Attualità

Malamud, kafkiano americano

Simbolo della letteratura ebraico-americana, torna in libreria con un romanzo che si svolge in un tribù di indiani, ma c'entra soprattutto Kafka.

di Francesco Longo

Bernard Malamud lavorava al ventisettesimo capitolo di un nuovo romanzo quando morì per un attacco di cuore. Era il 1984. Il romanzo incompiuto si intitolava Il Popolo (mimimum fax, pp. 395, trad. I. Legati). Uscì in libreria nel 1989 grazie agli appunti che riassumevano i fatti principali dei pochi capitoli mancanti. Anni prima, in un’intervista in cui gli si chiedeva del suo rapporto con l’ebraismo, disse che si definiva «uno scrittore americano, che a volte scrive storie con temi legati all’ebraismo». Il suo ultimo romanzo incompiuto racconta la storia di una tribù di indiani, nel 1870, che si autodefinisce il Popolo. Il Popolo affronta un esodo forzato dalla terra dove vive, prova a resistere quanto può, ma alla fine viene caricato su un treno e portato via.

Sembra proprio che Malamud, al termine della sua carriera di scrittore, sia riuscito a tenere insieme in un’unica storia il racconto dell’America e quello dell’ebraismo. L’America del 1870 è quella in cui si può vendere una pepita d’oro per comprare un cavallo. «Il Paese era incredibilmente giovane e forte», scrive Malamud. Quanto al suo protagonista, Yozip: «La natura lo faceva sentire serio e importante». L’America è soprattutto il mito della sua terra, le immense praterie, i sentieri ostruiti da alberi sradicati dal vento, l’America è galoppare, cacciare bisonti, costruire zattere con pelli di bufali, tirare frecce, rispondere coi fucili.

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Il protagonista del romanzo, l’ebreo russo Yozip, viene catturato da una tribù indiana. Dopo una rapida iniziazione «il capo voleva farlo diventare un indiano, ma Yozip preferiva tornare alla propria vita che, per quanto non esaltante, era destinata a un futuro migliore». Invece gli viene affidato il compito di salvare il Popolo dall’uomo bianco che vuole mandare via gli indiani dalla loro valle. Parte per la sua prima missione a Washington per perorare la causa degli indiani, ma torna deluso perché la missione è fallita. Il capo della tribù non solo non lo manda via, ma stabilisce di nominarlo suo sostituto: «Voglio che tu diventi Capo Joseph. Ho deciso che prenderai il mio posto e credo che sarai un bravo capo». Dà questo ordine, e subito dopo muore. Davanti a ogni novità della sua storia personale Yozip è recalcitrante, come tutti i grandi profeti dell’ebraismo risponde con esitazione alla sua chiamata (Mosè si chiede: chi sono io per far uscire dall’Egitto gli israeliti?). Ma è inutile lottare contro il destino. Il destino avverso è presente in tutti i romanzi di Malamud, lo sa bene l’incidentato giocatore di baseball di Il migliore, lo potrebbe gridare a gran voce Frank Alpine, il protagonista del capolavoro Il commesso (ogni volta che si apre un romanzo di Malamud bisogna ricordarsi della frase di Alessandro Piperno contenuta nell’introduzione a L’uomo di Kiev: «La storia che racconta Malamud è sempre la stessa: quella di Giobbe»).

