece sono riusciti a piazzarne poco più della metà. Ma la cosa non sembra preoccuparla: “Non è stato per nulla un fallimento, piuttosto una lezione. Abbiamo imparato che il tutto per andare a regime richiede una certa quantità di tempo.”

E nonostante il primo goal mancato, sembra che le cose vadano bene per Impossible Project. A New York e Tokio, per esempio, sono nati dei punti vendita che funzionano anche da gallerie non permanenti e workshop. Altri negozi che vendono materiale Impossible sono a Barcellona, Londra e Berlino. E ovviamente c’è l’Impossible Shop di Vienna, dove ha anche sede l’azienda. I muri sono bianchi con riproduzioni di foto celebri dall’archivio Polaroidappese ovunque. Il resto dello spazio è occupato da macchine fotografiche di ogni tipo e colore. Dico a Marlene di aver letto sul New York Times una frase di Florian Kaps: “the project is a very interesting business to last for another decade”. Significa che avete già in mente altri progetti e altre start-up, e che Impossible durerà al massimo dieci anni?  La risposta è no. “Florian si riferiva alle prospettive che avevamo quando siamo partiti nel 2008. Dobbiamo riaprire il mercato delle Polaroid, è pieno di gente là fuori che ne ha almeno una. Diciamo che dieci anni è il tempo che ci diamo per diventare, diciamo…”, “…un progetto famoso e di successo in tutto il mondo?”, continuo io. “Ecco, sì, esattamente – risponde – non vogliamo assolutamente fermarci dopo dieci anni.”

A questo punto, da amatore dell’analogico, provo a piazzare una domanda interessata, e malcelata: “Si dice che dopo le Polaroid, vogliate salvare anche il Super8.”

Marlene non ci casca: “No, beh. Ma dov’è che si dice?”

Mi tocca svelare che era una mia curiosità, una mia speranza. Magari Florian Kaps aveva pensato anche a questo. “Florian ha sempre la testa piena di nuovi progetti. Attualmente stiamo lavorando a molte cose, per esempio una nostra macchina fotografica istantanea, o vari altri tipi di pellicola, come l’8×10. Forse anche per il Super8 in futuro, ma per ora ci concentriamo sui progetti che abbiamo avviato.”

C’è da chiarire una cosa nel rapporto tra Polaroid e Impossible Project. Polaroid non potrà più produrre pellicole istantanee. Perché l’ultimo stabilimento con macchinari in funzione, come detto, è stato venduto a loro. Eppure a gennaio, al Consumer Electronic Show di Las Vegas, c’era grande attesa per il possibile lancio di un supporto analogico. Invece Lady Gaga (loro direttore artistico, sic) ha deluso i cultori. “Ma comunque – spiega Marlene – il CES non fornisce particolari indicazioni. La maggior parte dei prodotti presentati sono solo prototipi che non andranno nemmeno in commercio”.

Uno dei lati più interessanti di Impossible Project è il fatto che non solo sta salvando la fotografia istantanea, ma la sta anche reinventando. La maggior parte dei componenti chimici della ricetta originale, quella vecchia di quarant’anni e più, non sono più prodotti da nessuna azienda in tutto il mondo. Le pellicole Impossible sono create a partire da una formula chimica del tutto nuova, originale. Come si fa a ricreare una formula così complessa? Sembra quasi un qualcosa di alchimistico, del tipo “dammi un liquido e lo trasformo in fotografia”.

“Non ne so molto di chimica – risponde Marlene – il merito è dei nostri tecnici. Beh, e abbiamo avuto un bel po’ di fortuna.”

Il risultato è un tipo di film più versatile del classico, caro vecchio Polaroid. “Gli Impossible Films sono totalmente diversi. Sono adatti alla sperimentazione, alla modifica istantanea, sensibili al cambiamento di temperatura. Sono più adatti all’arte.” spiega. E l’arte è estremamente legata al “progetto impossibile”. Basti pensare che in appena un anno hanno già creato un archivio chiamato The Impossible Collection, con fotografie di artisti da ogni angolo del globo. “Quindi – le chiedo rassegnato, temendo di dover riscrivere tutta l’introduzione all’intervista – niente più ritratti di famiglia con bambini e animali domestici?”

Ma Marlene ride, e capisco che i miei timori per le fotografie sbiadite di bambini paffuti sono infondate. Spiega che “devi solo imparare come funzionano, poi potrai benissimo scattare foto di famiglie felici con tanti bambini. Comunque abbiamo in progetto di riuscire a creare un grande assortimento di pellicole, per ogni uso. Per esempio, stiamo sviluppando un tipo molto simile al 600 (il classico e più diffuso formato Polaroid, ndr) e sembra che vada tutto per il meglio. Se siamo fortunati, li metteremo sul mercato in primavera.”

Affascinante constatare come questi ragazzi stiano mischiando business e passione, divertendosi un sacco e facendo qualcosa che – se tutto andrà come sta andando – è destinato a diventare un successo anche economico, ma è partito con un moto di passione, uno slancio idealistico, o c’era già un ragionato business plan? “È stato 50-50, fin dall’inizio. Siamo tutte persone con una grande passione per la fotografia analogica ma tutte con una chiara idea di cos’è il mercato. In particolare Florian, che come ho detto gestiva un sito attraverso cui vendeva pellicole, sa bene quanta domanda c’è sul mercato della fotografia istantanea. È molto eccitante se ci pensi. Tu scatti e hai un’immagine unica, che puoi avere subito, la puoi tenere in mano, e mentre si sviluppa la guardi e sai che ci sarà qualche tipo di sorpresa. Non puoi mai sapere cosa apparirà esattamente sulla foto.”

“Sostanzialmente – chiedo – The Impossible Project sta reinventando una delle più importanti invenzioni del ventesimo secolo, che rischiava di scomparire. È un po’ come reinventare la penicillina. Non vi sentite dei pionieri?” Ma il mio entusiasmo si scontra con la semplicità di Marlene, che risponde con un timido “Sì, ma le cose devono andare ancora molto avanti. Siamo partiti con il 50 per cento di possibilità di fallire e il 50 per cento di riuscire, e sembra che ci stiamo riuscendo.”

Le faccio notare che distribuire le possibilità in maniera così equa, per un progetto con delle ambizioni così grandi e uno sviluppo, almeno iniziale, sostanzialmente folle (nell’accezione più positiva e/o romantica del termine) è ottimismo allo stato puro. “Beh, se non fossimo stati così ottimisti non avremmo neppure iniziato. E non iniziare è sicuramente peggio che fallire.”