Attualità

L’antropologia barocca di Matteo Garrone

Il regista di Gomorra e Tale of Tales, che sa ispirarsi alla cronaca o a favole seicentesche, è un creativo piuttosto severo.

di Arianna Giorgia Bonazzi

"Il Racconto Dei Racconti" Photocall - The 68th Annual Cannes Film Festival Da bambino, voleva diventare tennista. Ogni volta che partecipava a un torneo di ragazzini, incasellava gli avversari in complicate tabelle che tenevano conto dei loro punti deboli e forti sul campo, ma anche delle loro storie familiari e dei loro problemi coi genitori, e dunque delle loro eventuali falle psicologiche nelle varie fasi del gioco. Da adulto, sul set, come da bambino coi compagni di gioco, costruisce tabelloni con tasche trasparenti dove inserisce le foto delle scene già girate, per avere un’idea pittorica, e insieme “tattica”, dell’effetto complessivo del film. Si è detto di lui che fa un cinema antropologico (proviene dal mondo del documentario, si è sempre ispirato alla cronaca, preferisce girare con attori non professionisti, lavora da anni con gli stessi sceneggiatori). E la contaminazione con l’oggetto di studio, rischio tipico appunto dell’antropologo, gli ha portato accuse di corruzione mafiosa, negate fermamente dal produttore Procacci: il pentito Oreste Spagnuolo ha dichiarato che Garrone avrebbe pagato un pizzo di 20 mila euro per poter girare nei luoghi della camorra. Lui conferma di avere incontrato il boss del clan Bidognetti allora agli arresti domiciliari, ma non ci trova niente di male: si trattava di ricerca sul campo. Anche quando aveva pensato di girare un film su Fabrizio Corona, aveva passato, con lo stesso spirito indagatore, alcuni giorni nella casa di Lele Mora in Costa Smeralda. Non stupirà quindi il suo modo di fare casting: per Reality sceglie come protagonista un ergastolano senza esperienze attoriali, per Gomorra pesca le comparse tra i ragazzi di strada di Scampia e, lasciandosi un po’ prendere la mano dal metodo, sposa anche una domatrice di circo che lo aiutava a scegliere le facce più “camorriste” nel casting. Ci fa una figlia, e poi la porta da Scampia al red carpet, dove con un effetto molto straniante e garroniano al 100 per cento, i tatuaggi tribali di lei fanno capolino sotto ai vestiti da sera. Qualche giornaletto antipatico e qualche sito velenoso l’ha definita «la Cenerentola di Scampia».

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Gomorra, 2008

Cenerentola proprio come la Gatta Cenerentola di Gian Battista Basile, l’autore del Lo Cunto de Li Cunti da cui è stato tratto il suo ultimo film. È un caso? No, forse c’è un filo. Basile potrebbe essere un amico intimo di Garrone, un invitato al suo matrimonio con la ragazza tatuata di Sant’Antimo, un fedele sceneggiatore che gli sta dietro dagli anni dei primi cortometraggi. Se la produzione e il casting internazionali del suo ultimo Tale of Tales potevano far ipotizzare una brusca sterzata rispetto agli inizi da documentarista, l’interesse antropologico di Matteo Garrone ha finito per prevalere anche in una storia lastricata di tentazioni fantastiche. Anzi, in tutti questi anni di carriera, sembra non aver fatto altro che prepararsi all’incontro col favolista seicentesco napoletano Basile. A Garrone è sempre piaciuto raccontare storie un po’ così, del genere “nano omosessuale con il particolare hobby della tassidermia, finito ammazzato dal suo innamorato e dalla fidanzata gelosa di lui”. Quattro secoli prima, Giambattista Basile, sceglieva una serie di vecchie sciancate o col gozzo che, come tante orrende Sheherazade, raccontassero cinquanta grottesche novelle al fine di far ammazzare un’altra donna e sottrarle il marito. In Primo amore, Garrone ci offre la sgradevole visione di un uomo che affama la sua donna per l’insano desiderio di vederla cadaverica. Nel Cunto de li Cunti, Basile, ben prima dei fratelli Grimm, raccontava il deperimento e la segregazione di Gatta Cenerentola, per mano di suo padre e della sua matrigna, e la scarnificazione di un’anziana donna, che si fa spellare viva da un barbiere, per il desiderio di cancellarsi le rughe e piacere al giovane re.

