Attualità

Manganelli in Asia

Cina e altri orienti, le cronache «personalissime» dell'Asia di Giorgio Manganelli, scrittore sofisticato ma sinceramente contemporaneo.

di Cristiano de Majo

Passare dalla raccolta di reportage di viaggio di Sandro Veronesi a Cina e altri orienti, riedizione dei reportage dall’Asia di Giorgio Manganelli, pubblicata in estate da Adelphi, mi ha spinto contro il mio volere verso la tentazione passatista, la rivendicazione retorica e moraleggiante che guarda al passato come a un giardino dell’Eden prima della cacciata, l’idea che tutto fosse meglio prima rispetto a ora, che ho sempre trovato di una stupidità sconcertante. E quindi, leggendo gli scritti di Manganelli, divertito, rapito, ammirato, mi sono anche sentito stupido. Perché, evidentemente, non producevo soltanto un impossibile confronto tra due scrittori italiani di epoche diverse, ma anche, e inevitabilmente, un confronto tra due epoche. L’epoca in cui Veronesi gira per languide metropoli su commissione di Traveller, che è anche l’epoca in cui ogni giallista che si rispetti ha commentato con parole ovvie e indifferenziabili dal ragionamento di un uomo della strada almeno un fatto di cronaca nera italiana, contro l’epoca in cui riviste e giornali popolarissimi (Epoca, Il Giorno, L’espresso) mandavano scrittori come Manganelli (o anche come Parise, che scrisse i bei reportage raccolti sempre da Adelphi in Guerre politiche) a raccontare la Cina, la Malesia, il Pakistan. E scrittori come Manganelli non potevano che offrire – venivano scelti per questo – il loro personalissimo e irriproducibile sguardo, che nessuna immedesimazione poteva avere con il punto di vista comune, senza per questo essere spocchioso o elitario.

Dunque, la prima avvertenza è che se doveste scegliere di leggere questo libro, rischierete come me di produrre fastidiose considerazioni nostalgiche sul passato dell’editoria italiana. La seconda è che ha molto senso iniziare a leggere questo libro dalla fine, cosa che io non ho fatto, cioè partendo dalla preziosa nota di Salvatore Nigro, curatore del volume, in cui si ricordano sommariamente le vicende biografiche dello scrittore, svelando la strettissima connessione tra la sua incombente depressione e l’attività di viaggiatore. Per molti anni Manganelli fu un intellettuale più che sedentario, impantanato a Roma, incapace di prendere un aereo e restio anche solo a uscire dalle mura cittadine, assiduo paziente dello psicoterapeuta junghiano Bernhard, che negli anni Sessanta si mosse, o almeno è questa l’ipotesi di Nigro, in funzione terapeutica perché a Manganelli fosse offerto un posto di lavoro in Pakistan che gli consentisse di spezzare la sua routine depressiva. Manganelli rifiutò l’incarico e fino all’inizio degli anni Settanta rimase, come detto, fermo. Iniziò a muoversi nel 1970 con un viaggio in Africa, che Nigro descrive come una specie di titubante rinascita psichica. Nel 1972 va in Cina e da allora si trasforma in un prodigioso scrittore di viaggi. Arriverei a dire: il vero scrittore italiano moderno di viaggi. Moderno al punto da sembrare a noi contemporaneo.

Manganelli finisce per mitigare naturalmente le ostiche tessiture barocche dei suoi paragrafi. È contemporaneo al punto che non sarebbe blasfemo convertirlo in uno scrittore hipster.

Anche perché c’è da dire che nella scrittura di viaggio, senza rinunciare del tutto al suo pazzesco virtuosismo linguistico, Manganelli finisce per mitigare naturalmente le ostiche tessiture barocche dei suoi paragrafi. Contemporaneo al punto che non sarebbe blasfemo convertirlo in uno scrittore hipster: mi sono fatto questa strana idea di andare a comprare calzini di spugna da American Apparel con Cina e altri orienti sotto braccio. D’altra parte, nel 1972 Vittorio Sereni della direzione Mondadori descriveva così Manganelli a Mario Formenton, vicepresidente della casa editrice: «Sebbene di tipo alquanto sofisticato e intellettualistico, è un elemento senz’altro interessante e oggi abbastanza di moda».

Insisto sulla questione della contemporaneità di Manganelli perché, pur essendo stato colpito per molti motivi da questi reportage asiatici, c’è un aspetto che subito si è affermato: la continua messa in discussione del punto di vista, della sua oggettività, che però non si nevrotizza in un tic metaletterario, ma riesce per miracolo a coniugarsi con una sbandierata medietà occidentale in fatto di abitudini, gesti quotidiani, bisogni, dando così ai testi il carattere di cronache personalissime (cosa che, per esempio, non succede nei reportage di Parise, che sono da apprezzare per motivi diversi, ma comunque molto più affini allo stile giornalistico dell’epoca) e sorprendentemente vicine allo spirito dei più recenti e brillanti interpreti del genere (Vollmann, per dire).

La bellezza degli scritti raccolti in Cina e altri orienti sta soprattutto nella loro straordinaria ricchezza. Se devo dire i reportage che mi sono piaciuti di più, dico la Malesia e il Pakistan, testi in cui appunto questa capacità di esplorare la gamma delle possibilità di un resoconto di viaggio viene sfruttata più profondamente. Ci si emoziona con l’emozione dell’autore. Ci si interroga sul senso di estraneità. Si ride dei malintesi. Si capisce la storia del Paese. Si pesano continuamente sulla bilancia i concetti di Oriente e Occidente. Ci si deprime. Si prova nostalgia di casa. Tutto questo grazie a una perfetta combinazione di originalità di osservazione e genialità espressiva.

«Naturalmente, sono a Manila; più esattamente, sto per partire, e questo paese tetramente sorridente, docile e magro, si congeda con un gesto che potrebbe essere infimo, ma che non manca della malinconica, ironica dignità che sempre si riconosce nell’astuzia dei poveri e degli oziosi».

Da pagina 56: «Sono davanti alle ceramiche igieniche internazionali, impettito e indecoroso, e sto pisciando. Ed ecco sento una spazzola leggera che percorre la mia schiena. Non ci credo, e tuttavia non v’è dubbio: qualcuno in quel momento mi sta spazzolando. Mormoro qualcosa, tento di schermirmi, mi sento degradato a livello di un potente della terra. Quando, un istante dopo, mi sto lavando le mani, qualcuno con grazia e inefficienza mi spazzola le scarpe. Lo guardo; è piccolo, magro, tra olivastro e nero: ha il tocco leggero e ama produrre sensi di colpa tra i clienti dell’aeroporto. Naturalmente, sono a Manila; più esattamente, sto per partire, e questo paese tetramente sorridente, docile e magro, si congeda con un gesto che potrebbe essere infimo, ma che non manca della malinconica, ironica dignità che sempre si riconosce nell’astuzia dei poveri e degli oziosi. Mi abbottono e corro verso l’inschallah delle linee aree pakistane».

Ed ecco Manganelli in Asia.