Attualità

Nathan Englander e l’arte delle spie

Conversazione con l'autore di Una cena al centro della terra, un libro che mescola il thriller politico con il realismo magico.

di Gabriele Di Fronzo

Nathan Englander è in Italia per presentare il suo ultimo romanzo, Una cena al centro della terra, pubblicato da Einaudi e tradotto da Silvia Pareschi. Ho avuto così l’occasione di fargli alcune domande, a proposito di questo e della sua opera fin qui, mentre era di passaggio al Circolo dei lettori a Torino.

ⓢ Qualche anno fa ha ammesso che quando è seduto alla scrivania in cerca dell’ispirazione, guarda quei video girati da spericolati in mountain bike con la telecamera sul casco, mentre si lanciano da una discesa ripidissima. Lei stesso ha praticato la mountain bike, «in modo scervellato e sempre più temerario». Almeno fino al giorno in cui è andato a schiantarsi, fracassandosi il casco. Scrivere un romanzo come Una cena al centro della terra, un’aggrovigliata spy story ambientata tra le maggiori capitali europee e il deserto israeliano del Negev, lesioni alla mandibola e punti di sutura a parte, deve essere assomigliato parecchio a buttarsi giù da altezze vertiginose a rotta di collo.

È una metafora che regge benissimo, e devo arrossire perché in effetti è vero: non sono un campione olimpionico, ma vado in mountain bike, e guardare le peripezie di quegli atleti mi serve per scrivere. Del resto, eseguire l’ineseguibile è ciò che ogni scrittore dovrebbe porsi. Io mi immagino sempre di scrivere il mio primo libro, tutte le volte. Questo romanzo ha una struttura terrificante, sì, una storia folle, tra conflitti ed echi di violenze. In più mescola il thriller politico, il realismo magico e la storia d’amore. Eppure il mio impegno era di riuscire a tenere a bada le fila, a conferire un ordine, così che il lettore non avesse mai dove fermarsi. Perché un romanzo innanzitutto è un sogno che non va mai spezzato, in nessun punto.

ⓢ Ha dichiarato di “amare follemente” tutti i film con teorie del complotto. Perché un assassinio, Il maratoneta e più di qualunque altro I tre giorni del Condor: rifletterebbero, a suo dire, «una sua nevrosi rispetto all’incertezza della vita, e rimanderebbero a qualche potere superiore che ci controlla». Cospirazioni internazionali, trappole e circostanze oscure movimentano il suo romanzo. Mancano soltanto il polonio 210 e il novichok, un gas nervino parecchio in voga al momento.

Sono vent’anni che scrivo e mi hanno domandato di tutto. Gli ebrei, la letteratura, l’America e chissà che altro. Adesso con Una cena al centro della terra è arrivata l’ora del mondo delle spie. Sono stato persino intervistato dal Museo dello Spionaggio a proposito dell’arte delle spie. Mi piace, ad esempio, come Steven Spielberg nei suoi film tratta questa tematica, diverte ed è drammatico. Improvvisamente sono stato paragonato a Lee Child e John le Carré. Tra tutte le storie di complotto, di spionaggio e controspionaggio lo spunto effettivo mi è stato dato dalla storia del prigioniero X che dall’Australia è entrato sotto copertura nelle file del Mossad, per poi tradire Israele e finire in prigione. Un aspetto che mi ha sempre molto affascinato: cosa ti porta a tradire il tuo paese? E soprattutto cosa succede se un tradimento è spinto dall’empatia? È questo il motore del mio romanzo. Un’altra storia di intelligence che mi ha ispirato è il caso straordinario di Mordechai Vanunu, spia israeliana che rivelò a Londra i segreti nucleari del suo paese. Lo hanno beccato e l’hanno messo in carcere, anche lui. Ma come l’hanno beccato? Per amore. Si era innamorato di un’agente donna. E fu lui a volerla corteggiare! Ha fatto lui la prima mossa, non lei!

ⓢ Nel racconto “Il ventisettesimo” che apre la sua raccolta d’esordio Per alleviare insopportabili impulsi uno scrittore inedito finisce, chissà come mai, nella lista degli scrittori sleali condannati a morte. Non può salvarsi, si tratta di un ordine firmato dallo stesso Stalin dalla sua dacia di Kuncevo. Il Prigioniero Z di quest’ultimo romanzo, invece, è in una cella spersa nel deserto con a disposizione solo gomme americane, libri, riviste e ha imparato a scrivere al buio. Il primo paga con la morte la sua ambizione letteraria; l’altro scrive per salvarsi la vita. Cosa c’è di loro in lei?

Un giorno di diversi anni fa ero sul palco e ho detto di essere timido. Immediatamente dal pubblico qualcuno è intervenuto per precisare che non sono affatto timido, tutt’altro anzi, ma riservato. Nei miei libri come in quelli di tutti ci sono aspetti biografici, solo che per via della mia riservatezza sono camuffati e ridotti. La storia di Pinchas Pelovic che finisce in galera insieme al fior fiore della letteratura yiddish senza aver mai pubblicato una riga l’ho scritta quando anche io non avevo ancora pubblicato niente, come lui. E mi domandavo: se fossi morto senza pubblicare nulla, avrei potuto lo stesso essere considerato uno scrittore? È il busillis da cui sono partito per quel racconto. La mia vita entra sempre, insieme ai temi cui tengo di più: le ingiustizie, gli innocenti puniti, gli spazi grigi tra quel che si reputa giusto e quel che si ritiene sbagliato. Per il romanzo Ministero dei casi speciali, ambientato in Argentina nel ’67, dovetti fare molte ricerche sul posto e impegnarmi in prima persona. Lo stesso Prigioniero Z è una versione di me più nevrotica: con questa nuova maschera ho indagato cosa capita se sei fedelissimo al tuo ideale al punto da tradire tutto il resto. E la mia domanda rimane sempre questa: come riuscire a provare empatia?

ⓢ Mi sembra che una delle scintille da cui sia scaturito questo romanzo sia “Le colline sorelle”, un racconto da Cosa parliamo quando parliamo di Anne Frank, ambientato a Gerusalemme tra il 1973 e il 2011. Due donne che abitano con le rispettive famiglie, una di fronte all’altra, su due colline vivono la Guerra del Kippur, l’intifada in Cisgiordania e gli insediamenti israeliani.

Quel racconto per me ha funzionato come un test di Rorschach: tutti coloro che lo leggevano avevano già i loro riferimenti politici, i loro contesti, e avevano maturato le loro convinzioni. Così, in base alle loro opinioni, i lettori in quella storia hanno visto tutto e il contrario di tutto. Tutti dicevano la loro e pretendevano che la loro teoria, la loro visione fosse calzante con la mia. Ora ho scelto il romanzo perché è il romanzo che deve metterci alla prova sui nostri valori.

ⓢ Kafka sognava spesso di trovarsi in una sala piena di gente e di leggere ad alta voce dal podio, senza alcuna interruzione, L’educazione sentimentale di Gustave Flaubert. Interamente. Lei quale autore o quale libro leggerebbe per ammutolire tutti?

Sicuramente Kafka, “the man of the question”, La peste di Camus, Jesus’ son di Denis Johnson, o uno qualsiasi dei romanzi di Marilynne Robinson. E con questa domanda ritorniamo alla mia prima risposta: sono convinto che il sogno, come il libro, non vada mai interrotto.

 

Immagine: Nathan Englander © MichaelLionstar