Attualità

Mollo la chitarra e scrivo un libro

di Davide Coppo

L’eclettismo nelle arti è da sempre un’aspirazione per molti, che del mondo delle arti fanno parte. La ricerca di linguaggi diversi, siano essi cinematografici, letterari o musicali, il tentativo di comunicare forse le stesse idee ma attraverso vari livelli di pensiero e a vari livelli interlocutori, di questo si tratta. Si potrebbero citare Dalì e Buñuel come anche la più recente esperienza di Matthew Barney (splendidamente descritta nel numero 2 di Studio, in un articolo firmato Brandon Stosuy) o, per scendere un po’ più in basso le migliaia di musicisti che si sono cimentati nella cinematografia. Ma ci sono due arti che si mescolano, da sempre, meglio delle altre: musica e letteratura. Da sempre la critica o la cultura popolare fa dei distinguo tra i cantanti/cantautori “normali”, ossia quelli che fanno onestamente il loro mestiere, e i “poeti”, ossia quelli che il loro mestiere lo fanno così bene che sfondano i confini dell’arte della musica per sfociare in quelli della letteratura. Ricordiamo il caso di Bob Dylan, ogni anno al centro di un dibattito riguardante la sua legittima o meno candidatura al premio Nobel per la letteraura. Inutile definire stupida, limitante e inutile una discussione del genere, fondata sull’elitaria e un po’ razzista convinzione che la musica (intesa come musica rock e/o pop) sia su un gradino culturale inferiore all’accademica, parnassiana, così nobile poesia, e che quindi definire un cantautore “poeta” sia un riconoscimento che lo abilita ufficialmente all’entrata nel mondo della cultura con la C maiuscola. Il 24 maggio di quest’anno la Bristol University indisse anche una conferenza, a cui parteciparono fior fior di professori del Regno Unito, dal titolo “The Seven Ages of Dylan”, per discutere «whether the musician should be considered a poet».

Dicevamo, musica e letteratura. L’ultimo, in ordine cronologico, a essersi cimentato nella nobile arte della scrittura su fogli rilegati e non accompagnati da strumentazione alcuna è Jarvis Cocker, frontman dei neo-riuniti Pulp, uno dei gruppi che – pur non essendosi mai ufficialmente infilato in una corrente cultural/musicale dell’epoca, tipo britpop – ha segnato la storia del pop anglosassone degli anni ’90. Cocker, più che scrivere un libro, sembra stia furbescamente sfruttando il riflusso della celebrità ritrovata grazie alla serie di concerti che i Pulp stanno tenendo in giro per l’Europa in questa estate di festival (Primavera Sound, Glastonbury, Wireless, Reading): la Faber, una delle più importanti case editrici inglesi, specialmente per quanto riguarda la poesia, ha annunciato che pubblicherà l’opera prima di Jarvis intitolata Mother, Brother, Lover (il titolo, spiega l’autore, deriva dal fatto di essersi accorto di utilizzare le tre parole «un imbarazzante numero di volte» nei testi delle sue canzoni). La mezza fregatura sta nel fatto che il paperback altro non sarà che una semplice raccolta di testi selezionati dal cantante tra i suoi migliori. Una raccolta di lyrics spacciate come pamphlet poetico, insomma, e magari una copertina accattivante.

Un progetto letterario invece atteso da molti, e probabilmente con giustificato entusiasmo anche letterario, è l’autobiografia di Stephen Patrick Morrissey, più semplicemente Morrissey, ex leader degli Smiths nonché detentore del titolo di leader più carismatico degli ultimi trent’anni di musica inglese (almeno). Moz scrisse (e in minor parte scrive ancora, anche se bisogna ammettere che oggi ne azzecca decisamente meno che in passato) alcuni tra i testi più belli della storia della musica, e rilasciò (e rilascia ancora, decisamente) le interviste più piccanti e controverse che puoi trovare nella storia del pop. Anche recentemente ricordiamo le sue polemiche con David Cameron, il primo ministro che aveva dichiarato il suo amore per gli Smiths e venne insultato non solo dall’ex frontman, ma anche dall’ex odiato chitarrista Johnny Marr. Ebbene Morrissey, da sempre amante di Oscar Wilde al limite del patetismo, ha recentemente dichiarato di aver completato la sua autobiografia, duecentomila parole per un totale di circa 660 pagine, e di volerla pubblicare nel 2012. Ma ovviamente non si è limitato a questo: ha molto modestamente dichiarato che la sua storia dovrebbe, di diritto, uscire per i tipi della Penguin Classics. E la risposta non è nemmeno stata negativa: «There is a natural fit between Morrissey’s sensibility, his artistic achievements and Penguin Classics. A book could be published as a classic because it is a classic in the making» ha dichiarato la solita famosa e anonima spokeswoman all’Independent.

Di esempi di musicisti, cantanti etcetera che si sono cimentati nella nobile arte della carta stampata ce ne sono a centinaia, da Patti Smith a Leonard Cohen (finora quello che ha ottenuto i migliori risultati), ma ultimamente ci hanno provato, su tutti: la stessa Smith, che dichiarò a inizio anno di essere al lavoro su una detective story à la Sherlock Holmes, o Kele Okereke dei Bloc Party, che a gennaio fece sapere al NME di essere in procinto di trasferirsi a New York per terminare il suo progetto letterario, una storia a sfondo erotico che prende spunto dalle sue esperienze con le groupies in cinque anni di tour con la band.
Chi invece ce l’ha già fatta, e con tutt’altra classe, è Jay-Z. Decoded è uscito negli Stati Uniti a fine 2010 ed è parte autobiografia, parte raccolta di testi con relativa spiegazione dei versi da parte dell’artista, parte interpretazione e opinioni su vari fatti della vita. E, cosa non di poca importanza, è un libro curato fin nel più piccolo particolare estetico. La copertina di Andy Warhol e molti altri dettagli (curati da Jay-Z himself) lo rendono un libro-oggetto perfetto per essere guardato e non solo letto.