Attualità

Nole va alla guerra

Novak Djokovic, simbolo della rinascita della Serbia e istrione sul tetto del tennis. Numero 1 cresciuto sotto le bombe e grato a chi l'ha reso ciò che è.

di Francesco Marinelli

Novak Djokovic è il numero uno della classifica dei tennisti professionisti ATP da due anni e due mesi, precisamente dal 4 luglio 2011. È serbo e questo non è un aspetto secondario, per il suo tennis e il mondo che lo circonda. Rabbioso e determinato, instancabile, Djokovic ha passato gli ultimi anni a rincorrere un sogno che a molti sembrava irrealizzabile, ma non a lui: spezzare il dominio iniziato nel 2003 da Roger Federer e condiviso in seguito con Rafael Nadal. Raggiungere il numero uno, per sé, per il suo paese. Il tennis professionistico degli ultimi anni è stato condizionato enormemente da questi due giocatori, per tecnica e preparazione fisica. Djokovic ha lottato e perso contro di loro in molte occasioni. Ma è stata proprio questa l’unica vera strategia per superarli un giorno, come successo poi nel 2011, quando ha pianto sull’erba quasi scolorita della finale di Wimbledon. Il nuovo numero uno del tennis, ancora oggi.

Il tennis di Djokovic è stato costruito per alzare continuamente l’asticella del livello di gioco, in allenamento e durante la partita. Ha voluto cambiare racchetta per migliorare i suoi colpi, ha seguito una dieta particolare, ha fatto tutto quello che poteva per diventare il numero uno. Con una grande forza di volontà, e grazie a un fisico straordinario. Djokovic è malleabile, come quando piega le ginocchia avvicinandole, per allungarsi sulla palla e rimetterla dentro, quando sembrava già punto per l’avversario. O come va da una parte all’altra della riga di fondo facendo perno sulle caviglie, fino a stordire l’avversario con un diritto vincente. Beffardo, come quando interrompe uno scambio lungo con una palla corta, improvvisa, grazie a una mano tanto delicata quanto spietata. Di solito, in questi casi, si gira e fa un piccolo sorriso, quasi fosse sorpreso della sua classe. È anche un giocatore onesto: quando gli avversari fanno dei punti spettacolari è il primo ad applaudire. Sa che è solo un momento di passaggio.

È anche un giocatore onesto: quando gli avversari fanno dei punti spettacolari è il primo ad applaudire. Sa che è solo un momento di passaggio.

Tutto è cominciato nel 1991 su un campo di terra rossa, quando Jelena Gencic, ex campionessa di pallamano diventata poi allenatrice di tennis, decise di iniziare a lavorare con il piccolo Nole, come lo chiamano i familiari e i suoi tifosi. La “sua maestra”, come la chiamava Djokovic gli ha trasmesso passione e dedizione per quella terra rossa, altrimenti non sarebbe andato da nessuna parte. Il giorno del suo funerale, dopo la morte avvenuta il primo giugno scorso, Djokovic non era a Belgrado e stava male al pensiero di non poterci essere. Si trovava in Francia, per giocare il Roland Garros, il torneo del Grande Slam di Parigi, l’unico che ancora non è riuscito a vincere. Durante il funerale fece leggere a sua madre Dijana una lettera in cui aveva scritto: «Il non vederti più mi dà una tristezza senza fine. Eppure, so che diventeresti matta se mollassi adesso e rinunciassi alla possibilità di soddisfare un desiderio che è stato anche il nostro, vincere il Roland Garros».

Il piccolo Nole se ne stava seduto su una poltrona e vedeva giocare i grandi campioni del tennis in televisione, fin da quando aveva 4 anni. Passava la maggior parte del tempo nella pensione ristorante dei suoi genitori, tra le montagne che circondano Belgrado. Fuori, lungo la strada, la famiglia Djokovic aveva fatto costruire tre campi da tennis, dove Jelena Gencic allenava un gruppo di ragazzini. Dopo la scuola Nole si avvicinava ai campi e passava le ore con il naso e le mani infilati nei buchi della recinzione metallica, a guardare gli altri bambini che si allenavano.

