Attualità

Niente doping, siamo inglesi

La Gran Bretagna vuole il life-ban dalle Olimpiadi per gli atleti che in carriera furono trovati positivi ai test

di Davide Coppo

Per le regole ferree gli inglesi hanno un debole, forse di più: un’ossessione. Lo scontro di civiltà (l’albionica intransigenza e l’italico laissez-faire) è esploso nella sua evidenza nei giorni iniziali dello scorso febbraio, con l’esonero indotto (chiamatele dimissioni, se volete) di Fabio Capello da manager dell’Inghilterra calcistica. La sua colpa, imperdonabile per il rigore britannico, consisteva nell’aver difeso John Terry, accusato di “razzismo”, prima che una corte emanasse il suo giudizio definitivo. Ne risultano due impressioni: una testardaggine  sorda a qualsiasi ragione, e una cieca fedeltà nella disciplina che sfocia nel masochismo. Le stesse impressioni  derivano da un’altro mezzo pasticcio, sempre tutto sportivo, di cui si sta dibattendo in questi ultimi giorni, quando mancano soltanto quattro mesi ai fuochi d’artificio di apertura di Londra 2012.

In questo caso si parla di doping, e la bacchettona Gran Bretagna ci mette ancora una volta del suo per distinguersi. Pensavate che le Olimpiadi fossero quella competizione in cui tutti gareggiano sotto lo stesso tetto sportivo e a regole unificate? No, non è così. O meglio, sembrava proprio così, ma lo sbarco dei Giochi a Londra ha portato a galla una contraddizione tutta made in Great Britain. Trattasi di doping, e di un caso che da ieri è dibattuto dal CAS, ovvero Court of Arbitration for Sport. I contendenti sono la British Olympic Association (BOA) e la World Anti-Doping Agency (WADA). L’oggetto del contendere riguarda la durata delle squalifiche per positività ai test antidoping, che la WADA prevede con un tetto massimo di due anni, quando invece la BOA è l’unica federazione al mondo sostenitrice del “life ban”, la radiazione immediata e a vita dalle competizioni olimpiche. Da qui il ricorso dei britannici contro l’organismo internazionale che per ora, stanti le leggi esistenti, avrebbe diritto all’ultima parola anche su Londra 2012. Quello che forse lascia più interdetti noi continentali meridionali (furbetti per definizione), è il fatto che la fermezza della British Olympic Association riguarda esclusivamente due atleti britannici. Sono il ciclista David Millar (squalificato per uso di EPO dal 2004 al 2006) e lo sprinter Dwain Chambers (sospeso dal 2003 al 2005 per l’anabolizzante THG).

«Non c’è spazio nel team britannico per chi ha deliberatamente imbrogliato attraverso l’uso di droghe» è stata la dichiarazione del presidente della BOA, Colin Moynihan. Eppure sia Millar che Chambers, oltre ad aver passato gli ultimi anni come testimonial contro doping e sostanze stupefacenti, potrebbero giovare alla causa nazionale attraverso vittorie e medaglie – specialmente Chambers, uno dei migliori corridori della storia inglese, ancorché 33enne. Ma – stando alla Bbc – la discussione potrebbe protrarsi per più di un mese, lasciando il destino dei due atleti in dubbio fino all’inizio o quasi delle Olimpiadi. Il problema è che, se ammessi ai Giochi, i due dovrebbero ancora giocarsi la qualificazione agli stessi.

Ciò che lascia increduli è la fermezza della British Olympic Association nel non concedere una cristianissima e financo ovvia seconda chance ad atleti che, addirittura dieci anni fa, furono trovati positivi a un test antidoping. Suona invece come un anatema da predicatore-tv-via-cavo (o come un apocalittico delirio da Speaker’s Corner, per rimanere in tema inglese) un’altra dichiarazione del solito Moynihan a questo proposito: «Chi parla di riabilitazione anche per i peggiori casi di doping dovrebbe pensare che non ci sarà nessuna riabilitazione per quegli atleti puliti che non hanno mai indossato l’uniforme olimpica a causa di quei truffatori che hanno deliberatamente assunto sostanze». Semioticamente, va segnalato che “riabilitazione” è la traduzione da noi utilizzata per “redemption”. A onor di cronaca va anche segnalato che la carriera politica di Mohynian (ex canottiere che può vantare il titolo di Barone) servì da ministro dello sport con Margaret Thatcher, e fu l’ideatore della contestatissima “ID Card” per gli hooligans, subito ritirata dopo il disastro di Hillsborough.

Sarà forse per il nostro romantico ricordo di Maradona – odiatissimo in terra inglese – o per il garantismo un po’ “questa volta chiudiamo un occhio”, ma la fermezza della federazione britannica appare esagerata oltre che macchiettistica: e sfidare l’organismo internazionale nella lotta al doping invocando un ergastolo sportivo per chi ha già pagato e terminato di pagare anni fa non migliora il quadro, dal punto di vista organizzativo innanzi tutto. Ci sarebbe poi quello morale, certo da non tenere in secondo piano.

 

Photo: MIGUEL MEDINA/AFP/Getty Images