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Nureyev su un campo da calcio

Ha compiuto 50 anni Marco Van Basten, l'ex attaccante di Ajax e Milan, ritirato a 28 dopo 3 Palloni d'Oro. Carmelo Bene disse: «Potremo avere un altro Maradona, non nascerà mai più un Van Basten». Aveva ragione.

di Giuseppe De Bellis

Il tempo ci ha tolto Marco Van Basten. Sì, è stato il tempo. Il suo. Giocasse oggi, non smetterebbe a 28 anni. La scienza, la medicina, la fisioterapia rimetterebbero lui in campo e noi al mondo. Perché vedere giocare Van Basten era rimettersi in pace. Non c’è una classifica che l’abbia mai considerato come il migliore della storia, ma non c’è stato alcuno che l’abbia mai eguagliato. L’unico giocatore unico. «Potremo avere un altro Maradona, non nascerà mai più un Van Basten», disse una volta Carmelo Bene. Non ha sbagliato. Perché abbiamo avuto Messi e non abbiamo visto ancora l’erede di Marco.

Compie 50 anni. Giovane, ma così lontano dai campi che sembra ne abbia di più. Sono 50 oggi. Marco, che poi in realtà il 31 ottobre 1964 nacque Marcel. Solo che sua nonna non riusciva a pronunciare il nome e allora lo cambiarono in uno simile, ma più facile per lei. L’anagrafe ha avuto il suo peso nella storia, perché provate a immaginare Marcel Van Basten e non vi suonerà. Non è solo confidenza con l’altro nome, è che quel pezzo di Italia associato a lui l’ha reso più vicino, più familiare, l’ha semplificato, quasi a testimoniare dal principio che la sua cifra sarebbe stata l’essenzialità. Elegante, pulito, sobrio, perfetto. Uno che persino nell’addio riuscì a fare le cose coi tempi giusti: dodici secondi. «La notizia è corta. Semplicemente ho deciso di smettere di fare il calciatore. Grazie a tutti». Disse così il 17 agosto 1995, diciannove anni fa, quando smise ufficialmente con il calcio giocato. Dodici secondi. Sedici parole. Il tempo sufficiente perché si capisse ciò che Bene aveva capito, ovvero che Marco Van Basten non avrebbe avuto eredi.
Ci hanno provato in tanti. Troppi. C’è stato chi ha segnato più di lui e ce ne saranno ancora. Un giorno, forse, un altro ragazzo colpirà al volo di destro una palla quasi inutile, rendendola una delle cose più belle viste da sempre su un campo di pallone. Magari sarà anche in una finale del campionato d’Europa e di fronte ci sarà un monumento della porta come lo era il 25 giugno 1988 Rinat Dasaev. Potrà succedere, ma non sarà uguale. Non sarà lo stesso incantesimo, non sarà mai tutto così naturale e assoluto. Perché la perfezione dei gesti calcistici è rara ed è già passata. S’è fermata sulla cartilagine della caviglia sinistra di questo ex ragazzo che ha detto stop definitivamente quando aveva neppure 31 anni e di fatto è rimasto interrotto quando ne aveva poco più di 28, il 23 maggio 1993. L’ultima partita.

Marco Van Basten ha chiuso un’epoca che è stata soltanto sua. Perché lui non è stato soltanto un giocatore. È stato uno specchio: il calcio s’è guardato in lui e s’è scoperto bello. Ha potuto essere elegante e raffinato, altero ed educato, gentile e nobile. Attraverso i suoi movimenti il pallone ha immaginato di essere il tennis e la scherma, dove contano tecnica e cervello, dove il colpo è vincente quando non c’è sbavatura, dove prima di agire devi pensare alla soluzione che ti dà il punto. E tra le tante possibili scegli quella che è nello stesso tempo la più efficace e la più aggraziata, quella che fa pensare agli altri che se c’è uno più forte di te, devi accontentarti di stargli dietro.