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Reality, 2012

Ancora: Garrone ci racconta la storia di un pescivendolo napoletano impazzito per il desiderio di entrare nella casa del Grande Fratello e, prima di lui, Basile descrive dettagliatamente pulsioni similmente oscene, fatte di smarrimento di sé e di perdita di contatto col reale: c’è il re annoiato che nutre una pulce fino a farla diventare grossa come un cane, e due vecchie che si leccano le dita rugose nella speranza di farle ringiovanire e succhiare da un uomo attraverso un pertugio. Per dare dignità e perfino fascino a così bassi moti dell’animo, c’è bisogno, per contrappunto, di una lingua letteraria e insieme triviale (il napoletano secentesco che a lungo Basile fu accusato, impropriamente, di avere “inventato”). Oppure di un ex-pittore che, nell’illustrare il catalogo delle abiezioni umane, citi all’occorrenza il Caravaggio, il Pollaiuolo e Piero della Francesca (e si avvalga dei volti non canonici di Franco Pistoni, Alba Rohrwacher, Guillaume Delaunay). L’idea diffusa che Garrone sia approdato al “fantasy” deriva sicuramente dalla presenza nel suo ultimo film di un drago marino, ma anche dall’abitudine pigra di associare il folklore alla mitologia nordica. Mettici il cast internazionale e passa il concetto fuorviante che Garrone si sia messo a fare Peter Jackson. Non è così. Personalmente, da brava abitante di Winterfell (leggi: donna nordica che piange leggendo Il cardillo addolorato della Ortese o guardando Passione di Turturro), dove alcuni hanno visto un raffinato Trono di Spade nostrano, io ho trovato l’esotismo del gusto barocco – la minuscola carrozza trainata dalla pulce, il vello liscio e ambrato dell’insetto cresciuto, la giovane figlia che compone canzoni per il padre alla cetra; l’influenza greca e araba – il labirinto, il funambolismo, i gemelli identici di donne diverse, e la calocagathia: chi è bello è buono. Il matrimonio di Reality (ma tutta l’estetica del matrimonio terrone era stata preannunciata nel mediometraggio del 1998 Oreste Pipolo, fotografo di matrimoni) aveva già dentro, sotto forma di damigelle kitsch, tutte le “pernacchiette” che nel Cunto de li Cunti sono le disgraziate figlie femmine avute in sorte dalle famiglie povere. E la colonna sonora di Gomorra – «Bambola, sogno ancora ad occhi aperti tu sei magica, principessa dei miei sogni sei una favola…» – non conteneva già gli sdolcinati, esagerati inni all’amore del Pentamerone di Basile? «Dove, dove ti nascondi, gioiello, lusso, cosina bella del mondo? Esci, esci sole […], scopri queste belle grazie, mostra queste lucernette della bottega d’Amore, […] lasciami vedere lo strumento da dove esce questa bella voce! Fai che veda la campanella in cui si forma il tintinnio!» Ma anche (del dito infilato nella serratura e baciato dal re) «quello non fu un dito […] ma uno stecco appuntito che gli sbucò il cuore, non fu uno stecco ma un bastone che gli fece rintronare la testa […] fu uno zolfanello acceso per l’esca delle sue voglie, fu una miccia che prese fuoco per il colpo dei sui desideri! Ma che dico stecco bastone zolfanello e miccia? Fu una spina sotto la coda dei suoi pensieri, anzi, fu una cura di fichi cacatorii, che gli fece evacuare il peto dell’affetto amoroso con una scarica di sospiri». Se Garrone si allontana, non nei contenuti, ma nei toni, dal maestro che lo ha ispirato, è solo perché non predilige il registro dell’ironia. L’unico tradimento della versione originale, l’unica concessione allo spirito del tempo (in un contesto che per il resto elude qualsiasi discorso sul presente) riguarda proprio le pernacchiette, le figure femminili, in questo caso sì, vittime di nordica contaminazione con le tostissime bad-ass di Game of Thrones, o le principesse disneyane ribelli che non si vogliono sposare e basta.