Quando si parla di Malamud si fanno inevitabilmente i nomi di Philip Roth e di Saul Bellow, a volte si cita Salinger, o Chaim Potok. Malamud infatti è uno dei maggiori scrittori ebrei del Novecento americano. Ma nel caso del romanzo Il Popolo, cercando le radici, si può tornare in Europa e andare indietro fino a Franz Kafka. Il riferimento a Kafka è una suggestione di Alessandro Zaccuri, contenuta nell’introduzione a Il Popolo, in cui propone una lettura vertiginosa: «Il Popolo è il più imperfetto e quindi il più kafkiano dei romanzi di Malamud», premette Zaccuri; per poi lanciare la bomba: «Riletto in questa chiave, si rivela per quello che forse è sempre stato nelle intenzioni dell’autore, e cioè una riscrittura di America». Zaccuri sovrappone i protagonisti delle due storie, sovrappone le linee disegnate dalle due trame e mette i due finali uno sopra l’altro. È innegabile che abbia avuto una illuminazione critica di rara felicità. Una volta, Malamud, parlando di come funzionano i simboli in letteratura, disse che esistono alcuni scrittori che racchiudono il significato di certe storie in oggetti che ne alterano i significati, come avviene nei sogni. Tra gli esempi che fece citò proprio Kafka, e le diverse interpretazioni del Castello e del Processo.

«Sono un indiano ma sono anche un ebreo», dice il protagonista del Popolo, parafrasando la coscienza di Malamud che era perfettamente ebrea e americana. È proprio in questo libro che l’America e la storia degli ebrei si fondono definitivamente. Prima ancora che riscrittura di America di Kafka infatti, la storia che racconta si rifà alla identificazione proposta dai Mormoni degli indiani d’America come i discendenti delle tribù perdute del popolo d’Israele. Quando Malamud scrive di indiani scrive anche di ebrei.

Hopi Tribesman

Come in moltissimi romanzi di Malamud, anche qui affiora una storia d’amore. La figlia del capo, Primo Germoglio, ama Yozip (che ormai ha cambiato nome in Jozip). Ma per Malamud l’amore è un sentimento che porta con sé sempre una mancanza di sincronicità, ci si ama sempre in tempi diversi, in momenti sbagliati, l’amore è il luogo in cui l’unica felicità è data dallo splendore delle frasi che si possono pronunciare (pochi scrittori hanno scritto dialoghi d’amore come Malamud).

«Jozip, il tuo cuore sente qualcosa per me? Parla seriamente in tutta sincerità», chiede Primo Germoglio. Ma Jozip sta guidando la tribù attraverso una natura selvaggia, con coyote che ululano e bisonti che camminano in fila nella neve, lui prova a sventare un massacro incombente: «Stiamo scappando da un esercito di soldati bianchi non è il momento di parlare d’amore». Qualche pagina dopo, sembra che il momento sia arrivato. «Quando sei venuto nella valle dal fiume mi parlavi e mi sorridevi spesso, ma adesso sei sempre serio», dice lei. «Allora sorridevo perché pensavo in cuor mio che un giorno ti avrei potuta amare», risponde Jozip. «Allora perché non dici che mi ami quando io stessa te lo leggo negli occhi?». «Talvolta gli occhi parlano più del cuore», ammette Jozip (Malamud non manca mai di sottintendere che in amore il rimpianto è capace di soffocare la speranza).  «Ma ora mentre stiamo parlando, non senti il cuore che batte per me? Io sento che batte per te», dice l’indiana. Ma Jozip ha una missione, deve portare la tribù in Canada. Per parlare d’amore non è ancora tempo («Io do il cuore e loro mi prendono a calci sui denti», diceva il protagonista di un racconto della sua raccolta Prima gli idioti).

Il libro Il Popolo contiene anche sedici racconti inediti o poco conosciuti. Tra questi racconti, due fanno ricordare Le vite di Dubin, in cui il protagonista è un biografo. Nel racconto “Ai New Gardens” si parla con ironia di Virginia Woolf, della sua vita erotica e del terrore delle recensioni. In “Alma redenta” si racconta di Alma, la moglie di Gustav Mahler, che ebbe tre mariti. Quando il terzo marito morì tutti aspettarono Alma al funerale, ma lei «ne aveva abbastanza di funerali», scrive Malamud. Una notte, Mahler le compare come un fantasma e lei davanti al fantasma – perché l’amore è sempre fuori tempo – «pensava di amarlo ancora».

 

Foto Three Lions/Getty Images.