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Il culto di Heath Ledger

Moriva il 22 gennaio 2008 l'attore venerato per la sua interpretazione del Joker. Cosa è rimasto di lui a dieci anni di distanza?

di Luca D'Ammando

Heath Ledger era ossessionato da Nick Drake. Aveva anche girato un video con il brano del cantautore britannico “Black eyed dog” in sottofondo. Un video che finiva con lo stesso Ledger che affogava in una vasca da bagno. Nick Drake aveva 26 anni quando è morto, Ledger 28. Da qui sarebbe semplice il passo verso un racconto dell’artista maledetto, strappato prematuramente alla vita da droghe ed eccessi. Ma la storia di Heath Ledger, trovato cadavere nella sua casa di New York il 22 gennaio di dieci anni fa, non è questa. «A volte la vita lascia delle cicatrici, ma io non vedo molte brutte cicatrici nella vita di Heath», ha spiegato con delicatezza Terry Gilliam, che ha diretto per due volte l’attore australiano, prima nei Fratelli Grimm e l’incantevole strega e poi in Parnassus. L’uomo che voleva ingannare il diavolo, l’ultima pellicola interpretata da Ledger, che non terminò mai le riprese. «Non c’era nulla di nascosto in Heath, nessun lato oscuro nevrotico. Per questo non sarà mai un nuovo James Dean, come l’hanno dipinto dopo la sua morte». Parole, quelle di Gilliam, che smentiscono le voci secondo cui Ledger sarebbe stato trascinato verso la morte da un esaurimento nato nell’interpretazione del ruolo di Joker. Una tesi che anche il padre, Kim Ledger ha contribuito ad alimentare quando, in Too young to die, documentario del 2015 del regista tedesco Day Freyer, afferma: «Era tipico di Heath, immergersi anima e corpo nei personaggi da interpretare. Questa volta, però, credo abbia portato il processo a un altro livello». L’impazzimento per un ruolo è un cliché che funziona sempre. «Sul set era talmente motivato, frenetico, che veniva voglia di dirgli: “Calmati ragazzo, sii te stesso, stai andando bene”», ha ricordato Mel Gibson, che ha lavorato con lui nel 2000 in The patriot, facendo intendere che fosse un perfezionista, niente di più.

«Non dovrei parlare di questa cosa con te. Questa cosa che stiamo facendo non dovrebbe succedere», dice Ben Harper, grande amico dell’attore, all’inizio del documentario di Derik Murray e Adrian Buitenhuis I am Heath Ledger, presentato la scorsa primavera al Tribeca Film Felstival. Il film, che ha il merito di andare al di là dell’agiografia e delle facce commosse di parenti e amici, vorrebbe restituirci il ritratto di un artista atipico, che ha deciso di vivere fuori dallo star system. Racconta ad esempio che era un brillante giocatore di scacchi, fieramente devoto al suo ruolo di padre, amante della musica (regalò a Ben Harper un pianoforte a coda in cambio di una ninna nanna scritta per sua figlia Matilda). Ma alla fine quello che ne esce fuori è l’immagine di un ragazzo molto ingenuo e fragile, che girava perennemente con una videocamera o una macchina fotografica, come a voler esibire al mondo la sua ansia di creatività. E i molti spezzoni di filmati inediti realizzati dallo stesso Ledger e presenti nel documentario sono la testimonianza delle sue aspirazioni da regista («Per lui recitare era solo un modo per arrivare a fare il regista», dice a un certo punto l’amico Trevor Dicarlo).

TIFF Portrait Session for "Brokeback Mountain"

Forse è vero quello che si è scritto e detto, che Ledger sentisse che il suo destino era scritto, che non è facile uscire dal tunnel della depressione quando a darti sicurezza non bastano amore, successo, lusinghe, denaro e premi. Ma è un copione che non aggiunge molto al ritratto preconfezionato amato dai media. L’imperfezione a volte è un’arte, l’addio a sorpresa una dolorosa attitudine. Ed è indubbio che la morte abbia beatificato Ledger. E la fine apparentemente misteriosa – in realtà solo un mix accidentalmente letale di farmaci e antidepressivi regolarmente prescritti – ha aiutato a creare il mito. Basta ricordare che le prime due biografie uscite subito dopo la sua morte (Hollywood’s Dark Star di Brian J. Robb e His Beautiful Life and Mysterious Death di John McShane) erano un’esaltazione del presunto lato scuro dell’attore.

Ma oggi la domanda è: che cosa rimane di lui dieci anni dopo? A conti fatti, di Heath Ledger restano diciannove film, un Oscar post mortem e l’immagine stereotipata del bello e dannato. Rimane l’interpretazione di Ennis Del Mar in Brokeback Mountain, che valse a Ledger la prima nomination agli Oscar. Un viso d’angelo imbronciato, superbo di bravura nella scena in cui ricambia con un amplesso brutale il tenero approccio di Jack Twist, alias Jake Gyllenhaal. «Non ho mica baciato il culo di un mulo, era la bocca di un essere umano», rispondeva con fierezza, alla Marlon Brando, a chi gli chiedeva cosa avesse provato a fare lingua in bocca con un altro uomo. E se è vero, come cantava Guccini che «gli eroi son tutti giovani e belli» e anche vero che Ledger è diventato un’icona per la sua generazione con l’interpretazione di un personaggio che bello non era. Faccia color gesso, ghigno deformante che lo fa somigliare a L’uomo che ride di Victor Hugo: quando dici Heath Ledger tutti pensano al suo Joker che ripete «Why so serious?».

Non poteva saperlo, ma quel ruolo generò una sorta di venerazione (leggenda vuole che per prepararsi si sia isolato in una stanza d’albergo per un mese, sviluppando a poco a poco la voce, la risata e i tratti psicopatici della personalità di Joker). Da qui una schiera di attori hanno preso ispirazione, o hanno provato a farlo. Un esempio italiano: per spiegare come si fosse preparato al ruolo dello zingaro di Lo chiamavano Jeeg Robot, Luca Marinelli ha raccontato: «Heath Ledger nel Cavaliere oscuro l’ho guardato trecento volte come si guarda un quadro». Il culto di Heath Ledger, questo alla fine è quello che rimane.