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Il racconto dei racconti, 2015

Porziella del racconto La pulce si chiama Viola come tante bambine di oggi, ed è lei stessa (mica i sette fratelli virili, come nella fiaba originale) a uccidere l’orco che l’ha vinta in sposa in una gara di bravura, e quindi a liberarsi con le sue forze dal vincolo del matrimonio combinato, esattamente come Merida di Brave, che vince il suo nubilato in un torneo di tiro con l’arco. Ne La cerva fatata versione Garrone, non è il re a volere un erede, come nel libro, ma è la donna a voler diventare madre, e il marito a morire per procurarle l’ingrediente che le permetterà di rimanere incinta. Non ha troppa importanza: ogni fiaba di Basile si chiama passatempo, come i lupini che al sud si sgranocchiano per strada, e qualche volta è meglio rinunciare a fare un discorso e accontentarsi di star facendo un quadro. Alla fine del Racconto dei racconti, tutti i personaggi si ritrovano a una festa regale, dentro a una luce dorata, e sotto il filo invisibile di un funambolo. Sembra quasi un happy-ending, ma la ragazza ringiovanita per magia è costretta a scappare, perché sente che si sta ritrasformando in vecchia. Garrone non è tipo da lieto fine. D’altra parte, non si tratta neanche dell’amaro finale da conte de fées di Perrault, dove la morale di Barbablù non è che il marito serial killer è un pessimo soggetto, ma che la curiosità femminile è fonte di piaceri fuggevoli e di ben più durevoli castighi. Siamo invece nell’ambito del fatalismo meridionale come forma zen di accettazione del destino. Siamo anche nel territorio del beffardo napoletano alla Totò. Con parole così – sagge, contemplative, prive di giudizio morale – finiscono i passatempi di Basile: «Dio aiuta i pazzi e i bambini, alla barca storta il porto dritto, quando il malanno vuol venire entra dalle fessure della porta, e perfino con uno schettiniano nave guidata da buon pilota difficilmente sbatte sugli scogli». Mi interessa, soprattutto, la percezione di napoletanità che irradia da questo artista romanissimo senza origini partenopee. La mia teoria è che questo “mood” non riguardi strettamente Oreste Pipolo, Gomorra e Reality. Ovvero, che trovarsi nelle Vele dell’architetto Franz Di Salvo a Scampia, o nella periferia casertana dell’Imbalsamatore, sia utile ma non indispensabile per arrivare al cuore dell’interesse umano e pittorico di Garrone. Ma che questa (chiamiamola) napoletanità sia piuttosto una tonalità emotiva che si può respirare anche nella provincia veneta di Vitaliano Trevisan in Primo amore, tra i giovani amici albanesi che scandagliano la periferia di Roma in motorino in Ospiti, o nell’appartamento degli ex-teatranti falliti, nella Roma del pre-giubileo (Estate romana). A un certo punto, nel documentario su Oreste Pipolo, il cui protagonista, morto di recente, era lo storico fotografo delle spose napoletane in grande stile (con fondali di mare mosso, comparse in costumi settecenteschi in piazza Plebiscito, e citazioni del Cristo Velato attraverso impacchettamenti della sposa nei suoi strati di velo), compare un bambino che fuma, che fa il facchino, ed è vestito da marinaretto. La sua sfacciataggine mi ha ricordato i ragazzini con cui sono cresciuta in un quartiere degradato del nord-est, che oggi sono salumieri e pizzaioli con le svastiche tatuate.

