Attualità

Milano da bere #2

Per "Tempo di Libri" abbiamo chiesto a 6 autori di scrivere un testo sul loro rapporto con Milano e il bere: questa è la storia vera di una au pair in coma etilico.

di Arnaldo Greco

Per festeggiare Tempo di Libri, la nuova fiera del libro di Milano che si terrà da mercoledì 19 aprile a domenica 23, Studio ha commissionato a sei autori altrettanti testi che raccontassero il loro rapporto con la città e il bere, un aspetto che coinvolge la nostra vita sociale e le nostre abitudini, e uno dei modi migliori, a nostro avviso, per descrivere le atmosfere di Milano. La collaborazione tra la rivista e la fiera culminerà giovedì 20 aprile al Bar Basso, dove dalle 19 in poi si terrà un cocktail party in cui i racconti pubblicati sul sito saranno presentati in un’edizione speciale su carta insieme all’ultimo numero di Studio.

 

Se considero anche Mette, la danese che è scappata via dopo tre giorni, Grete è stata la quarta au-pair che abbiamo avuto. A quel punto eravamo già smaliziati, non ci facevamo più abbindolare dai “trustworthy” o “reliable” dei curriculum, dal loro seminario in primo soccorso o dalle foto con cuginetti e nipotini, ciò che ci aveva convinto di Grete era la frase «non ho hobby». Era sufficiente a farci desiderare la sua compagnia. Sarebbe stata diversa dalle altre.

Adesso, che siamo a sette au-pair, so che non sono mai le famiglie a scegliere le ragazze ma viceversa: sono loro a farti il colloquio e a studiarti. So anche, però, che esiste un percorso ineludibile per qualsiasi ragazza, qualunque cosa abbia studiato, che arrivi dal Sudafrica, dalla Norvegia o dagli Usa, di qualsiasi religione o convinzione sia: il primo locale in cui andrà è l’Old Fashion. Non so perché riesca a calamitarle tutte, non ho idea di come sia dentro, l’au-pair americana che abbiamo scelto perché aveva la foto profilo col busto di Dante e si era laureata con una tesi sulla Divina Commedia l’ha definito «il paradiso». La vertigine di immaginare un’esperta di Dante che mette cinque stelle su Tripadvisor a un locale titolando la recensione “un paradiso” mi basterà sempre.

Grete sembrava non solo avere pochi hobby, ma anche pochi desideri. Non aveva mai fretta di uscire con qualcuno, la sera restava sempre a casa. Mi toglieva anche il mio alibi preferito: non posso venire perché non ho chi guarda i bambini. Così provavamo a invogliarla con maggiore insistenza a fare qualcosa. La prima volta in cui ci chiese di uscire la prese molto alla lontana. «Dov’è la stazione di servizio più vicina?». Cominciammo a fare domande per comprendere le sue reali necessità, finché venne fuori che nel paesino da cui arrivava, profondo nord della Norvegia, la stazione di servizio era l’unico luogo aperto di sera in cui comprare e consumare qualcosa.

Finalmente cominciò a frequentare l’au-pair della famiglia di alcuni amici. E, un giovedì sera, ci lasciò a casa a guardare serie tv in santa pace per andare all’Old Fashion. La mattina seguente mia moglie che per le vicende delle nostre au-pair ha sempre vissuto una sorta di proiezione, era entusiasta di raccogliere il racconto della serata. Laddove io avrei indagato solamente sui risvolti igienico-sanitari, lei si interessava al lato sentimentale ed erotico delle vicende. Loro non si negano quasi mai, trattandola più come una sorella maggiore che come un “host mum” cioè il modo in cui il manifesto dell’auperismo internazionale suggerirebbe di trattare le madri dei bambini accuditi. La porta della sua cameretta, tuttavia, restava chiusa. Oltre le undici, le dodici, l’una. Verso le due fu la porta di casa, inaspettatamente, ad aprirsi.

Grete ci saluta a malapena e corre in camera. Mia moglie si alza con l’aria di un prete che chi si appresta a raccogliere una confessione che non vorrebbe ascoltare. Ma forse è l’espressione che mostra a me. In realtà bussa ed entra. Ne esce solo dopo venti minuti con un foglio di carta in mano.

Grete era uscita con la sua nuova amica au pair. Assieme erano state in un bar in zona Porta Venezia – niente Old Fashion?!? No, giusto per non arrivare troppo presto che era “lame” – poi erano andate all’Old Fashion, quindi erano tornate in Porta Venezia ma in un altro bar. Lì avevano preso un taxi. L’amica s’era fatta accompagnare a casa, Grete s’era addormentata sul taxi. Arrivati all’indirizzo di casa nostra il tassinaro aveva provato a svegliarla senza successo e a quel punto, spaventato, non sapendo a quale citofono suonare l’aveva accompagnata in ospedale.

In ospedale, avevano constatato con tutti gli esami di sorta che non era capitato nulla di strano se non che aveva esagerato con l’alcol, avevano lasciato che dormisse lì e, al risveglio, l’avevano dimessa. Il tutto, però, era accaduto in italiano, lingua che lei non conosceva affatto, dunque aveva vissuto un paio d’ore di straniamento totale. Risveglio in una stanza che non conosceva, visite mediche che non aveva compreso, responsi a cui aveva annuito senza convinzione. Solo arrivata a casa, mia moglie le aveva tradotto il referto medico di cui lei aveva compreso la parola Old Fashion e poco altro. A quel punto s’era rasserenata. Qualcuno ne avrebbe tirato fuori uno status indignato sul fatto che in un ospedale milanese nessuno parlasse inglese, ma noi non ci pensammo, chissà l’avrà fatto lei in norvegese. Grete se la prese molto con i bartender milanesi. Ci disse che esagerano con l’alcol e che in Norvegia non è così. Che in Norvegia i cocktail sono più leggeri. Poi, quando uscì la settimana successiva e si sentì male di nuovo pur senza finire in ospedale, ci disse che era colpa del caldo. Che in Norvegia beveva molto di più ma che fa più freddo e per questo lo gestiva meglio.

Da quel momento giurò che avrebbe smesso di bere cocktail e cominciò a bere solo vino rosso. Scoprimmo allora che una delle ragioni per cui era stata lei a scegliere noi e non viceversa era perché il padre l’aveva lasciata assieme alla madre e alle sorelle per trasferirsi in Italia, anni prima. Che aveva adesso un’azienda che si occupava di export verso la Norvegia di vini toscani e lei era venuta in Italia per ricucire il rapporto e chissà magari imparare la lingua e lavorare per lui. (Spoiler: non ha funzionato neanche un terzo del piano).

Pur senza cocktail, ha continuato a frequentare l’Old Fashion e anche qualche mese fa, quando è passata da Milano per un viaggio è venuta a salutarci nel pomeriggio, ma ha trascorso lì l’unica sera rimasta in città. Oltre noi ha voluto rivedere anche l’unico ragazzo che aveva frequentato con qualche assiduità nei mesi trascorsi a Milano: l’infermiere dell’ospedale in cui aveva dormito quella notte che, non in barba al giuramento di Ippocrate ma a qualche regolamento aziendale di sicuro, le aveva lasciato il suo numero di telefono nella giacca, mentre dormiva. Per parlare di cosa era successo, perché si era immaginata una ragazza chissà quanto disinibita, perché quella persona senza pregresso (un indirizzo, un numero a cui rivolgersi, un telefonino a cui appigliarsi) l’aveva colpito, o per andare anche lui all’Old Fashion con lei.

 

Foto: Delfino Sisto Legnani