Attualità

Nanni Moretti non tornerà più

Cosa rimane del cinema di Moretti dopo Mia madre: una retrospettiva sulla carriera del regista.

di Edoardo Vitale

In The impulse to preserve, l’autobiografia di Robert Gardner, regista e esponente di rilievo dell’antropologia visuale – nonché fondatore del Film Study Center di Harvard – si legge di un curioso rito al quale assistette durante la sua permanenza in Nuova Guinea (che portò alla nascita del documentario Dead Birds del 1963). I suoi studi presso la popolazione dei Dani si focalizzarono da subito sulla centralità della morte, a volte celebrata con raffinata sacralità, altre volte vissuta con distacco a causa dello stato di conflitto costante nel quale vivono i villaggi appartenenti a questo gruppo etnico. Il rito in questione fa riferimento a uno dei momenti principali della vita di un maschio primogenito Dani: la morte della madre, che rappresenta una “morte sociale” per il figlio e il conseguente ritiro a una vita privata nella quale sobbarcarsi il dolore dell’intera famiglia, chiamata, al contrario, a colmare il vuoto lasciato nella gestione dell’economia domestica.

Sebbene il quartiere Monteverde e gli altipiani centrali della provincia di Papua distino parecchi chilometri, durante la visione di Mia madre ho avuto il timore costante che questo fosse l’ultimo film di Nanni Moretti, o almeno di questo Nanni Moretti. Come se il messaggio nascosto dietro alla rappresentazione del calvario e del dolore generato dalla perdita, fosse che d’ora in avanti le cose non sarebbero più state le stesse e che un numero sostanziale di cerchi concentrici si fossero chiusi, tutti, nei 106 minuti di durata del film.

Dopo la morte di Michele Apicella, quella di Giovanni?

La filmografia di Nanni Moretti si può suddividere all’ingrosso in due blocchi ben precisi, ciascuno composto da sei film. Due blocchi comunicanti sotto alcuni punti di vista ma separati di netto da un altro genere di morte, solo ed esclusivamente cinematografica in questo caso, che è quella del personaggio di Michele Apicella, la cui ultima apparizione risale a Palombella Rossa del 1989, sostituito nel successivo Caro Diario (1993) da quello che si potrebbe definire “Giovanni Moretti”, un personaggio più autentico, che – come per Mia madre – scosso da un altro trauma del tutto personale e altrettanto destabilizzante come è scoprire di avere un tumore, traccia una linea di demarcazione con il passato e si racconta con una intimità inevitabilmente diversa e meno smorzata dalla sagoma di un personaggio fittizio. In Mia madre il personaggio di Giovanni è già diventato qualcos’altro, rimane in campo ma ha iniziato a farsi da parte, con un ruolo diverso e marginale. Il vero Giovanni è incarnato da Margherita Buy ed è la prima volta in assoluto che Moretti non interpreta se stesso, che sia sotto le spoglie di Michele Apicella o di quel Giovanni che anche in Aprile e La stanza del figlio, sviscera la recondita gioia e poi il terrore folle dell’essere diventato padre. Ora c’è un Giovanni che non sta più dentro le cose ma le osserva e si osserva da una nuova prospettiva. Alla luce di questo, diventa più difficile credere fino in fondo alla tesi secondo cui sarebbe stato troppo doloroso interpretare se stesso in un film del genere, lo dimostra anche quanto dichiarato dallo stesso regista, che avrebbe voluto ambientare alcune scene nella casa della vera madre, se non gli fosse stato impedito dalla scenografa. Il personaggio Giovanni, quello che abbiamo conosciuto fino a oggi, sarebbe stato il protagonista di Mia madre, quel Giovanni che pare aver messo già un piede fuori dalla porta, mentre tutti sono distratti dai propri fantasmi e dal tormento della una morte.

I film nel film

Si parlava dei vasi comunicanti tra i due blocchi principali della filmografia di Nanni Moretti. Uno di questi è quello del film nel film, un tema che ricorre a più riprese, imbeccato in modi diversi ma con un comune denominatore dai toni indubbiamente positivi: la centralità del fare cinema, l’assoluta fiducia nel cinema come forma di espressione e mezzo di comunicazione. Una fiducia magari travagliata, è il caso della messa in scena dell’opera teatrale in Io sono un autarchico, o utopistica come il musical con protagonista un pasticcere trotskista in Aprile, oppure ambiziosa e sgangherata come è ambizioso e sgangherato Apicella in Sogni d’oro, che sta girando “La mamma di Freud”. Oggi invece il regista Margherita/Giovanni arranca, non è del tutto soddisfatta del film che sta girando, non gli riconosce un senso reale, è confusa e piena di dubbi, le domande dei giornalisti la scalfiscono nella misura in cui gli si assegnano delle responsabilità che non crede di dover avere. E se in Sogni d’oro era colpa del «pubblico di merda», adesso invece la colpa è del regista che è «uno stronzo al quale viene concesso tutto». Un altro cambio di angolazione inedito e inaspettato.

