Attualità

Milano da bere #3

Per "Tempo di Libri" abbiamo chiesto a 6 autori di scrivere un testo sul loro rapporto con Milano e il bere: questa storia è ambientata nel bar milanese per eccellenza, il Basso.

di Alcide Pierantozzi

Per festeggiare Tempo di Libri, la nuova fiera del libro di Milano che si terrà da mercoledì 19 aprile a domenica 23, Studio ha commissionato a sei autori altrettanti testi che raccontassero il loro rapporto con la città e il bere, un aspetto che coinvolge la nostra vita sociale e le nostre abitudini, e uno dei modi migliori, a nostro avviso, per descrivere le atmosfere di Milano. La collaborazione tra la rivista e la fiera culminerà giovedì 20 aprile al Bar Basso, dove dalle 19 in poi si terrà un cocktail party in cui i racconti pubblicati sul sito saranno presentati in un’edizione speciale su carta insieme all’ultimo numero di Studio.

 

Il Bar Basso è Milano: la città che si culla beata nel più febbricitante canto di sé stessa, quell’osmosi perfetta tra le energie di chi è appena tornato da Parigi o Manhattan, dove si è trasferito da anni perché Milano l’è solo un buchin ed è ancora rimasta la città dei Negroni Sbagliati e del mito di Vallanzaska, e la smisurata devozione verso i Negroni Sbagliati e il mito di Vallanzaska.

Il Bar Basso non a caso vanta la scoperta di questa variante del cocktail e l’assidua frequentazione da parte del più raffinato dei criminali da giovane; tant’è vero che il film con Kim Rossi Stuart l’hanno girato qui. Il Bar Basso è Milano perché secondo me vanta l’invenzione dei milanesi. Così come la baia di Gascoyne in Australia è frequentata dallo squalo manzo, la palma dal punteruolo rosso e il cielo sopra Berlino da Bruno Ganz e Otto Sander, il Bar Basso è oggi frequentato dal mio amico stilista Filippo Pecora, dal mio amico curatore Federico Vavassori, dal mio amico artista Giulio Frigo, dai miei amici delinquenti Shtilian Pounev e Luca De Leva, dalla mia amica scrittrice Isabella Santacroce e molto più spesso dal mio nemico più irriducibile, che sarei io quando entro dalla veterana porta a vetri del locale in via Plinio, a dieci passi a piedi da casa mia, mi siedo a leggere dall’iPhone, ordino i primi due Margarita (per gli Sbagliati è doveroso aspettare gli altri), e a un certo punto mollo la frizione di quella robusta Range Rover che è la mia mente di scrittore impegnato – parola del mio neurologo – scordandomi di appartenere al genere umano. Della città tedesca, a un certo punto della serata, più che l’angelo mi verrà in mente il muro, contro il quale la lussuosa automobile d’autore, la stessa su cui viene scarrozzata la regina per le campagne gallesi, andrà bestialmente a scaraventarsi.

Che io ricordi, non ho mai trascorso una sera al Basso da lucido, ma alle 23.00 di giovedì 24 maggio 2014 dovevo farmi forza, risorgere dalle ceneri di un pomeriggio passato a fumare svuotini di hashish davanti a un articolo di Camillo Langone che mi prospettava una punizione esemplare da parte della Madonna perché sono frocio, e farmi trovare da Isabella Santacroce lucido e inappuntabile come Lilli Gruber. Isabella infatti non beve, tranne una birra ogni tanto e tranne quando da Riccione viene al Basso.

Dalla sua inappuntabile svampitezza regale, vedete, Isabella non ha bisogno di ubriacarsi di nulla. Datele però un sorso di qualche cosa e finirà col costringere un losco sessantenne impresario di crociere extra-lusso, in già equivoci rapporti con il capitan Schettino, a leccare ginocchioni uno dei suoi guanti di latex, poi implorerà me di sculacciarlo (sculacciarlo?) con il lungo seghetto tagliaghiaccio estorto al barista, e finirà col costringerlo a racimolare a mani nude dal suolo bisunto di fine giornata le scaglie di legno e i frammenti di vetro di un tavolino art decò scagliato in aria perché «io sono la regina e voi i miei sudditi, raccogliete i pezzi della mia anima infranta».Ovvio che sebbene la scusa per buttarmi in un bailamme del genere quella sera ce l’avevo eccome, perché gli anatemi scagliatimi da Langone erano come vesponi testaferro imprigionati nell’abitacolo della Range Rover, con una  ragazza così devi sempre, e dico sempre, tenere la situazione sotto controllo.

Quando l’impresario di crociere e Isabella sono arrivati in taxi sotto casa mia, ad esempio, lei ha sporto la testa sormontata da un gigantesco colbacco alla russa fuori dalla macchina e ha appoggiato il nerostivale dal tacco 25 sulla strada chiedendomi se avesse il rossetto sbafato, «Non posso mettermi la maschera che ho comprato oggi a Brera, Birba, è troppo bella», e io: «Appunto», e lei: «No, Birba, appunto perché è troppo bella, non posso metterla».

