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Muccino, la famiglia e i suoi disastri

Esce al cinema A casa tutti bene: intervista al più italiano tra i registi italiani.

di Mattia Carzaniga

VENICE, ITALY - SEPTEMBER 01: Gabriele Muccino attends the premiere of 'Summertime' during the 73rd Venice Film Festival at Sala Giardino on September 1, 2016 in Venice, Italy. (Photo by Pascal Le Segretain/Getty Images)

Mercoledì esce A casa tutti bene, il nuovo film di Gabriele Muccino. L’hype, come si dice oggi, è altissimo. Per la storia, la più semplice che potrebbero raccontarci: una famiglia si riunisce su un’isola del Mediterraneo per festeggiare le nozze d’oro dei patriarchi, una mareggiata costringe tutti a restare più del previsto, scoppia l’inevitabile bordello. Per gli attori, caso rarissimo di star-system all’italiana in trionfale scampagnata: in ordine alfabetico Stefano Accorsi, Carolina Crescentini, Pierfrancesco Favino, Claudia Gerini, Massimo Ghini, Sabrina Impacciatore, Ivano Marescotti, Giulia Michelini, Sandra Milo, Giampaolo Morelli, Stefania Sandrelli, Valeria Solarino, Gianmarco Tognazzi. Perché c’è dentro il respiro del cinema italiano sulla famiglia e i suoi disastri, quel sottogenere che va da Ettore Scola a Mario Monicelli a, oggi, Paolo Virzì. Perché è “un film di Muccino” come non ne fa da anni.

… è il film che, da Muccino, tutti si aspettano. Perché la gente ti identifica esattamente con tutto questo: famiglia, amori, corna, casini?

Le persone devono aver percepito che il film parla di loro e delle loro vite, incredibilmente anche più di quanto avrei sperato. Racconta le nostre diversità, i nostri conflitti, le ambizioni, i sogni, le identità, gli smarrimenti. Riproduce le dinamiche esistenziali e comportamentali che conosciamo bene, perché le abbiamo vissute o le stiamo vivendo in prima persona, oppure perché le abbiamo viste negli altri. È un film semplice ma molto complesso, è facile, popolare, ma pure stratificato, ci sono tutte le età, le classi sociali, gli arricchiti, i ritrovati, i sopravvissuti.

C’è anche il nodo cruciale del nostro tempo: il rapporto tra i sessi. Ne escono uomini e donne ugualmente infantili, fragili, incasinati, bugiardi, insicuri.

Sono tutti alla ricerca di una convergenza, di un dialogo che non sia conflittuale. Alcuni pensano di conoscere la soluzione, che però non c’è. L’unica cosa che ci fa sentire vivi è il movimento, e infatti sono tutti in movimento costante.

Un amico, sotto una foto del film che ho postato su Facebook, ha commentato “Corrono?”, memore di Stefano Accorsi e Martina Stella, quei fotogrammi impressi nella memoria di almeno un paio di generazioni.

La corsa sta ad indicare l’impeto dello spirito. È correre verso le cose che ci stanno sfuggendo di mano, verso quelle che abbiamo paura di non ritrovare, verso un passato che temiamo sia ormai remoto. C’è una frenesia dei corpi, tutto danza.

Non c’è traccia di politica. L’impressione è che l’unico interesse, oggi, sia il privato.

La politica si è annacquata, quello che importa sono, sempre di più, due cose: apparire e possedere. I personaggi sono divisi tra chi possiede qualcosa e chi non la possiede, e da come le due categorie appaiono agli occhi degli altri. È ciò che li definisce e insieme li allontana in modo anche violento, cinico. I comportamenti umani hanno ragioni primordiali.

Lo è anche la società italiana attuale?

La sfera pubblica è confusa, annebbiata da valori qualunquisti, non ci sono più il bianco e il nero ma sfumature intangibili, promesse che non sono mai seguite dai fatti. In questo naufragio delle ideologie, non riusciamo più a consegnare la nostra fiducia nelle mani di qualcun altro. Ci resta solo il nostro percorso, che è fatto della compagnia di chi ci sta vicino, e quella compagnia è la combinazione più complessa e anche dolorosa da mettere insieme e far durare nel tempo.

Anche tu in questo film vedi Ettore Scola?

