Attualità

Guardare Looking a San Francisco

L'ultima creatura Hbo è presentata come una versione gay di Sex and the City ed è ambientata, ovviamente, a San Francisco. I cliché non mancano - sui gay e su San Francisco. Ma la serie merita e intercetta alcuni cortocircuiti culturali.

di Viviana Devoto

Tre ragazzi gay a San Francisco. Un appartamento da condividere. Pullman affollati dove per riconoscere un’anima affine basta il codice di uno sguardo. Un quartiere, Castro, in cui Harvey Milk diventò la prima personalità gay eletta in un pubblico ufficio in California (nel ’77, come supervisore della zona), e poi fu assassinato insieme al sindaco, al City Hall di San Francisco, decadi prima che le unioni dello stesso sesso diventassero un’opzione plausibile. Stesse strade oggi: bar che si moltiplicano dove all’ora giusta per un cocktail, i single possono flirtare seduti al bancone, e i go-go boys danzano in perizoma e piume sulle spalle.

La serie tv Looking, appena mandata in onda in America da Hbo, è il Sex and the City dei maschi omosessuali: con tutto il corollario di stereotipi e di ingredienti che fanno gay, compreso essere cool nell’accezione di: un misto di figure navigate e interessanti. La più grande differenza con Carrie e le altre etero, ormai un po’ datate, è una: il sesso. Nella serie ambientata a New York, è sempre accennato e mai esplicito. I ragazzi di Looking, invece, tutti più o meno attraenti e perfetta incarnazione dei «tipi» californiani, fanno sesso già dal minuto 0.1 della prima puntata, con il protagonista, Patrick, che, in ginocchio, slaccia i jeans al suo partner occasionale. La scena è girata in una foresta, dopo una camminata con le scarpe da trekking addosso: ambientazione e costumi che fanno molto San Francisco. Il sesso è esplicito e non romanticizzato.

Tutto un po’ crudo per un telefilm da domenica sera. E così una coppia etero, residente in città, seduta davanti alla tv (sì: obbligare un marito a vedere la serie completa, accanto a me, è stato necessario e parte dell’esperienza), può entrare nelle dinamiche più fitte di un mondo che non le appartiene, ma che non è affatto lontano. Gli sceneggiatori hanno detto che avrebbero voluto qualcosa di fresco «attinente ai tempi contemporanei», registrando quel che accade a Castro e dentro gli appartamenti vittoriani della città più apertamente gay del mondo, accennando alla trasgressività ma senza limitarsi a quella. Il creatore della serie, Michael Lanna, ha spiegato che l’idea è venuta prima di tutto per una obiettiva mancanza di materiale: non esisteva un tv-show specifico sui gay che raccontasse la città e desse la cifra di quel che accade nel quotidiano. «Ho vissuto qui per tre anni e mezzo, e mi sentivo come se non avessi mai visto la città raccontata attraverso una videocamera. Volevamo mostrare questo. Proprio il modo piacevole in cui si può divagare intorno a San Francisco, e camminare da quartiere a quartiere. E anche la realtà di vivere tra queste strade. Quanto è difficile pagare l’affitto, e come si deve lavorare, e condividere appartamenti e soffrire per gli spazi ristretti», racconta Lannan. «Ci sono molti personaggi omosessuali nelle varie serie di successo americane, l’ultima è Orange is the new black, ma nulla che avesse come tema la contemporaneità della società gay».

Partire dal particolare per arrivare all’universale. «Così è stato per i SopranosThe Wire. Mondi caratteristici e dettagliati che alla fine rispecchiano aspetti, più o meno taciuti, della vita di tutti»

Dice Andrew Haigh, regista e produttore esecutivo (si è già districato a raccontare la realtà omosessuale nel film Weekend ), che le serie di successo sono quelle in grado di raccontare «mondi specifici». Partire dal particolare per arrivare all’universale. «Così è stato per i SopranosThe Wire. Mondi caratteristici e dettagliati che alla fine rispecchiano aspetti, più o meno taciuti, della vita di tutti». C’era qualcosa di simbolico nel modo in cui Tony Soprano cucinava gli ziti al forno e poi cercava di capire come recuperare del denaro e “spezzare il collo a qualcuno”, che racconta qualcosa (per iperbole) nel modo in cui chiunque, in tv o dentro casa, sa passare da uno schema emotivo all’altro, dalla tenerezza alla rabbia. Immedesimazione con un personaggio (anche se criminale), empatia: nulla di più ovvio. Accade con Looking.

Che cos’ha una serie tv sui gay da raccontare che valga la pena ascoltare? Sarà il ritmo di una città reale, uno specchio schietto di ciò che accade per strada. Ragazzi che si baciano davanti ai bar e coppie dello stesso sesso fotografate dentro file interminabili al Comune per registrare la propria unione. Patrick, il protagonista, ad appena trent’anni, é diviso: vivere una vita dissoluta, poligama e divertente, fatta di incontri rapidi e sensuali, di appuntamenti, di negozi di canottiere luccicanti da indossare nelle sere in cui vuole essere anche quel tipo di omosessuale, oppure decidere di sposarsi, mettere su una famiglia. Trovare un ragazzo che piaccia a sua madre, che ha già dovuto mandare giù in fretta il primo boccone delcoming out. C’è la città delle solitudini, la San Francisco generosa con chi è forestiero, quella degli artisti che non fanno una lira, e degli artisti che non fanno arte (o iniziano qualche pezzo e poi lo distruggono). C’è la Silicon Valley e i pullman che arrancano nelle salite. Ci sono i bar con i drag queen e i maschi sex workers (220 dollari all’ora). Un po’ di melassa, anche.