Dopodiché, elevandosi all’altezza della mitologia che la precede, si guarda attorno, riconosce la sfolgorante insegna del bar sopra la tenda rossa ed esclama: «Chiamate un altro taxi, io non la attraverso la strada a piedi, queste sono scarpe da letto». Il crocerista, volto ad alleviare il fardello di quella sfacchinata, si offre di portarla in braccio fino a Maurizio, il proprietario del bar che intanto ci guarda dall’altra parte della strada con due gigantesche uova di struzzo al posto degli occhi, smanioso come una biscia e del tutto ignaro di quanto stiamo per combinare. La scrittrice che vuole parlare del Basso è appena arrivata! È lei! Scriverà di noi nel suo nuovo libro! «Voglio un taxi», insiste Isabella. Il crocerista fa per prenderla in braccio, le ripete che sarà il suo comandante, è convinto che stia scherzando. Io so che non sta scherzando.

Manco a dirlo, una signora a bordo di uno di quei patetici taxi a furgoncino accosta sconcertata forse dall’irruenza con cui Isabella si allontana dal capitano, con un brusco strattone, l’immediato recupero del colbacco da terra e la successiva torsione del pollice da brava autostoppista, e quando Isabella le chiede il prezzo del biglietto per arrivare dall’altra parte della strada, vedo la faccia della taxista assumere l’espressione che qualsiasi taxista al mondo assumerebbe davanti a Isabella Santacroce, e quella di Maurizio sprofondare nell’angoscia più nera. Penserà che ce ne stiamo andando prima ancora di arrivare, poveretto.

Scortata invece dai suoi sudditi, come continua a chiamarci, la nostra regina viene condotta in taxi fino all’ingresso del locale, la portiera della macchina la apre Maurizio in persona con l’eleganza da gran signore che lo contraddistingue, lei scende e senza degnarlo di un cenno varca la soglia facendo tremare le vetrate di tutto il locale solo deambulando sulle proprie scarpe. Per “da letto” che siano, non augurerei un simile trattamento neppure alla pista per motocross di Cortona, figuriamoci a quel delizioso marmo veronese.

Maurizio ci ha riservato l’ultimo tavolo a destra, il più ambito e dove volendo si può anche fumare, ci porta tre Sbagliati ma quella che Isabella gli dice, e soprattutto il modo in cui gliela dice, soffiando sul labbro di sopra e poi scostandosi la frangia, non è una frase qualunque ma una drammatizzazione emblematica di questo bar, e perché no, di questa intera città, e perché no, del mondo intero: «Non posso bere, io sto lavorando». Al suo nuovo libro, è chiaro. Ambienterà davvero una parte qui dentro e perciò non ha tempo da perdere, deve studiare con attenzione l’arredamento color senape, esaminare le mattonelle del bagno, i lampadari di cristallo, stabilire al tatto quale sia la consistenza della faccia di Maurizio che improvvisamente adora, «è un cucciolone, è dolcissimo, buffissimo, togliti gli occhiali, fatti scompigliare i capelli». E sì, deve degustare i cocktail della lista dal numero 1 al 23, ma come una sommelier, mica come una a cui piace trincare. Solo assaggiarli, ma proprio tutti tutti, servìti nei relativi bicchieri e con il contorno di olive verdi e le noccioline d’ordinanza, poi, a finirseli, ci penserà Capitan Findus.

La tolleranza del personale in livrea scade subito, quella di Maurizio nemmeno quando andiamo a saldare il conto e Isabella, prodigandosi in una sequela di complimenti sulla persona del gestore (Maurizio, appunto), allude a come sarebbe gentile da parte sua offrirci i cocktail dal ventitreesimo al primo, a scalare.

Ora, il fatto che nell’ultimo romanzo di Isabella non si faccia neppure fuggevolmente menzione del Bar Basso non deve far pensare a un’abile mossa per non pagare, anche perché Isabella problemi di questo tipo non se ne fa, di solito le regine non pagano e basta, l’esborso sarebbe toccato comunque al comandante.

«Ma scusa, perché le pagine ambientate al Basso non le hai più messe?», le chiedo al telefono mesi dopo, quando ormai il romanzo è in libreria.

«Erano troppo belle, Birba. Ti ricordi quel vecchiaccio come ha scagliato il tavolo quando gli ho detto di farlo?»

«Appunto, erano belle, adatte al tuo libro.»

«E quell’affare per tagliare il ghiaccio?»

«Me lo ricordo, me lo ricordo. Ma dimmi, dài, perché non le hai messe?»

«Erano troppo belle, te lo ripeto. Mica potevo sprecarle per un libro. Erano pagine mitiche, lo sai. E le cose mitiche, quelle non si scrivono. Non puoi bloccarle su una pagina, non puoi dire che sono realmente accadute. Significherebbe ucciderle e io non sono un’assassina.»

 

Fotografie di Delfino Sisto Legnani.