Attualità

Maledetti Giornalisti

«Io li odio i giornalisti dell'Illinois»: il rapporto dell'America con la stampa. Sondaggi, cultura pop e qualche paragone con l'Italia.

di Davide Piacenza

Autoreferenziali. Servi del potere. Senza etica. Lontani dal “paese reale”. Il repertorio di accuse mosse alla categoria dei giornalisti si arricchisce di nuovi termini anno dopo anno, sulla scia di sospetti, insinuazioni, critiche deontologiche e all’occorrenza insulti grezzi (Crimi docet: «I giornalisti e le tv li sto rifiutando tutti perché mi stanno veramente sul cazzo»).

Ma uno dei cardini del pensiero grillino – quello del rifiuto categorico della stampa “di regime”– è tale proprio perché condiviso da molte persone comuni. In Italia è ben radicato l’assunto del reporter affermatosi perché disposto a scendere a compromessi e fare marchette. Lo dimostra il rapporto Censis-Ucsi sulla comunicazione del 2011, in cui metà dei partecipanti al sondaggio giudicava inaffidabile il Quarto Potere, affidato a persone affette da «manie di protagonismo» (per il 67,8% degli intervistati) e «non abbastanza indipendenti» (67,2%).

Secondo un rilevamento di Daily Kos il 78% degli americani ha una visione negativa della stampa politica. E i notiziari televisivi vanno pure peggio.

Oltreoceano, negli Stati Uniti – rivela un sondaggio Gallup del dicembre scorso – la situazione non è migliore: solo il 25% degli americani considera i reporter affidabili ed eticamente onesti. Per tutti gli altri, i dubbi sono via via più consistenti, tanto che alla fine nella graduatoria della fiducia i giornalisti si piazzano dietro a banchieri e chiropratici. Ad agosto dello stesso anno, un rilevamento Daily Kos ha scoperto che il 78% degli intervistati ha una visione negativa della stampa politica. I notiziari tv, se possibile, fanno segnare dati anche peggiori.

Del resto, non è una novità: l’impopolarità generale della categoria era una questione che attanagliava una parte della stampa americana già due decenni fa. In un lungo articolo pubblicato nel 1996 su The Atlantic – ma che, a rileggerlo oggi, pare ancora molto attualeJames Fallows aveva provato ad andare a fondo della questione.

Fallows, firma storica della testata nonché ex chief speechwriter del presidente Jimmy Carter, parte domandandosi «perché gli americani odiano i giornalisti?» e finisce per rispondersi che i giornalisti sono i primi a non prendere sul serio il loro lavoro. «Il messaggio [che mandiamo] è: non rispettiamo quello che stiamo facendo. Perché dovrebbero farlo gli altri?»

Una conclusione un po’ tranchant, certo. E che peraltro anticipa un’ondata di autocritiche meta-giornalistiche che col tempo sarebbero diventate un appuntamento fisso negli incontri tra gli addetti ai lavori (per dirne una: nel festival di Perugia del mese scorso abbondavano i panel sulle pecche del giornalismo italiano, NdR).

Quello che rende l’analisi di Fallows interessante ancora oggi, tuttavia, è la meticolosità con cui affronta i punti critici del giornalismo, e ciò che egli vede come una dilagante perdita di credibilità. Nello specifico, seziona quest’ultimo tema a partire da tre elementi: da un lato una scarsa considerazione dell’etica professionale, spesso (paradossalmente) accompagnata da una ostentazione di deontologia; dall’altro il proverbiale “scollamento dal paese reale”, che talvolta si traduce nell’ignoranza completa dei gusti e delle aspettative del proprio pubblico; e infine quello che Fallows descrive come un’innamoramento nei confronti del game of politics, spesso a discapito della concretezza.

