Attualità

Milano è ancora la capitale gay?

Dall'elezione di Sala alla "gay street" di via Lecco, non è solo una questione legata all'ambiente della moda, forse è successo qualcosa.

di Mattia Carzaniga

Sabato scorso, all’ultimo Pride milanese, serpeggiava qua e là uno stupidissimo sentimento di sorpresa: «Ma guarda che carino che è stato a passare, vedi che brava persona questo Beppe». La partecipazione del neosindaco Sala era annunciatissima, è solo che tra i duecentomila scesi in strada non tutti sembravano convinti dei patti da campagna elettorale, come con lo zio che sì, lo so che ha sempre votato a sinistra, ma da qui a farsi vedere in piazza coi froci ce ne vuole. Il milanese, di base, non si fida. E invece Beppe, salutato dai più come il nuovo Che nazionale dopo la domenica che ha consegnato Roma e Torino ai grillini, ha retto lo striscione lgbt, ha tenuto lo speech rituale soffiandoci dentro il calore miracoloso delle due settimane pre-ballottaggio, ha fronteggiato gli oppositori davanti al palco (qualche sparuta Collettiva femminista, riportano le cronache) con l’occhiataccia “state scherzando, vero?” che quei presidi rossi ma fermi sulle loro posizioni erano soliti rivolgere a chi voleva a tutti i costi occupare. (Quando poi si vuole occupare a quarant’anni, l’occhiataccia diventa più cattiva).

Queste le sue parole, intervallate da pause lunghissime: «Raccolgo un’amministrazione positiva, la città di Milano è riuscita a rimanere all’avanguardia, ha indirizzato le politiche del Paese. La leadership non è solamente nello sviluppo economico, nella crescita, nel lavoro, ma anche nei diritti, nella sensibilità, nella morale». Mister Expo, già Mister Telecom, già Mister gabinetto di Letizia Moratti qui vista come un’Anita Bryant, impugna la bandiera arcobaleno senza dare l’impressione di saltare su un qualsivoglia carro (letteralmente). «Mi farò paladino di ogni giusta battaglia contro ogni forma di discriminazione». Applausi.

Accanto a lui stava vigile il predecessore Pisapia, Giuliano il Buono, Giuliano ancora acclamatissimo dalle folle omosex, Giuliano che per primo ha spezzato le tavole della legge e introdotto sottobanco in città il registro delle unioni civili. Giuliano che lo guardava teneramente, come Napolitano guarda Mattarella, ora smàzzati tu quello che ho cominciato io e però lasciami parlare dopo di te, queste folle mi vogliono ancora ascoltare, sono io la voce della coscienza omosessuale cittadina, sempre meno chiassosa anzi volutamente normalizzata, ancora gaia ma visibilmente istituzionale.

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La domanda dunque è: oltre che capitale (della) morale dell’Italia moderna, nelle intenzioni del suo ultimo amministratore addirittura una futura Londra su quell’asse moda-finanza sconvolto da Brexit, Milano è anche (è ancora) la capitale gay del Paese? Da ieri sera la comunità – che brutta parola – si dà appuntamento sul sagrato del Teatro Strehler, quadrato veneratissimo dove passano i fanatici di Bob Wilson e Toni Servillo, e a ogni nuovo principio d’estate gli spettatori (e i curiosi e quelli che vogliono anche solo rimorchiare) si ritrovano al Festival MIX, happening di cinema gay arrivato alla trentesima edizione, con platee coltivatissime ed eventi collaterali moltiplicati. La rilevanza – o anche solo la percezione – presso il pubblico eterosessuale, che beve gli stessi spritz sullo stesso spiazzo ma preferibilmente nel settembre indie-generalista del Milano Film Festival, ancora traballa. È un prodotto della stessa sindrome dell’etero che dice, distratto, “ah, sabato c’è il Pride? Me l’ero dimenticato”. Qualcuno sostiene che a Milano ancora manca il cosiddetto alleato eterosessuale, e il direttore della kermesse Giampaolo Marzi pare rinforzare la tesi: «“Not about us, without us”. Queste parole del protagonista di Kiki, tra i documentari che abbiamo selezionato quest’anno, sono il miglior auspicio per il futuro del MIX. La missione esploratrice e pedagogica si rinnova, si riconferma attuale. Cambia il quadro ma le battaglie no, nemmeno a Milano».