Perché Van Basten è stato un singolarista in un gioco di squadra. Non uno che dribblava sette uomini e se ne andava in porta da solo. Non uno innamorato del pallone tanto da irritare i compagni di squadra. Non un egoista. Uno che ha inteso il calcio come l’insieme delle capacità di ciascuno: tu difendi, tu costruisci, io segno. E ognuno lo fa con i suoi mezzi: lui usava l’estetica. A Milano era arrivato prima in videocassetta: si racconta che dopo 30 secondi, dopo il replay di un gol in rovesciata, Berlusconi diede l’ordine di acquistarlo nel supermercato olandese dal quale arrivarono anche Ruud Gullit e poi Frank Rijkaard. La prima volta che si incontrarono di persona, lui e Berlusconi, fu nella notte tra il 19 e il 20 novembre del 1986, all’Amstel Hotel di Amsterdam. Era appena finita Olanda-Polonia, i dirigenti del Milan organizzarono una cena con Marco e Ruud. A lume di candela.

Van Basten fu pagato un miliardo e 750 milioni alla scadenza del contratto con l’Ajax: l’acquisto più economico della prima era Berlusconi. Si ritrovò Sacchi come tecnico, ma non si erano conosciuti prima. Si amarono col tempo. Qualche giorno fa, l’ex allenatore del Milan ha ricordato un episodio: il Milan stava giocando male, Sacchi sostituì Van Basten. Tornando in panchina chiese: «Mister ma perché mi toglie?» E Sacchi: «Perché non stai giocando bene». E Van Basten: «Ma stiamo giocando male tutti». E Sacchi: «Ma gli altri almeno corrono, tu no».

Erano diversi per filosofia e per ideologia pallonara. Diventarono complementari. Non sarebbe esistito il Milan di Sacchi senza Van Basten e Marco senza il Milan di Sacchi non avrebbe vinto tre Palloni d’oro. Certo che il suo idolo e il suo punto di riferimento era un altro: Johann Cruyff. Era il 3 aprile 1982, Johann chiese un cambio alla panchina dell’Ajax che giocava in casa contro il Nijmegen. Il Signore uscì toccando il ragazzo: pochi minuti e fu il primo gol. Il primo di 218 con le maglie di club tra campionato olandese e italiano, in 280 partite giocate, divise per dodici stagioni. Il primo di 309 totali, coppe europee e nazionale compresa. Gli unici numeri che contano nella carriera di Van Basten sono questi, appresso alla contabilità delle operazioni chirurgiche (sette), dei giorni per quei recuperi sempre sperati e dei mesi di sofferenza.

Il dolore: tutta la vita di Marco Van Basten è stata l’opera struggente di un formidabile genio. Ha iniziato presto a provarlo, prima di quanto si possa immaginare, prima che le radiografie gli dicessero che la caviglia non aveva più le fondamenta e non sarebbe mai più tornata a posto. Il dolore ha fatto parte dell’esistenza di Van Basten più che di quella di qualunque suo collega: più di Roberto Baggio, che s’è giocato quattro volte le ginocchia, più di Alessandro Del Piero, che gliene è bastata una, più di chiunque. Marco ha cominciato a combattere con il suo corpo che era ancora Marcel: dodici anni, appena dopo essere stato scelto dai tecnici delle giovanili dell’Ajax. Gli diagnosticarono la malattia che lo condizionerà per tutta la carriera. Rimase a riposo assoluto per tre mesi. Nei primi 30 giorni non riusciva neppure ad alzarsi dal letto per andare in bagno. A 14 anni altri guai: cresceva in fretta, 15 centimetri l’anno. Aveva sempre dolori all’inguine. Altro consulto medico: i muscoli delle gambe si allungavano troppo, diventavano sempre più piccoli. Gli chiesero di smettere col pallone, gli dissero che se non l’avesse fatto avrebbe rischiato di finire su una sedia a rotelle a 20 anni. Restò fermo per poco, poi riprese.