Jelena Gencic, che vedeva spesso questo bambino appoggiato alla rete, gli chiese se voleva provare. Djokovic si presentò il giorno dopo con una borsa termica, una racchetta, un asciugamano, una bottiglia d’acqua, una banana, una maglietta di ricambio e una fascia per il sudore. Nel vederlo arrivare, la Gencic gli disse: «Tua madre ti ha preparato bene la borsa». Djokovic – ha raccontato anni dopo – non la prese bene e si arrabbiò visibilmente. Stizzito le rispose: «L’ho fatta io. Io voglio giocare a tennis, non mia madre».

La Gencic gli disse: «Tua madre ti ha preparato bene la borsa». Djokovic – ha raccontato anni dopo – non la prese bene e si arrabbiò visibilmente. Stizzito le rispose: «L’ho fatta io. Io voglio giocare a tennis, non mia madre».

La situazione in Serbia in quegli anni era molto critica. La guerra e lo scoppio delle bombe influirono molto sul suo carattere, ma non sulla volontà di continuare ad allenarsi, a calpestare la terra rossa, a diventare un campione. Nel marzo del 1999 la NATO iniziò l’attacco aereo contro Belgrado e Djokovic dovette passare la maggior parte del tempo nel seminterrato del condominio, per ripararsi dai bombardamenti insieme ai genitori e ai suoi due fratelli minori, Marko e Djordje.

Djokovic non smise mai di allenarsi con la “sua maestra” fino al momento in cui la Gencic decise che era giunto il tempo di compiere un passo decisivo. Lei non aveva più nulla da insegnare al piccolo Nole. Così chiese a Miki Pilic, ex tennista croato, di prendere con sé Djokovic, nell’accademia di tennis che gestiva a Oberschleissheim, vicino Monaco, in Baviera. Tra molti pensieri e preoccupazioni se fosse il caso di abbandonare la famiglia, Djokovic decise di andarsene per concentrarsi sul tennis, anche se a Belgrado c’erano le bombe.

Servivano cinquemila marchi al mese. Srdjan, suo padre, non aveva tutti quei soldi per pagare l’accademia e iniziò a cercare sponsor che investissero sul talento di suo figlio. Si fece prestare dei soldi con tassi di interesse molto alti, dal 10 al 15 per cento, tanto per farsi un’idea. Srdjan azzardò, scommettendo e credendo nelle doti di Nole. Se non fosse riuscito a entrare nel mondo del tennis professionistico, probabilmente la sua famiglia sarebbe andata in rovina.

Novak Djokovic ha vinto i suoi primi tornei nel 2003. Nel 2005, soltanto due anni dopo, diventò il più giovane tennista tra i primi cento della classifica ATP. In carriera ha vinto quattro volte gli Australian Open – il torneo del Grande Slam di Melbourne – una volta Wimbledon e una volta gli US Open, il Grande Slam di New York. Nel complesso, considerando i tornei ATP e i Masters 1000, ha vinto 37 tornei. Nel 2011, il suo anno magico, Djokovic conquistò tre Slam su quattro. Vinse trentadue partite di seguito, togliendosi anche la soddisfazione di battere lo spagnolo Rafael Nadal, all’epoca numero uno della classifica, in tre finali consecutive: Indian Wells, Miami, Madrid. Riuscì a batterlo anche sulla terra rossa, come quella dei campi tra le montagne di Belgrado, dove provava e riprovava il rovescio con la sua maestra. Una settimana dopo Madrid vinse di nuovo, sempre contro Nadal, agli Internazionali d’Italia.