C’è qualcosa ancora da imparare nel ripetersi delle stesse dinamiche delle relazioni? I ragazzi di Looking fanno, in fondo, cose anche comuni: vanno online per trovare un appuntamento decente e uno scampo alla solitudine, sfogliando tra migliaia di profili che assomigliano ai loro sogni. Oppure cercano «someone just cute», qualcuno di carino, con cui spendere la notte. Okcupid, Chemitry.com. Gayromeo.com. Siti di “dating online”, gratis e brevettati, dove però l’aspetto ruvido è che un ego può sfracellasi a venti minuti dall’incontro, in un bar qualunque, davanti a una persona qualunque, per sentirsi dire: «Mi sembra che questo appuntamento non funzioni un granché. Tu hai preso due bicchieri di vino, io uno. Dividiamo il conto?». Le dita che vanno sulla calcolatrice del telefono per contare i centesimi e la sala da bar intorno che immediatamente diventa un frigorifero. Patrick è un po’ buffo e un po’ sfigato. E fa parte, ancora un cliché, ovviamente dei nerd della Silicon Valley, come designer di una società che produce videogame. Va a lavoro con felpa col cappuccio e tiene sempre sottobraccio il suo computer portatile. A una festa aziendale si ubriaca e cerca di abbordare un ragazzo per poi scoprire che, dal giorno dopo, sarà il suo nuovo capo: espediente letterario un po’ prevedibile. E sì: chi legge può già immaginare, senza sceneggiatura, come l’incontro con il passare dei giorni e a distanza di poche scrivanie, vada a finire.

In mezzo allo show c’è una dichiarazione d’amore alla città con luoghi prediletti molto diversi da quelli scelti da Woody Allen per il suo Blue Jasmine: da location deputate agli incontri, il club “Stud” che fa musica dal vivo ma che a San Francisco è anche un  bancone cult per gli omosessuali, ai cortei trasgressivi del Folsom Street festival, un’istituzione, tra abiti sadomaso e catene da esibire al centro della città. La city gourmet ai tavoli di Zuni, ristorante con menu raffinato e grandi vetrate. Il quartiere messicano e dei bar della Mission, i colori fluo e i negozi vintage delle strade di Haigh Ashbury. Il ponte che porta alla East Bay, con uno dei protagonisti che lascia il centro per trasferirsi nella più periferica (ma vicinissima) Oakland con gli amici che gli danno «tempo tre mesi e torna indietro» (suona familiare? Accadde lo stesso quando Miranda di Sex and the City lasciò Manhattan per, ai tempi, una Brooklyn più spaziosa e conveniente).

Cortocircuiti culturali,  una realtà libera dai pregiudizi sugli omosessuali ma ancora non da quelli razziali. È uno specchio nuovo, molto diverso da quello che finora si era visto sugli schermi

Hanno camice a quadri e velleità artistiche, alcuni i baffi che scendono fino quasi al mento (cliché!), tatuaggi che sono citazioni (un ragazzo sceglie Dolly Parton, la cantante country e icona gay, quanto di più vicino per look e piglio, a Raffaella Carrà). Ancora, cortocircuiti culturali, i volti di Looking raccontano di ragazzi gay che vivono una realtà libera dai pregiudizi sugli omosessuali ma ancora non da quelli razziali (Patrick uscirà con un americano-ispanico, che di mestiere “taglia i capelli” , non senza ricevere qualche frecciata dai suoi amici upper-class). È uno specchio nuovo, molto diverso da quello che finora si era visto sugli schermi: Tales of the City aveva raccontato in America l’epoca dell’avvento dell’Aids, mentre Queer at Folks era una specie di Friends gay ambientato a Pittsburgh, e poi il reality Queer eye for the Straight Guy con un gruppo di omosessuali che stravolgeva il look e abitudini di ragazzi etero acchiappati per strada. Nessuna lente d’ingrandimento (sesso, poco).

«C’è questa idea che se si guarda uno show su un gruppo di persone gay e tu non sei gay, lo show sullo schermo non possa riflettere la tua vita. Ma naturalmente riflette la vostra vita. Tutti noi abbiamo desideri simili e bisogni simili», ha detto Haigh, in un’intervista all’Atlantic. «E penso che la lotta per la ricerca di intimità e connessione sia una necessità così palesemente universale, ed è questo che volevamo mettere a fuoco». E poi farlo qui, non Los Angeles né New York: se c’era una città dove tutto questo dovesse partire, eccola qui, dove tutto è cominciato, perché in un altro luogo non sarebbe stato possibile.

 

Nell’immagine: una scena dalla serie, Copyright Hbo.