Poteva finire lì Van Basten calciatore. Sarebbe stato altro: pallavolista, forse. Oppure pianista, secondo i desideri della madre: «Da bambino prendevo lezioni di piano. La musica classica piaceva a mia madre. Adesso da adulto l’ho riscoperta, come la sento mi vengono i brividi, mi sembra che si aprano spazi nuovi, come se ci fosse un discorso pulito e importante tra questi suoni e l’uomo». Ha giocato a pallone, come ha sempre detto lui. Semplice nelle definizioni quanto nelle giocate.

Si muoveva un ballerino quando suona una melodia perfetta. Van Basten è stato lo sportivo più vicino a Rudolf Nureyev.

Ha reso felice una generazione di appassionati, senza riuscire a esserlo lui. Perché la felicità è stata la pausa tra un dolore e un altro. La caviglia sinistra è entrata nella sua vita nel 1986, a 22 anni. Fu uno scontro di gioco con Olde Riekerink del Rotterdam: «È stato l’inizio dei miei problemi, ma non la causa. Quando mi hanno visitato dopo quell’infortunio si sono accorti che c’era qualcosa di strano a prescindere dalla botta. Mi hanno operato la prima volta. Oggi l’unica cosa che non farei più è farmi aprire la gamba così spesso».

Era un difetto congenito, naturale, una di quelle cose che se fai una vita normale non te ne accorgi neppure, se invece usi i piedi per lavorare e stupire il mondo, sei condannato. È stato il destino a far infortunare Marco e il tempo a non farlo giocare più. Non c’entra un difensore troppo violento. Quello lo avrebbe superato, lo avrebbe scartato, lo avrebbe lasciato fermo a osservare come si muove un ballerino quando suona una melodia perfetta. Perché Van Basten è stato lo sportivo più vicino a Rudolf Nureyev. Non c’entra quella danza del ventre improvvisata quando festeggiava un gol, quella cominciò a farla proprio per sbertucciare un difensore che conosceva la caviglia malata e picchiava sempre più forte. Era Pasquale Bruno. Fu punito da un autogol e Marco Van Basten gli andò incontro per prendersi la sua vendetta: tu picchi, tu meni, tu mi vuoi fare fuori, eccoti servito. E ballò per qualche secondo, con quello per terra che l’avrebbe preso a pugni. No, la vera danza di Marco Van Basten erano i movimenti sul campo, quelli più belli perché uno alto quasi un metro e novanta che ondeggiava leggiadro in mezzo agli altri ti lasciava a bocca aperta.

Marco lo hanno chiamato Computer e poi Basic, perché il suo calcio è sempre stato la sintesi tra la meccanica e il colpo. Non quello estemporaneo, ma quello giusto. Come quando segnò al Santiago Bernabeu, contro il Real Madrid in Coppa dei campioni. Mauro Tassotti crossò verso l’area, la palla arrivò a destinazione che era bassa. Uno normale gli sarebbe andato incontro per fermarla di piede, cercare il duello col difensore e provare a calciare. Van Basten si tuffò di testa, a pelo d’erba, colpì dal basso verso l’alto, il pallone toccò la traversa poi la schiena di Francisco Buyo. Entrò. Ecco Basic, ecco il Computer, quello che in pochi secondi ti fa l’operazione: se faccio quello che s’aspettano, mi fregano; se li prendo in controtempo, li frego io. Il calcolo. Come la rovesciata al Goteborg, nell’ultima volta che segnò in una partita europea, a San Siro: l’estetica abbinata al risultato. La meraviglia. Poi un dito alzato, punto. Perché le cose difficili sono semplici. Perché se sei stato unico non hai bisogno di altro.

 

Nell’immagine, Van Bastern con la maglia dell’Olanda nel 1992. Ben Radfoird / Getty

Nel testo, Van Basten con un giovanissimo Kluivert