Novak Djokovic considera il nostro paese come una seconda casa e ha un rapporto molto affettuoso con il pubblico del Foro Italico. Roma gli piace molto e fino a qualche anno fa, quando era già stabile come numero quattro o cinque della classifica, lo si poteva incrociare nei vicoli dietro Piazza Navona, entrare e uscire da ristoranti e discoteche. Ora sarebbe più complicato, ormai lo riconoscono in molti, anche a chi del tennis importa poco. Per i tifosi italiani, comunque, è diventato semplicemente Nole.

Considera il nostro paese come una seconda casa e ha un rapporto molto affettuoso con il pubblico del Foro Italico. Roma gli piace molto e fino a qualche anno fa lo si poteva incrociare nei vicoli dietro Piazza Navona.

Djokovic masticava parole di italiano fin da ragazzino. Veniva spesso in Italia negli anni in cui frequentava la casa di Riccardo Piatti, un allenatore bravo e conosciuto. Anche se il talento di Djokovic già si intravedeva, Piatti non volle mai seguirlo negli allenamenti perché, come ricorda lo scrittore e giornalista Gianni Clerici, aveva «una famiglia un po’ troppo numerosa». Nell’ambiente del circuito, molti la definiscono il “clan Djokovic”: la madre Dijana, il padre Sdrjan, l’allenatore Vajda (lo stesso di oggi), il fisioterapista Amanovic e il medico personale e nutrizionista Cetajevic.

L’angolo della famiglia Djokovic è sempre molto caldo e ha un peso specifico nel mondo del tennis. A Belgrado la famiglia di Djokovic possiede diversi campi, in un club bello ed esclusivo. Inoltre, dal 2009, organizza il torneo ATP del Serbia Open, che si gioca sulla terra rossa: Djokovic ha vinto la prima e la terza edizione. Da qualche anno al nucleo iniziale si è aggiunta la sua attuale fidanzata, Jelena Ristic, serba anche lei. Nell’immaginario degli appassionati ha preso ormai il posto di Miroslava Vavrinec, per tutti semplicemente Mirka, la fidanzata storica e poi moglie di Roger Federer, sempre presente durante le sue partite ma molto più silenziosa ed inespressiva.

Quando segue le partite Jelena Ristic è un susseguirsi di facce curiose: ride, si arrabbia, urla, esulta con foga. E difende il suo fidanzato, se di fronte c’è un pubblico all’apparenza ostile. È capitato anche recentemente, a luglio, il giorno dopo la finale di Wimbledon, a Londra. Disse alla stampa: «Onestamente non mi sono sentita a mio agio, c’era così tanta gente contro di noi». Durante la finale contro il britannico Andy Murray, Djokovic aveva praticamente tutto il pubblico contro. Non nel modo in cui lo si potrebbe intendere e immaginare in altri sport, dato che nel tennis il pubblico è quasi sempre corretto, quieto ed impeccabile. Ma certo, la finale di Wimbledon e un britannico in campo rappresentavano un’occasione troppo ghiotta per non lasciarsi un po’ andare.

Djokovic conosce il mondo del tennis e questo tipo di situazioni, ma capita che ci sbatta il muso. È un giovane molto simpatico, ma a volte non riesce a creare un legame positivo con il pubblico intorno a lui. I tifosi legano spesso la sua immagine a quella di un ragazzo spiritoso, che fa le imitazioni dei colleghi: quella di Nadal e dei suoi mille tic superstiziosi, delle movenze di Federer, delle urla quasi animalesche di Maria Sharapova. Passa da burlone, volutamente, per costruire un personaggio mediatico e per attirare simpatia e supporto. Anche quando gioca padroneggia il suo senso dell’umorismo, persino se contesta un punto. Ogni tanto spacca qualche racchetta e sfoga la rabbia urlando a bocca spalancata, sbattendo la testa tra le corde. Altre volte, dopo un punto difficile, mostra al pubblico il pugno, come segno di forza. E quando non sente il suo supporto, mostra un sorriso beffardo, in segno di sfida. Questo a volte non piace.