Felicità, fuga e rinuncia

Sbaglia chi sostiene che nei film di Moretti la felicità abbia un andamento lineare. La felicità è semplicemente sotto costante sorveglianza, filtrata di continuo da un aut aut kierkegaardiano che non lascia spazio a vie di mezzo, per questo è quasi inevitabile che la scelta propenda il più delle volte verso la rinuncia, pur di evitare sentimenti corrotti e impuri, perché «la felicità è una cosa seria e allora se c’è, deve essere assoluta» e allora ecco la fuga, in nome di qualcosa che idealmente è più perfetto. E anche qui si percepisce uno scarto, tra le convinzioni pure e assolute del «quando scelgo è per sempre» a costo della libertà, come accade in Bianca, e le convinzioni che celano un mare di incertezze del Giovanni che in Mia madre abbandona il suo lavoro di ingegnere perché «ho deciso e non cambio idea», con la stessa convinzione priva di compromessi, ma dettata da una stanchezza che non è niente e non lascia alcuna speranza di miglioramento, se non l’abbandono a una stasi da sopravvivenza: un ridimensionamento. Lo stesso ridimensionamento che subisce il latino che «non mi ricordo più a che serve»; e con questo, tutto il bagaglio culturale astratto e anche, più concretamente, i libri, accumulati da una persona durante la propria vita, che non si sa dove andranno a finire e quale senso abbiano o addirittura abbiano mai avuto. Persino il caposaldo della cultura non fa più parte delle certezze, vagliate da un severo giudizio retroattivo da parte di chi vede una donna un tempo forte e intellettualmente attiva, perdere colpi e abbandonarsi all’incapacità di non riuscire neppure a fare tre passi.

Quando il bambino era bambino (e altri cerchi che si chiudono)

Di recente ho visto un documentario commuvente che si intitola Il poeta che dimenticava le parole di Alan Berliner, il quale racconta l’ultimo periodo di vita alle prese con il morbo di Alzheimer del poeta e traduttore Edwin Honig. Il tema della memoria lega molti film di Nanni Moretti, che si tratti di semplici flashback o veri e propri traumi che diventano un’occasione per ripercorrere la propria esistenza. È il caso di Palombella rossa, dove si ripete di continuo la domanda «Ti ricordi? Ti ricordi? Ti ricordi? Ti ricordi?» una ricerca che si dirige verso il passato remoto dell’infanzia e quello dei giorni appena antecedenti allo svolgimento della trama. Anche in Mia madre si pronuncia di nuovo la domanda «ti ricordi?», mentre Giovanni e Margherita sono seduti su una panchina (che sembra la stessa di Caos Calmo), ma in questo caso si tratta di un sogno in cui il ricordo ricade nel futuro, è il ricordo della madre morta, sebbene questa sia ancora in vita: la memoria di quello che accadrà. Un inquietante ribaltamento del tempo che, tornando al documentario di Berliner, mi ha ricordato una scena in cui Honig, ormai astenico e afasico sul letto di morte, riguardo alla sua percezione del tempo dice: «Un tempo ero grande e stupendo, ora sono solo un piccolo ragazzo. Mi conosco già, ma potrò conoscermi di nuovo». Una rottura degli ingranaggi del tempo che porta a immaginare un Nanni Moretti che vive come un bambino la morte della madre, dimenticando che in passato, da “grande e stupendo”, aveva già affrontato e sconfitto il Complesso di Edipo (raccontato in Sogni d’oro) con scene anche spiazzanti in cui addirittura picchia la madre, ed è come se ci fossero stati dei piccoli spazi vuoti da dover riempire con delle debolezze di un figlio bambino che ancora non c’erano state. E poi quello che si conosce già, ma che si può conoscere di nuovo: «mia madre» è una frase che viene pronunciata già in Palombella Rossa, in una delle scene più belle tra tutti i suoi film, quella dei «pomeriggi di maggio e delle merendine di quando ero bambino» che non torneranno più e del «ho trentacinque anni, non torneranno più» (tributo aperto all’altra scena memorabile dell «ho trentacinque anni e non ho fatto niente» che c’è in Partitura incompiuta per pianola meccanica di Nikita Michalkov). L’ultimo Michele Apicella grida «mamma, mia madre, non tornerà più!», quel «mamma, mia madre» che è lo stesso che c’è all’inizio de Il cielo sopra Berlino: «Ha conservato tutto: buoni sconto, cartoline, biglietti della metro. Non ha mai buttato niente, non ne era capace. Mamma, mia madre. Non lo è mai stata».

Non a caso in Mia madre, durante un sogno di Margherita, si vede una lunga fila fuori al caro Capranichetta dove sarà proiettato il film di Wenders. E non è un caso che Margherita trovi in casa della madre una sfilza di volantini dei ristoranti etnici più improbabili, conservati senza alcun motivo, se non per quella stessa incapacità di buttare niente del Cielo sopra Berlino, di Quando il bambino era bambino, se ne andava a braccia appese, voleva che il ruscello fosse un fiume, il fiume un torrente, e questa pozza, il mare che è la stessa impertinenza di chi non vuole accettare la realtà e la rifiuta e fa dire alla madre «sto pensando a domani», prima di tagliare corto con i titoli di coda come se non reggesse neppure lo sguardo su questa menzogna, perché forse è vero che un domani non c’è e se mai ci sarà, non sarà più lo stesso.