Ho una grande dipendenza da Scola. Quei film sono dentro di me, li guardo e li riguardo fin da quando ero bambino, sono stati la mia formazione prima ancora dell’idea di diventare un regista. E Scola, con la scrittura di Age e Scarpelli, ha proprio quel tipo di sguardo sulla realtà, quella benevolenza nei confronti dei personaggi e delle loro fragilità: non li giudica mai, li ama nelle loro debolezze. La capacità di raccontare la malinconia, la solitudine e le miserie umane col sorriso, senza incupirci, è ciò che rende la commedia italiana degli anni sessanta e settanta unica al mondo, non esistono altri prototipi simili.

Altri maestri?

Elio Petri, per il linguaggio cinematografico così elegante, dinamico. E la poetica di Cesare Zavattini e Vittorio De Sica. I film di De Sica hanno settant’anni ma sono girati come girerei io il mio prossimo film, la posa della macchina da presa è modernissima.

Tornando a Scola, ricordo che si parlò – correggimi se sbaglio – di un tuo remake di C’eravamo tanto amati, con Nicole Kidman nel ruolo di Stefania Sandrelli.

È successo moltissimi anni fa, era prima del mio primo film negli Stati Uniti, subito dopo L’ultimo bacio. Sviluppammo una sceneggiatura e poi non se ne fece niente, per i motivi strutturali congeniti al sistema produttivo americano. Dietro c’era la Miramax.

Mi tocca pronunciare quelle due parole: Harvey Weinstein.

Quello che è successo a Weinstein non è accaduto oggi. Succedeva anche quando l’ho conosciuto, solo che non si conoscevano i contorni della situazione, né la gravità. Oggi c’è la possibilità di creare, a partire da questa vicenda, una nuova definizione del ruolo della donna all’interno della società degli uomini, perché di questo stiamo parlando, non di cinema. Discutiamo di atteggiamenti di abuso di potere che esistono in qualunque ambito lavorativo e conglomerato sociale. Il cinema, con le sue luci e le sue starlette, urla per essere ripreso dal gossip. Ci piace commentare le dichiarazioni di Uma Thurman e Quentin Tarantino, ma quello che è successo a loro non è diverso dai moltissimi casi che continueranno a sussistere in tanti altri contesti prigionieri della natura dell’uomo e delle sue debolezze, delle sue pochezze.

Dall’America sei fuggito?

Ci sono rimasto per dodici anni, se è stata una fuga è stata molto lenta e meditata. A un certo punto ho semplicemente capito che il posto dove volevo vivere non poteva più essere quello. Il senso di solitudine che provoca quella società è fortissimo. Ho sentito il bisogno di nutrirmi di vita vera, non di simulazione. Tornare in Italia è importante per alimentare il mio punto di vista sulle cose e raccontarlo.

Come reagisce un regista all’idea secondo cui – banalizzo – “la Tv è il nuovo cinema”?

Il mutamento è innegabile, l’ho visto accadere quando ancora stavo in America. La serialità di qualità sta prendendo il posto del cinema drammatico realizzato all’interno degli Studios, quello che la Columbia ha fatto con me nei film con Will Smith oggi lo farebbe Netflix o Amazon. Il mondo del cinema si sta decentrando verso una nuova realtà, che è irreversibile: è come il passaggio dal muto al sonoro. L’unico modo che abbiamo di raccontare storie è adattarci al contenitore nel quale queste stesse storie saranno collocate.

Ho letto che A casa tutti bene potrebbe avere un seguito, forse proprio in Tv.

Mi piacerebbe non abbandonare questi personaggi, e soprattutto questi attori in questi personaggi. Vorrei che facessero ancora un pezzo di strada.

L’ultima cosa. Quando dicono “È un film di Muccino: urlano tutti” ti offendi?

È un po’ semplicistico. Soffro la fretta e la pigrizia con cui vengono etichettate le cose che non si sanno o non si vogliono guardare.

Dammi allora tu una definizione di “film di Muccino”.

Cerco di fare film che raccontino la vita. E la vita per me è anche questo. È dramma, conflitto, lacrime, amore, passione, rinascita, rilancio, malinconia, solitudine. E anche urla, sì.

 

Nelle foto: Gabriele Muccino; il cast di “A casa tutti bene” (Getty Images)