A Wimbledon in parte andò così, anche se oggettivamente la partita era stata segnata sin dall’inizio da un clima e un punteggio favorevoli ad Andy Murray. Djokovic però non ci stava ad essere lo zimbello di turno. Era ed è pur sempre il numero uno della classifica, già vincitore a Wimbledon. Per questo, dopo ogni punto vinto (sono stati pochi, in verità) guardava verso la tribuna del Lawn England Tennis Club con aria di sfida. Sappiate che se il vostro Andy vorrà vincere questa maledetta finale dovrà superare il numero uno, sembrava che dicesse con la sua espressione. O i suoi pugni stretti, rinforzati da qualche parola detta in serbo, forse non troppo gentile.

La famiglia di Novak Djokovic è sempre stata molto presente e vicina, fin dall’inizio della sua carriera: tutti al completo a seguire Nole, con maglie e bandiere con i colori della Serbia. Un supporto fondamentale, soprattutto nei momenti difficili, come quando a Belgrado c’era la guerra. Durante le partite, Djokovic cerca sempre con lo sguardo il suo angolo. E nei momenti di ripresa, magari dopo uno scambio lungo e difficile, e vinto, si gira di nuovo battendo un pugno sul petto. Per indicare il cuore e il suo legame, che è parte di un’identità comune. A chi gli domanda da dove arrivi il suo successo, Djokovic risponde sempre ricordando lo stesso esempio. Quel giorno, il 22 maggio 1999, «festeggiavo il mio compleanno al Partizan Tennis Club, dove sono cresciuto – ricorda Djokovic – era mezzogiorno circa e i miei genitori stavano cantando ‘Tanti auguri a te’ quando cominciò l’attacco».

Djokovic è stato nel 2010 il protagonista della vittoria della Serbia in Coppa Davis – la più importante competizione mondiale a squadre nel tennis maschile – la prima nella storia della nazione. In patria è una vera e propria autorità, un personaggio venerato non solo per i suoi meriti sportivi. Il legame con il suo paese è molto più di un rapporto rituale segnato dalla celebrazione di un eroe nazionale in un paese bisognoso di miti. Sport e politica in Serbia sono spesso legati, non soltanto nel tennis, e l’origine del legame è il nazionalismo. Djokovic è stato a volte accusato di essere un nazionalista, soprattutto quando si parla di Kosovo, dove è nato suo padre. Dopo aver vinto per la prima volta gli Australian Open, nel 2008, registrò un video che venne trasmesso nelle piazze di Belgrado, mentre centinaia di migliaia di serbi stavano manifestando contro l’indipendenza del Kosovo. Disse: «Siamo pronti a difendere ciò che è giustamente nostro, il Kosovo è serbo». Di quel gesto, spiegò in seguito, non si è mai pentito, nonostante abbia ricevuto molte critiche per aver fomentato gli scontri tra la folla.

Djokovic ci tiene a sottolineare che questo lato della sua personalità non venga visto soltanto in negativo: «La guerra mi ha reso una persona migliore perché ho imparato ad apprezzare e a non dare niente per scontato» – racconta spesso – «la guerra mi ha reso anche un tennista migliore perché mi promisi di dimostrare al mondo che esistono anche dei serbi buoni». In Serbia, Djokovic rappresenta il simbolo della rinascita di un paese. Spesso, girando per Belgrado, si vedono poster con la sua faccia appesi lungo le strade. Il suo nome è sugli accendini, sui sacchetti delle caramelle, sui portachiavi. Sono stati stampati francobolli in suo onore.

In Serbia, Djokovic rappresenta il simbolo della rinascita di un paese. Spesso, girando per Belgrado, si vedono poster con la sua faccia appesi lungo le strade. Il suo nome è sugli accendini, sui sacchetti delle caramelle, sui portachiavi.

