Attualità

Perché truccarsi non è una perdita di tempo

Per Zadie Smith e Natalie Portman il make-up è un obbligo sociale. Eppure l’industria della bellezza non è mai stata così identitaria, come il successo di Fenty di Rihanna dimostra.

di Silvia Schirinzi

Quando Zadie Smith ha dichiarato che non avrebbe permesso a sua figlia di sette anni di perdere più di quindici minuti davanti allo specchio, in tanti hanno rimproverato alla scrittrice di essere stata un po’ troppo frettolosa nel liquidare la questione del make-up. «Mi sembra di capire che tutta questa storia del contouring richieda un’ora e mezza, è decisamente troppo (…) Gliel’ho spiegato in questi termini: stai sprecando il tuo tempo, tuo fratello non lo farebbe mai» ha voluto specificare Smith al pubblico dell’International Book Festival di Edimburgo lo scorso agosto ed effettivamente, il suo non sembra poi un parere così divisivo. D’altronde, perché continuiamo a insegnare alle bambine che devono truccarsi ed essere carine mentre ai loro fratelli diciamo di buttarsi addosso la prima maglietta che trovano ed «uscire liberi nel mondo»?

Solo qualche giorno fa Anna Kessel ha scritto un pezzo sul Guardian in cui analizza lo stesso problema, ma dal punto di vista delle scarpe. Facendo shopping per sua figlia di cinque anni, infatti, la giornalista si è accorta di come le calzature per bambine siano ancora fortemente legate agli stereotipi di genere (nei negozi si trovano perlopiù ballerine o Mary Jane rosa, glitterate, modelli comunque sempre molto “femminili”) e di come questo, a suo parere, impedisca che le piccole siano incoraggiate a fare sport. A sostegno della sua tesi cita un recente studio commissionato da Sport England, che ha rilevato come il 75% delle donne tra i 14 e i 40 anni vorrebbe essere più attivo, ma è frenato dai pregiudizi sociali legati alle sportive e al modo in cui l’attività fisica potrebbe cambiare il loro corpo. A chi piacerebbe una ragazza troppo muscolosa e per di più poco truccata?

Ritornando alla questione del make-up, Smith non è l’unica a guardare con diffidenza l’esplosione dei beauty tutorial e delle “full-face”, ovvero di quei visi femminili pesantemente truccati che oggi spopolano sui social, Instagram in particolare, sdoganati nella cultura di massa dalle sorelle Kardashian. La lista delle convinte del #nomakeup è lunga, e va da Alicia Keys a Natalie Portman, la quale ha recentemente dichiarato in un’intervista a The Cut che sua madre l’ha educata «non parlandole mai della bellezza esteriore, ma concentrandosi sull’essere una brava persona e sulla gentilezza» e che le scoccia ancora moltissimo il fatto di doversi sottoporre a ore di trucco durante la promozione dei suoi film mentre i colleghi maschi rilasciano interviste «come se si fossero appena alzati dal letto».

Portman è meno radicale di Smith: dice anche che le donne devono sentirsi libere di valorizzare la loro bellezza come meglio credono, e che lei è contenta quando i truccatori professionisti di cui dispone fanno magie sul suo volto, perché quella è quasi una forma di arte. Ora, difficile non dichiararsi d’accordo su questi temi generalissimi, ma come avevamo indagato non troppo tempo fa, anche quello di non truccarsi è un business florido che, tramite l’esaltazione della bellezza naturale al gusto di Girl Power, ha reso popolare una routine quotidiana non meno laboriosa di quella del contouring, che notoriamente richiede molti step e altrettanti cosmetici. Basti pensare al successo di marchi come Glossier di Emily Weiss, i cui prodotti sono raggruppati in “fasi” propedeutiche, caso interessante di cui avevamo parlato anche nell’ultimo numero di Studio.

FENTY PUMA by Rihanna Spring/Summer 2018 Collection - Backstage + First Looks

Se conoscessi personalmente Natalie Portman e fossimo amiche, potrei ribatterle che anche mia madre mi ha cresciuta non parlandomi mai troppo della bellezza esteriore, ma mi ha anche trasmesso, tra le altre cose, un amore per i “rituali femminili” diverso, legato più a un senso decoroso dell’offrire al mondo la miglior versione di se stesse che all’offrirsi alla sola attenzione degli uomini, fermo restando che ognuno usa il suo corpo e la sua faccia per gli scopi che preferisce. Mi ha insegnato a farlo per me, e nelle modalità in cui ritenevo mi si confacessero di più, insomma. Sin dall’antichità, il make-up è sempre stato legato al raggiungimento di un ideale estetico e sociale, e ha ugualmente riguardato tanto le donne quanto gli uomini: avete mai visto i bellissimi uomini Wodaabe vestiti e truccati per l’annuale rito del Guérewol, che ne celebra la virilità?

Di esempi simili ce ne sarebbero moltissimi altri, trasversali a tutte le culture e le epoche, per cui la divisione fra maschi e femmine in questo caso è legata anch’essa a stereotipi (il maschio libero di andare nel mondo con le sue scarpe sporche di fango) e non prende in considerazione, tanto per cominciare, tutti quei maschi ai quali di giocare a calcio non importa nulla, ma magari guardano con occhi sognanti le attrici o le modelle, e vorrebbero fare uso del proprio corpo allo stesso modo, senza che ciò condizioni per forza la loro sessualità. La sacrosanta discussione attorno a questi temi – come insegniamo alle bambine a cercare la realizzazione personale e professionale laddove meglio credono al di là dei ruoli in cui sono state ingabbiate per secoli, come insegniamo a maschi e femmine a gestire le loro interazioni secondo un mutuo rispetto – passa anche attraverso il make-up e più in generale per il mondo della cura (e quindi dell’immagine) di sé, che è stato strumento di liberazione per molte comunità di oppressi e/o “diversi”, come le drag queen, che di contouring saranno sempre maestre indiscusse.

D’altronde, su questi temi molte aziende stanno già costruendo le loro strategie di marketing, pur dimostrando di non saperle sempre gestire con intelligenza, come nel recente caso L’Oréal/Munroe Bergdorf, dove la modella-attivista trans è stata licenziata non ha appena ha fatto quello che fa di solito e per cui era stata scelta in prima battuta, ovvero l’attivista. Quella del beauty è un’industria dagli enormi profitti che si è adattata particolarmente bene ai social, come riporta Kashmira Gander sull’Independent nella sua breve cronistoria dell’Instagram make-up: tra il 2015 e il 2016, ad esempio, i contenuti su Youtube a tema bellezza sono aumentati del 200% e molti marchi storici, come Estée Lauder, hanno lanciato sul mercato prodotti che richiamano nei nomi la generazione cresciuta a suon di selfie (“Flash Photo Gloss”, o “Pore Vanishing Stick”) e fotocamera anteriore.

E se tanto ci sarebbe da dire su questo artificiosissimo modello di bellezza che, seppur meno monolitico che in passato, diventa ancora una volta il tramite di un consumismo esasperato, è vero anche tra le quaranta tonalità di fondotinta di Fenty Beauty, la linea di cosmetici lanciata da Rihanna durante la settimana della moda di New York, quelle che sono andate a ruba sono state le più scure, nelle quali in pochi avevano investito prima. Un consiglio: andate a leggere i commenti a Fenty sulle pagine social di Afropunk, Wear Your Voice Magazine o Bitch Media e provate a non percepire il senso di community (e di identità) che un fondotinta può scatenare.

 

Foto Getty Images