Attualità

Lockout NBA, cosa succede

di Francesco Casati

Dal primo luglio la NBA è ferma, chiusa, non operativa. Allo scadere del vecchio contratto collettivo è stato dichiarato il lockout in quanto, parole del vice commissioner Adam Silver: “il contratto collettivo appena scaduto ha prodotto perdite finanziarie per le nostre squadre”. La traduzione corretta di lockout è serrata, non sciopero; sono quindi i proprietari delle 30 squadre a “incrociare le braccia”, con il benestare di David Stern, commissioner della lega. È importante ricordare che negli Stati Uniti, a differenza dell’Italia, il diritto alla serrata è sancito dalla Costituzione. Il motivo del contendere è la ripartizione del denaro e la necessità di creare un modello sostenibile nel tempo per tutte e 30 le squadre. In altre parole, semplificando e scomponendo la questione in minimi termini: la NBA è un business da 4.2 miliardi di dollari in cui i proprietari faticano ad avere un profitto e anzi, perdono soldi molto facilmente. Il vecchio contratto collettivo prevedeva una ripartizione del 57% delle entrate (lorde) ai giocatori, ovviamente in stipendi. Quindi i contratti NBA vengono “aggiustati” a fine anno per arrivare a questa percentuale e in una stagione positiva come questa, le franchigie sono costrette a versare altri dollari oltre al contratto in essere. I proprietari offrono una cifra fissa per gli stipendi di 2 miliardi di dollari per le prossime 10 stagioni, l’associazione giocatori non la ritiene in linea con le previsioni di crescita della NBA (dal 3 al 5%) dei prossimi anni e con la nuova contrattazione al rialzo dei diritti TV nazionali del 2016.

Proprio in queste ore giocatori, lega e proprietari si incontreranno per un nuovo tavolo, la fumata bianca non è nemmeno quotata. Le parti cercheranno di calcolare le loro distanze e capire in che direzione muoversi per un accordo che molto probabilmente non arriverà prima di ottobre, con i giocatori decisi a non scendere oltre il 54%; infatti la maggior parte di loro è pagata da ottobre a maggio e fino a quel momento non perderanno un dollaro. Sul tavolo delle trattative c’è l’esigenza di rivedere il salary cap, il famoso tetto salariale di cui si sente spesso parlare a “casa nostra” come lo strumento in grado di salvare il calcio italiano. Del resto ogni italiano è il miglior CT della propria nazionale e, da qualche anno, anche il più abile dirigente in circolazione. Lo stallo NBA dimostra che non è sufficiente mettere un tetto agli stipendi per risolvere i problemi e, inoltre, la volontà dei proprietari è quello di trasformare il cap da elastico (soft) a rigido (hard). Oggi il tetto di spesa può essere superato in vari modi e il sistema di pesi e contrappesi pensato dalla NBA non regge più. Si vuole prima di tutto abbassare la percentuale del 57%, portandola a un valore simile al baseball (MLB) o al football americano (NFL), cioè del 50%, per poi passare a un formato rigido di cap proprio come in NFL, anche per garantire più equilibrio. L’ultimo lockout è datato 1998 e l’accordo si trovò soltanto il 7 gennaio 1999, stagione in cui si giocarono 50 partite in 4 mesi più i playoff. Ieri come oggi il motivo del contendere erano i soldi e anche questa volta i proprietari, che sono milionari con altri business, hanno il coltello dalla parte del manico. I giocatori stanno cercando di sfruttare bene le poche carte a disposizione e tramite stampa e new media (twitter, blog ecc..) fanno sapere di essere disposti a giocare all’estero. Grande bluff, solo chi è privo di vincoli contrattuali può giocare all’estero senza mettere in pericolo di annullamento il proprio contratto in essere con la franchigia NBA d’appartenenza.

Per i big il gioco non vale la candela visto che nessuna lega al mondo può pareggiare gli stipendi NBA. Non credete troppo ai tweet e alle news sui top player, valgono più o meno come i titoli di calciomercato in stile “Messi: voglio giocare nel Napoli”. Ad oggi l’unico big ad aver firmato con un club straniero è Deron Williams, playmaker che dovrà negoziare il suo rinnovo contrattuale con i Nets e quindi oggi non vincolato. Il basket NBA è un fenomeno globale, un prodotto facilmente esportabile e che può essere vissuto al suo massimo da ogni appassionato con una semplice connessione a internet e un portatile. In questi anni è stata data priorità al marketing e al taglio internazionale fortemente voluto da Stern, ma oggi la NBA è in stallo ben oltre le fredde cifre, i caldi dollari, gli ammortamenti e i bilanci complessi.

La politica di espansione ha portato nuove franchigie in mercati piccoli, in aree degli Stati Uniti o fino in Canada dove il basket non interessa. Ma anche dove la pallacanestro è quasi una religione, come per esempio in North Carolina, non si è tenuto conto di un mercato non adatto allo sport professionistico, ma esclusivamente legato alla realtà del college basket, dove risiedono le vere tradizioni e rivalità sportive americane. Questa politica miope di espansione, esclusivamente basata sul breve periodo, ha generato un abbassamento del livello del basket, un gioco annacquato, disperso talento e fatto ricchi giocatori di medio livello. Inoltre, il muro contro muro tra datori di lavoro e l’associazione giocatori genera interesse, ma il futuro della NBA si gioca sulla possibilità dei piccoli mercati di essere competitivi. Qui l’associazione giocatori non c’entra, è un problema complesso chiamato revenue sharing, cioè ridistribuzione dei proventi all’interno della stessa lega. I diritti TV nazionali ed internazionali vengono ridistribuiti collettivamente, viceversa gli introiti locali restano quasi esclusivamente a disposizione della franchigia che li genera. In NFL gli incassi di ogni singola partita (parcheggio, biglietto di ingresso, ristorazione ecc..) vengono così divisi: 60% alla squadra di casa e 40% alla squadra ospite; in NBA la squadra ospite si ferma al 6% e solamente sulla vendita dei biglietti. Le grandi aeree metropolitane ne traggono vantaggio, come i Los Angeles Lakers che riescono ad incassare quasi 2 milioni di dollari per ogni partita interna, mentre squadre di un piccolo mercato come i Milwaukee Bucks non arrivano a 500 mila dollari. In questi anni il divario tra team di livello e squadre in perenne ricostruzione è aumentato esponenzialmente, mentre Stern si è preoccupato esclusivamente di vendere il proprio prodotto all’estero e ha perso di vista la cosa più importante: il Basket. Senza quello, crolla tutto.