La voglia di Djokovic di combattere e sudare, e correre da una parte all’altra della linea di fondo, non è mai cambiata, nonostante abbia vinto sei tornei del Grande Slam e abbia ottenuto un record di quarantatré vittorie consecutive tra novembre 2010 e giugno 2011. Ha vinto cinque Masters 1000 in una sola stagione, non ci era mai riuscito nessuno. Il suo anno migliore si concluse con un ultimo record, davvero simbolico, se si ripensa a quanto rischiò papà Srdjan: nel 2011 Djokovic divenne il tennista ad aver guadagnato di più in un solo anno, circa 9 milioni e mezzo di euro.

È sempre stato attento ai minimi particolari e ai momenti giusti, come quando prepara la battuta in maniera compulsiva, facendo sbattere la palla a terra dal palmo della mano per tre secondi in più, prima di alzare lo sguardo e servire. Ha una preparazione impeccabile, continua, sempre al di là del limite. Novak Djokovic è alto un metro e ottantotto centimetri e pesa 80 chilogrammi. Se le sue gambe sono così esplosive, se quel dritto è così potente, se il respiro sembra non piegarsi neanche dopo una partita lunga 5 ore e 53 minuti – come nella finale degli Australian Open vinta nel 2012 contro Nadal, la più lunga di uno Slam – non lo si deve soltanto al suo talento e alla sua forza di volontà. Il suo tennis si accompagna alle conoscenze di un nutrizionista, che gli hanno consentito di formare un profilo formidabile: in campo Djokovic alterna un’impeccabile concentrazione a una frenesia incontrollabile, l’ossessione negli scambi e la calma di un drop shot improvviso.

In Serve to win, il libro pubblicato il 20 agosto 2013 da Zink Ink, Djokovic racconta molti particolari della sua preparazione psicofisica. Grazie a Igor Cetojevic, nutrizionista serbo che vive a Cipro, ha cambiato le abitudini quotidiane, alimentari ma non solo. Durante una visita Djokovic rimase impressionato da un piccolo esperimento: Cetojevic gli chiese di posare la mano sinistra sullo stomaco, tendere il braccio destro e resistere alla spinta del medico sul suo braccio. Poi il dottore gli diede una fetta di pane e gli disse di tenerla premuta contro il suo stomaco e ripeté il gesto. La sua forza nel resistere, nel secondo caso, era praticamente nulla. Cetojevic gli fece fare una serie di analisi specifiche, in cui risultò che Djokovic era intollerante al grano e ai latticini. Per questo gli era capitato di avere la nausea in campo, di dover correre negli spogliatoi e vomitare.

Djokovic decise di seguire in maniera impeccabile la dieta preparata da Cetojevic. Gli ingredienti base erano (e ancora sono): acqua tiepida da bere per tutto il giorno, frullati a base di concentrato di piselli, niente latticini, niente alcol durante i tornei, molti avocado, burro di anacardi, pochissimo zucchero. E poi quella che è diventata la sua ossessione: il miele di manuka della Nuova Zelanda. Due cucchiai ogni mattina, dopo il bicchiere di acqua tiepida, appena sveglio.

Segue anche alcuni insegnamenti della medicina e della filosofia orientali: «Ciò che conta non è sapere se si deve credere a questi approcci particolari o seguirli» – ha scritto nel libro – «ciò che conta è avere una mente aperta». La sua filosofia cinese però viene dalla Serbia, l’ha studiata negli anni passati con la “sua maestra”, quando si stendeva nel divano del salotto di casa Gencic: insieme leggevano poesie o ascoltavano musica classica. Oltre a provare la battuta contro il muro o il rovescio lungo linea, la “sua maestra” gli faceva fare esercizi di “visualizzazione”, per stuzzicare la creatività e credere nei suoi sogni. Djokovic ha raccontato che in quei momenti voleva aver chiara l’immagine del giorno in cui avrebbe vinto Wimbledon e sarebbe diventato il più forte.