Cultura | Dal numero

Lo strano problema dei bagni italiani

Un’indagine d'autore su come gli stranieri giudicano le nostre toilette – luoghi in cui si entra vittime e si esce colpevoli – e sul perché le riduciamo così male.

di Letizia Muratori

Da qualche anno, il giorno di Natale, in Virginia, mi viene rivolta una domanda: perché i bagni sono così strani in Italia? L’ultima volta qualcuno ha sintetizzato per un nuovo ospite che non aveva mai varcato i confini dello Stato: Il migliore che puoi trovare è peggio del bagno di Target (Target è una catena di fascia medio bassa). I miei amici statunitensi amano l’Italia, proprio per questo non si rassegnano al “problema strano del bagno”. Non capiscono perché non sia in agenda, perché nessun politico ci punti durante la campagna, e non scherzano: lo dicono con molta serietà, vincendo la loro natura corretta, sempre incline al complimento: in Italia tutto è magnifico, amazing, tutto è per loro il sogno di una vita che si avvera, però il bagno, ecco, il bagno resta un mistero. Nei loro occhi sgomenti vedo apparire questi esseri invidiabili, dediti al saper vivere, circondati dalla bellezza, che si trasformano in mostri: ma cosa succede agli italiani in bagno? Come possono tollerarsi a vicenda quando ne escono e sanno cosa lasciano?

Il nostro pranzo di Natale non è un pranzo, è un’ottima merenda dove ciotole di granchi atlantici, tartine e dolci sono esposti in simultanea su una tavola per circa cinque ore. Una delle caratteristiche degli invitati è farsi un piatto pieno che resta intatto a lungo, o viene affrontato con una lentezza che porta all’esasperazione: foglie di lattuga croccante che si spostano da un’estremità all’altra del piatto. Ed è durante questi cambi di scena sul piatto che il discorso prima o poi inciampa su rotoli italiani di carta igienica buttati a terra, o calpesta impronte stampate su un umido di cui non si osa rintracciare la fonte. E poi la mancanza di sapone, i portasalviette vuoti, gli scarichi rotti, e ovunque quel cattivo odore. La viaggiatrice più esperta del gruppo ha più volte dichiarato che quando un pomeriggio, in un antico, elegante caffè di Torino, ha chiesto di usare il bagno e ci ha trovato un buco, un vero buco, nero, dopo un iniziale momento di sconforto, si è sentita fortunata: È meglio il buco nero, devi imparare a farla nel buco nero, ma è meglio della tavoletta che… Jesus… Oh my Gosh.

Mai si trovano parole che non scomodino il divino per descrivere la tavoletta di un cesso italiano. Dopo, con aria disfatta, luttuosa quasi, questi turisti a casa, il giorno di Natale, afferrano una forchetta e tagliano l’angolo di un dolce. Come fosse una testa sulla picca, se lo portano alla bocca. Masticando mimano il piacere più grande, si sperticano in complimenti con l’autrice del dolce, ma io resto indietro. Ormai ho il cervello intasato di carta igienica sporca, pestata, sprecata. Ma che ci prende in bagno? Quale demone italiano ci possiede? Jesus e Gosh a me non rispondono, così ho fatto una piccola indagine. Secondo Dina, un’autorevole fonte rumena che ne pulisce parecchi per mestiere, la ragione del disastro che fanno gli italiani è lo schifo. Nel senso che sono schifiltosi, igienisti: «Non si appoggiano, nemmeno quando ci sono appena passata io. Mai. Non si appoggiano, e alcuni non scaricano perché non toccano niente. Sono come senza mani». La risposta di Dina da sola basterebbe, è chiara, inequivocabile. Chiunque abbia un briciolo di onestà non può che riconoscersi in certi gesti amputati e vergognarsi, pensando che le nostre tattiche, atte a evitare qualsiasi forma di contatto, comportano conseguenze umilianti su chi poi deve pulire. Spesso la risposta è un gigantesco chissenefrega dedicato a chi viene dopo, perché anche l’avventore incriminabile è venuto dopo qualcun altro, dunque entra vittima, esce colpevole. Ma la vittima, nei crimini da bagno, conta sempre di più. A Dina chiedo quando, in che momento, precipita la situazione, se c’è una qualche forma di innocenza iniziale: «No, subito, basta che un bambino ha mal di pancia».

