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La caduta di Maurizio Schillaci

È il cugino di Totò, ma non ha mai vissuto le notti magiche. Anzi, Maurizio era a un passo dal boom, dopo la Serie C con Zeman alla Lazio, ma un infortunio non capito, droga e troppi soldi bruciati lo portarono nell'abisso. Ora vive a Palermo, senza un tetto.

di Fulvio Paglialunga

È una storia di treni, alcuni metaforici alcuni no. Di treni presi al momento giusto, persi senza sapere perché, e pure di treni che fanno da tetto, nelle notti di ridondante solitudine, quando chi era un campione e avrebbe dovuto vivere come tale accumula solo rabbia e stenti. Maurizio è lo Schillaci che non ce l’ha fatta, nonostante fosse il più grande d’età, anche il più talentuoso, scommettono che sarebbe stato il più forte. Totò, invece, è suo cugino, quello famoso per i gol e gli occhi sgranati, per Italianovanta e le notti magiche. Il cognome è il suono tragico della sconfitta: Schillaci, Maurizio, dorme in un punto oscuro di Palermo che chiamano il cimitero dei treni, dove ci sono i mezzi abbandonati e sono alloggi di fortuna di chi non ha niente. O, come in questo caso, non ha più niente.

Maurizio Schillaci poteva avere tutto, invece. Era trequartista con tanto genio, pure precoce, di certo coraggioso: la prima volta che ha messo la maglia del Palermo, ad esempio, aveva diciassette anni ed era già tempo di esordire. Con una carriera davanti, l’amore calcistico di Zdenek Zeman che a ventuno anni lo prende a Licata, fiuta il campione e valorizza le qualità, lo rende fortissimo e gli fa da trampolino umano. Fino alla Lazio, quella eroica del meno nove allenata da Fascetti in B e salvatasi agli spareggi con Taranto e Campobasso, fino al quadriennale da 500 milioni l’anno. Nel 1986. A ventiquattro anni.

Messa così, è la storia di una stella che adesso dovrebbe avere trionfi da raccontare, e invece narra la sua vita camminando quasi a vuoto per le strade di Palermo, vive di collette e ogni notte che arriva, anche se il giaciglio resta un treno – vuoto da anni – pensa di aver superato un giorno in più. E di averne un altro davanti, dopo aver sognato di averne tanti e belli, dopo aver rischiato di non averne più. Intanto questi sono sempre uguali, sempre affannosi. Maurizio non nega nessun minuto della ripetitività del poco più di nulla con cui ha a che fare: «Sono in mezzo a una strada. Non per modo di dire, ma nel vero senza della parola. Non ho nulla: mangio quando la gente mi aiuta a mangiare, dormo in un treno o quando mi va bene ospite da amici. Cerco un lavoro, lo cerco da tanto. Non lo trovo».

Carriera e vita si accartocciano quasi allo stesso momento: l’una, almeno, trascina l’altra. Il punto di partenza e anche di non ritorno è un infortunio, mai compreso, dunque curato male, infine cruciale: alla Lazio, un problema al tendine che nessuno vede o quantomeno capisce, scambiandolo per stiramento, la fama di malato immaginario: «Pensavano fingessi, non avessi voglia di sacrificarmi. Invece soffrivo. Volevo stare bene, anzi: alla prima partita già avevo fatto gol al Cagliari, sentivo che la mia carriera da lì poteva decollare e invece lì si stava fermando. Perché poi mi mandano a Messina, lì capiscono che il mio infortunio è grave e inizia il calvario, l’operazione a Barcellona, due anni per guarire. Per me finisce tutto in quel momento, infatti mi lascio andare». La carriera si spegne in corsa: Maurizio prova a tornare sé con la Juve Stabia ma non ci crede più, ha finito davvero. La fine sono i problemi personali, il divorzio dalla prima moglie («Ho tre divorzi alle spalle, quasi quattro»), la cocaina, poi l’eroina, il carcere (due volte), gli investimenti andati male, i soldi bruciati, e pure i sogni. Dal lusso, dall’Olimpico, dalle 38 auto («Mi piacciono tanto, le cambiavo spesso. Non sempre nuove, a volte anche usate») al treno. Sempre lì si torna: «È la mia suite. Ci rido su, ma in realtà la mia è quasi rassegnazione. Vorrei un lavoro, nient’altro. Ma nessuno mi aiuta».

