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NO

Pablo Larraín e la sua trilogia cilena, conclusasi con No, il film sul referendum del 1988 per decidere il destino di Pinochet.

di Laura Spini

Pablo Larraín è un cileno di trentasei anni che, a partire dal suo secondo lungometraggio, ha intimidito i distributori indipendenti italiani a tal punto da far loro credere per un’ultima, trionfale, volta nella “forza del cinema”. Me lo immagino, il consiglio direttivo della Ripley’s Film e della Archibald (distributori rispettivamente per Tony Manero e per Post mortem) riunirsi, colpire il tavolo con un pugno ed esclamare: «Questa giovane promessa ci ha fatto credere ancora una volta nella forza del cinema!».

Larraín, figlio di due esponenti dell’UDI (il partito conservatore nato dalle ceneri ancora bollenti del regime di Pinochet), è noto tuttavia per aver realizzato quella che ora tutti chiamano “La trilogia del golpe”, o “La trilogia di Pinochet”, di certo non una trilogia celebrativa del regime, conclusasi quest’anno con No, trionfato a Cannes nella Quinzaine des réalisateurs (2012) e in concorso lo scorso ottobre al London Film Festival.

Ma l’operazione di Larraín, più che una trilogia, è un 2 + 1. Lo è a partire dallo stile: Tony Manero (2008) e Post mortem (2010) sono entrambi girati in 16mm, godono della stessa semi-assenza di dialogo e della medesima finalità (per ammissione del regista) di creare, piuttosto che una storia, un’atmosfera. Sono esempi brillanti di un manierismo formale che è spesso – ma non sempre – sottoposto al contenuto. Non seguono un percorso cronologico – Tony Manero è ambientato nel 1978, un anno dopo l’uscita de La febbre del sabato sera, e si svolge intorno a un criminaletto e assassino improvvisato, aspirante Sosia Incontrastato di Tony Manero; Post mortem unisce la vicenda privata di un medico legale e il golpe del 1973, esplodendo, a metà film, con l’estremamente spoilerata (anche qui di seguito) autopsia di Salvador Allende.

Pochi mesi prima che Post mortem fosse proiettato a Venezia, Patricio Guzmán, compatriota di Larraín e documentarista, portava a Cannes Nostalgia de la luz, una riflessione parapoetica e paradocumentaristica che accosta la ricerca, da parte di un gruppo di donne, delle ossa dei propri desaparecidos e la ricerca, da parte di un gruppo di astronomi, delle origini della vita. Dove Guzmán parla della persistenza della memoria, Larraín parla della rimozione individuale, e i primi due film della sua trilogia si servono di un protagonista disturbato (Alfredo Castro, il Toni Servillo cileno) come manifestazione fisica dello stato delle cose. (In maniera più sottile di quanto non sembri qui).

No, in effetti, parte dallo stesso presupposto degli altri due film – con un protagonista, però, inizialmente non disturbato, ovvero Gael García Bernal. Il “no” del titolo è riferito al “no” della campagna pubblicitaria svoltasi durante il primo referendum indetto da Pinochet, nel 1988, per legittimare – a quindici anni dal colpo di stato – la propria presidenza. Alla fazione del “no”, l’opposizione, vengono concessi quindici minuti al giorno per sponsorizzare la propria causa. René Saavedra (Bernal), pubblicitario rampantino, viene chiamato per applicare il suo gergo al messaggio politico.

Per integrare le pubblicità originali e i filmati di repertorio (circa 30% del film), Larraín ha deciso di girare il film interamente in video, in 4:3, sempre controsole, riaggiornando i propri manierismi in qualcosa di inaspettato per lo spettatore, e particolarmente coerente per il racconto. No funziona perché non punta a sconvolgere con una forma inusuale giusto per il gusto di; cerca di uniformare le immagini di repertorio alle immagini della storia che si sta guardando, volgendole così al presente. Se io, spettatore, firmo un contratto con Regista X secondo cui, per le seguenti due ore, quello che sto vedendo al cinema lo sto vedendo in realtà attraverso il televisore (nel 1988), non sono costretto a subire il distacco straniante di immagini di archivio del passato, semplicemente un po’ buffe o un po’ tragiche perché distanti nel tempo.

Larraín, tacciato spesso di formalismo, ha dato prova – attraverso il formalismo – di saper usare il mezzo, qualsiasi mezzo (anche le U-Matic dei primi anni ’80) in funzione di ciò che vuole raccontare. In No sperimenta con dialoghi serrati (questi sconosciuti) e una satira pervasiva, e conclude con il finale più amaro della trilogia. In No non si compiace, non indugia su nulla, ed eccolo, lì allo specchio, che si aggiusta la cravatta: è Pablo, e ormai è un ometto.

Negli Stati Uniti, Larraín ha debuttato a settembre con una serie HBO, Prófugos. Qualche tempo fa, probabilmente, ha spinto qualcuno intorno a un tavolo a pronunciare quella cosa senza vergogna – la “forza del cinema”.

 

 

Una versione precedente di questo articolo è apparsa sul numero 12 di Studio.

Nell’immagine, Augusto Pinochet