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Primo amore, 2004

Con questo voglio dire che ogni periferia, ogni provincia, anche quella cremasca, ha uno squallore che confina con lo squallore criminale della periferia più estrema che Garrone è arrivato a raccontare: quella, appunto, di Gomorra. Da un luogo all’altro dell’Italia che Garrone sceglie di raccontare, scorre un filo che rende tutto assolutamente consequenziale, e intonato col resto. L’effetto è dato da un misto di fedeltà al documento (i primi lungometraggi erano tutti documentari, L’imbalsamatore e Primo amore ispirati a casi di cronaca nera, Reality all’inizio doveva essere la storia di Fabrizio Corona) e di equilibrio della composizione visiva, forse ereditato, perché è sempre bello dirlo, dalla madre fotografa. Se prendiamo per buona l’ipotesi che esista un filone “napoletano” nel cinema di Garrone (e che esso vada oltre i film ambientati in Campania), daremo per scontato anche che Garrone si sia dovuto confrontare più volte col registro del pacchiano, o per dirla con più garbo, del barocco. E per spiegare l’uso che Garrone fa del barocco, è interessante parlare della confusione che si è generata più volte tra lui e Paolo Sorrentino. Era una scena della terza stagione di Boris, ma si è ripetuta anche nella realtà della tivù italiana (il ministro Bondi ad Annozero): che facessero i complimenti a Sorrentino per Gomorra di Garrone. Ora, salvo fare lo stesso mestiere, abitare curiosamente nello stesso palazzo di piazza Vittorio a Roma, ed essere coetanei, una confusione del genere implica necessariamente non avere mai visto un film di uno dei due. I due registi, infatti, compiono un percorso inverso, nella percezione del pubblico: Garrone è un romano spesso scambiato per napoletano, Sorrentino un napoletano percepito-romano. Il ritratto garroniano di Roma (in Terra di Mezzo, Ospiti o Estate romana), città ricorrente nell’opera di tutti e due gli artisti, non è in nessuna porzione sovrapponibile a quello del collega Sorrentino: laddove Sorrentino racconta tristezze di signore liftate, Garrone ritrae la giornata di una prostituta nigeriana; dove Sorrentino ti schiaffa la monaca decrepita o il cardinale buongustaio, Garrone va di baristi albanesi immigrati o scenografi napoletani indolenti. Il pacchiano di Garrone, per venire al punto, è un pacchiano intra-diegetico, immesso nel registro estetico per raccontare un mondo pacchiano, e non extra-diegetico, come in Sorrentino, cioè utilizzato per gonfiare un mondo normale.

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Ospiti, 1998

Quello di Garrone è un barocco di pittore, oltre che di figlio e nipote di teatranti, che, nella scena del re che cala nel lago con lo scafandro per uccidere il drago, cita Meliès, maestro di effetti speciali, e lo omaggia con la scelta di costruire i mostri fisicamente anziché in digitale. C’è una scena, tra virgolette pacchiana, che ritorna due volte nella storia della sua filmografia: una coppia di sposi libera delle colombe da una scatola di cartone e le fa volare via. È una scena da un matrimonio napoletano tratta da Reality, e contenuta anche in Oreste Pipolo, che della messinscena nuziale è quasi uno studio preparatorio. C’è n’è un’altra di scena, in quel breve docu-film di 45 minuti, in cui Garrone riprende il momento in cui il megafono del ristorante di ricevimenti chiama a turno, come in salumeria, le coppie per cognome, a farsi la foto sul gazebo bianco a bordo piscina. Questo attimo racchiude molto futuro cinema garroniano, ed è un buon esempio di come il pacchiano fa il suo ingresso in sordina nel quadro vivo di Garrone: in maniera vigilata, come inoculato a gocce da un maniaco del controllo. Per ottenere risultati così vivi (cioè disgustosi, e insieme sublimi), Garrone utilizza una disciplina creativa severa. Ogni volta che gira, mette da parte un 30 per cento del budget per poter coprire i costi di un’eventuale settimana extra di riprese, nel caso in cui il materiale girato nei tempi pattuiti non lo soddisfi. E nonostante l’eccesso di zelo, non ha mai dovuto mettere mano a quel 30 per cento di soldi per rigirare scene venute male, finendo dunque per collaudare un metodo produttivo estremamente risparmioso, se così si può dire di uno che per il suo ultimo film ha avuto 12 milioni di euro, cifra che, a fronte degli incassi, si rivelerà sicuramente un bagno di sangue per i produttori.

L’articolo è tratto da “Ritratti”, lo speciale numero digitale di Studio. Si compra qui in pdf, si scarica dalla nostra applicazione, qui.
Nell’immagine in evidenza: Matteo Garrone (Pascal Le Segretain/Getty Images)