Maurizio Schillaci ha cinquantadue anni e il volto scavato, i capelli lunghi spesso legati. Cammina e recrimina. Cammina e spera. Adesso al bivio non prenderebbe più la strada sbagliata anche se non è stata tutta colpa sua, ma ormai teme di essere in ritardo per riappropriarsi di sé, per rivedere le figlie, per potersi sentire vivo. È già tanto che possa raccontarsi: «Sono andato cinque volte in overdose, anche: prendo con un segno del destino il fatto che non sia morto». Ogni risposta finisce con una risata amara: non era questo il progetto scritto mentalmente a ventiquattro anni, ma anche prima, quando già il suo talento era chiaro, e il suo cammino da predestinato sembrava in progressione. Quando la sua richiesta di aiuto è diventata più forte, Totò, lo Schillaci che invece con la fama ha avuto rapporti molto ravvicinati, si è fatto avanti per aiutarlo e Maurizio si è scansato, rifiutando il sostegno estemporaneo del congiunto riapparso: «Non toccate questo tasto, per favore: lui sa da cinque anni che sono per strada, perché si è ricordato così tardi e solo quando la storia è diventata pubblica?». Con Totò aveva lavorato, per un breve periodo. Nella sua scuola calcio, ma guadagnava trecentomila lire e ne spendeva altrettante per andare e tornare dal campo e, in più i genitori storcevano il muso, perché Maurizio aveva abbandonato la droga ma la gente che ci tiene ad apparire impeccabile non conosce redenzione e, dunque, o l’allenatore ex tossicodipendente o il bambino.

Si è spinto a raccontare emozioni Zdenek Zeman, che dalle giovanili al Licata, al Foggia (poi però la Lazio lo soffiò) al Messina ha visto praticamente tutte le tappe del’ex ragazzo palermitano: ha scritto sulla Gazzetta un invito per l’altro Schillaci, quello a lui caro. «Certe carriere non sempre ti regalano quanto avresti meritato. Vale anche per la vita, purtroppo. Che non inizia e finisce solo in un campo di calcio. Lì Maurizio la sua partita la giocava veloce e leggera, con fantasia e colpi di genio, col cuore e con la testa. E non finiva mai in fuorigioco. Così mentre me lo rivedo su quella fascia, quello che gli auguro oggi è di riuscire in un’altra ripartenza, una di quelle in cui era bravissimo e nessuno riusciva a stargli dietro. Non è mai troppo tardi», parole firmate dal boemo che Maurizio ha stretto a sé come un dono inatteso.

Zeman e poco altro è il legame rimasto con il calcio, con il mondo che ha tradito Maurizio, abbandonandolo: «Non ho quasi mai luce. Nel treno ovviamente no, qualche volta a casa di amici, ma non sono molto attratto dalle partite: il calcio mi fa rabbia, al massimo leggo qualcosa dai giornali, del Palermo perché sono tifoso e del Cagliari perché c’è Zeman, che mi ha voluto davvero bene e che per me resta il miglior allenatore visto in Italia». È tutto un nostalgico richiamo al tempo passato, quello che poteva essere: «Ero un calciatore molto tecnico, altruista: saltavo l’avversario e mettevo il pallone in mezzo. Lo facevo molto bene, avrei voluto avere la possibilità di farlo più a lungo».

La sua fortuna era nei piedi, e uno gli ha dato problemi sino a rovinargli la carriera. La sua fortuna erano anche i soldi, tanti e subito, finiti non appena sono iniziati i guai. La sua vita è una scommessa continua e adesso anche un docu-film, realizzato da Davide Vigore e Domenico Rizzo. Si chiama Fuorigioco, girerà nei festival italiani e internazionali a breve, e Davide Vigore lo racconta come un incrocio casuale di idee e pratica: «Volevamo raccontare cosa accade dopo il successo, la solitudine e l’abbandono dei campioni quando non lo sono più. Poi abbiamo visto le vicende di Maurizio e abbiamo capito che era di quello che volevamo parlare: lui è una persona bellissima perché nonostante tutto conserva la propria dignità. Si è lasciato andare, ora deve riprendere consapevolezza. Noi speriamo che far conoscere la sua storia aiuti lui stesso a capire che la vita non è finita e qualcuno a spingersi per dargli una nuova possibilità».

Maurizio dice con il sorriso di «vivere con altri venti barboni», racconta senza filtri il suo campare di collette, maledice quell’infortunio perché «altrimenti non starei qui a raccontare la mia storia di fallimenti. Sarei ricchissimo, non avrei problemi». Ora vuole solo rimettersi in piedi. Anzi, no: «Io sono in piedi.  E sto bene. Ho buttato tutto via, la droga è il passato. Ho solo bisogno di un lavoro, sto facendo di tutto per trovarlo. Spero serva anche il documentario, spero serva tutto. Se qualcuno mi dà la possibilità, la mia vita da zero torna a valere dieci». E dieci è pure il numero dei campioni.