«L’esercito ha fatto un lavoro di gran lunga migliore nel riflettere sistematicamente dell’etica del comportamento in un ambiente violento, rispetto ai giornalisti» (Newt Gingrich 1987)

Partiamo dal primo punto. Fallows prende spunto da una trasmissione mandata in onda negli anni Ottanta dalla Pbs, Ethics in America. In una puntata dedicata agli scenari di guerra, due giornalisti ed alcuni soldati erano messi davanti ad alcuni paradossi etici. Per i cronisti, il dilemma era questo: se tu fossi al seguito delle truppe nemiche e ti giungesse la notizia di un imminente attacco contro i soldati americani, avviseresti i tuoi connazionali? Oppure sceglieresti di tenerti lo scoop? Il primo dei due reporter aveva risposto che, personalmente, avrebbe scelto di salvare le vite dei soldati americani a costo di sacrificare la storia. Ma quando il suo collega gli ha ricordato – assai costernato – che il loro dovere era inseguire la notizia, ha subito fatto marcia indietro. L’intero scambio di battute era avvenuto con toni piuttosto teatrali: l’immagine che ne usciva era quella di due reporter pieni di sicumera, più che travagliati da tarli etici. Messi davanti a un dilemma analogo, invece, i soldati erano apparsi più titubanti e, di conseguenza, più genuinamente turbati. Particolare interessante, uno dei militari presenti era il futuro candidato alle primarie repubblicane Newt Gingrich. Che chiosò: «L’esercito ha fatto un lavoro di gran lunga migliore nel riflettere sistematicamente dell’etica del comportamento in un ambiente violento, rispetto ai giornalisti».

Quanto allo scollamento dai gusti del pubblico, Fallows cita come esempio lampante le reazioni della stampa davanti al discorso sullo State of the Union pronunciato da Bill Clinton nel 1995: sul momento illustri commentatori lo giudicarono negativamente (e, soprattutto, troppo lungo: la bellezza di un’ora e venti minuti), ma poco dopo alcuni sondaggi rivelarono che la stragrande maggioranza degli americani lo aveva apprezzato.

Su questa falsariga, Fallows prende in esame le domande poste più frequentemente dai corrispondenti politici durante le conferenze stampa della Casa Bianca e programmi televisivi come Meet The Press. E nota che la stragrande maggioranza dei quesiti posti dai reporter ai politici riguarda questioni astratte. Se tali domande venivano confrontate con i quesiti posti in altre occasioni da “cittadini comuni”, la tendenza si faceva assai visibile. Fallows registra una vera e propria polarizzazione linguistica: mentre le domande poste dei giornalisti politici iniziavano spesso con l’avverbio “come”, quelle delle persone comuni vertevano sul sostantivo “che cosa.

L’analisi di Fallows, si potrebbe fare notare, si sofferma forse eccessivamente su casi negativi. Quasi mancassero gli esempi di giornalisti integerrimi, disposti anche a pagare a caro prezzo le loro scelte (Anna Politkovskaja ne sapeva qualcosa).

Nel frattempo però la rappresentazione dei giornalisti nella cultura pop ha perso colpi: se negli anni Settanta il duo del Watergate, Carl Bernstein e Bob Woodward, in Tutti gli uomini del presidente veniva interpretato da Robert Redford e Dustin Hoffman versione cronisti integerrimi e senza paura, col tempo all’aura di fascino austero ed esemplare si è sostituito un immaginario molto meno lusinghiero. Nel 1998 in Paura e delirio a Las Vegas Johnny Depp era un giornalista tutto fuorché professionale. In Fino a prova contraria, uscito nelle sale l’anno seguente, Clint Eastwood è un cronista alcolizzato che pensa solo alle donne. In The Newsroom, la serie tv firmata Aaron Sorkin che tornerà a luglio, il decadimento etico e professionale della categoria è talmente dato per scontato da costituire l’ossatura principale della trama. E gli esempi sarebbero davvero infiniti: basti pensare che in molti telefilm – CSI: NYWhite Collar Richard Castle, tra gli altri – esiste una testata fittizia (ma palesemente ispirata al New York Post): il New York Ledger, covo di editor cialtroni e disinformazione a cuor leggero.

Il messaggio di Fallows è che, sotto sotto, il marchio del “New York Ledger” ce lo siamo andati a cercare. Quello che forse non poteva immaginare, quasi vent’anni fa, è che argomentazioni come le sue, per quanto in parte condivisibili, sarebbero diventate un cliché, un esercizio di autocritica ciclica un po’ fine a se stessa.

Perché in fondo, come recita l’adagio, you’re either part of the solution or you’re part of the problem.