E però il vento sta cambiando, come direbbero altrove. Sento Luca Paladini, candidato alle ultime elezioni nella lista Sinistra X Milano e iniziatore dei Sentinelli, gruppo sulle barricate della laicità nato come sfottò agli adinolfismi delle stagioni scorse: «“Tornata da una vostra manifestazione, ho sentito che era arrivato il momento di fare coming out”. Una ragazza me l’ha raccontata così. Quando le ho chiesto cosa le aveva dato la forza mi ha risposto: “Il clima che avevo intorno”. Ciascuno dentro il clima ci mette quello che vuole. Forse mai come in questi anni gli elementi capaci di renderlo generalmente favorevole sono cresciuti: per prima, una politica cittadina finalmente attenta, con sindaci vecchi e nuovi che partecipano insieme al Pride. E poi il turismo che pare averci scoperto oltre i confini standard della città alla moda, e il nostro gruppo di matti che da due anni riempie le piazze. Insieme a quello che ovviamente già c’era».

La topografia resta la stessa ma cambiano i riferimenti, fino all’altro ieri il quartier generale degli incontri era il Mono, adesso si whatsappa fuori da Leccomilano

Il Castro di Milano, si sa, è quel reticolo di strade a ridosso di Porta Venezia. Il cuore è via Lecco, lì il weekend scorso c’era la Pride Square coi baracchini di birra e i gazebo promozionali della palestra di Madonna, poco distante il palco dove si sono passati il testimone Giuliano e Beppe. La topografia resta la stessa ma cambiano i riferimenti, fino all’altro ieri il quartier generale degli incontri era il Mono, adesso si whatsappa fuori da Leccomilano, si vede pure dai nomi dei due bar che prima si militava sul serio, oggi vince il cazzeggio. Mi dice Stefano Libertini Protopapa, deejay e animatore di quel pezzo di città che si espande sempre più oltre il suo perimetro: «Da qualche anno Porta Venezia si è posta spontaneamente come faro sui temi dell’uguaglianza, dell’integrazione e della solidarietà tra cittadini, senza distinzioni. Si parla tanto di rinascite “dal basso”, ecco qui è accaduto davvero, è stata una piccola rivoluzione di strada, una riappropriazione degli spazi. Via Lecco è definita “gay street” ma siamo ormai lontani da questa etichetta: prima ancora della connotazione queer viene la collaborazione tra abitanti, esercizi commerciali, persone di tutti gli orientamenti e le etnie che qui sembrano trovare accoglienza». Con la stazione a un passo, questo è anche il quartiere degli afro ormai gentrificati. Palazzo Marino adesso non è lontano, Stefano Parisi parlava di smantellare il registro delle unioni civili in caso di vittoria. «Milano è sempre più l’avamposto della libertà in Italia, una libertà che però non va data per scontata. La vittoria di Sala, così sul filo, è una nuova boccata d’ossigeno, un motivo in più per credere che qui una certa voglia di progresso esiste davvero. È pure l’anno della Cirinnà, anche per questo il Pride è stato partecipato oltre misura. Dalla strada si sente la voce delle minoranze, tutte le minoranze. Finalmente qualcuno le ascolta».

La domanda, dunque: Milano è ancora la capitale gay d’Italia? L’elezione di Beppe Sala è stata salutata da un doppio arcobaleno, esattamente com’era accaduto la sera della vittoria arancione di Pisapia cinque anni fa. I grillini, che sui diritti civili non si sbilanciano (vengono prima le buche nei viali, le auto blu da consegnare allo sfasciacarrozze, il casting online degli assessori), avrebbero già scritto milioni di post sull’incredibile coincidenza (o forse, per loro quelle erano solo scie chimiche).