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Ma gli uomini sono meglio delle donne? Questo dubbio me lo riservo per Giuseppe, un signore che pulisce gli spogliatoi di un circolo sportivo: «Vanno in quello delle donne, ne ho beccati tanti che lo fanno, pensano che sia più pulito, invece è solo più usato». Purtroppo lo sapevo, esistono uomini che mi sporcano il bagno a tradimento. E infatti, quando posso scelgo il terzo sesso, e mi infilo in quello degli handicappati. Mi fido di quei sanitari più grandi, più alti, delle maniglie forti, delle serrature facilitate perché, tra le altre cose, non è bello restare chiusi dentro. A farci caso, la fascetta rossa che indica il bagno occupato è quasi sempre tirata a metà, mai del tutto, per prudenza. Se ne sta lì, va interpretata.

Un classico, molto temibile, è quando chi esce da quella porta indecisa, la lascia aperta, spalancata, e con aria spavalda, dunque in colpa, ti ignora, mentre tu, povera tapina, sorridi come a dire: “Mi posso fidare di te? Cosa trovo?”. Se quell’insopportabile spaccona in colpa si ferma a lavarsi le mani, non puoi tornare indietro una volta che sei entrata, e quella magari ha camuffato i danni con un quintale di carta. Tra tutti i crimini possibili, quel monticello asciutto, che strozza la gola al cesso, e cela chissà cosa, per me è il peggiore. Quando eravamo bambine, girava una leggenda: se mangiavi carta igienica ti si alzava la temperatura, sembrava febbre, e non andavi a scuola. Spesso in un bagno ripenso a certe mattine dei tardi anni Settanta in cui ero tentata di provarci, e vorrei ingozzare di carta igienica chi mi ha preceduta, non solo l’ultima faccia spavalda: febbre a quaranta per tutta la catena. L’ultima faccia uno non se la ricorda mai, quando entra, perché già si è sovrapposta alla sua. Parlo per me, d’accordo, ci sono anche persone perbene, educate, che trattano i bagni come si deve. E ci sono perfino quelli che sostengono di farci sesso. È una vita che voglio trovarmene uno davanti, uno di quelli che in treno o in aereo: “è tutto un interminabile ammiccare cifrato che porta all’amplesso nel cesso”.

Genny, una hostess di lungo corso, mi ha detto che sì, che capita, non a lei, ma qualche collega o passeggero vanta ricordi del genere. Io sono piuttosto freddina in materia, lo ammetto. Al di là dello schifo, sommo, ma che può attrarre amanti rapinosi, quel che mi lascia perplessa è la logistica: come fanno a entrarci in due? Dunque uno per forza si siede, e l’altro? L’altro, d’accordo. Ma quelli fuori che aspettano? E come ne escono in due? I voli lunghi, in cui è sempre notte – è deciso da un’entità superiore che è notte così ti tappano dentro a finestrini abbassati – sono l’ideale: pieni di tempi morti, e non tutti i passeggeri si sono impasticcati, o almeno non di sonniferi. Ma anche durante i voli brevi capita, anzi, in quel caso c’è più adrenalina in corpo, e dopo l’ammicco cifrato, ci si scontra appollaiati su un lavandino che, nella migliore delle ipotesi, è a secco, ma molto spesso è colmo di schiuma, una pozzetta lercia rimasta lì, per via della mancata pressione o qualcosa del genere. «Dovreste vietarlo, come il fumo, dovrebbe essere severamente vietato accoppiarsi in lavatory. Perché non ci mettete un sensore, telecamere?». Genny allarga le braccia impotente. Insomma, capisco che è una questione personale, e il mio miserabile, puritano, punto di vista non porterà mai allo smascheramento del sesso via sensore, anche pensando agli esiti di un allarme che scatta in aereo.

Antonio, una di quelle figure professionali, relativamente recenti, che girano per le carrozze del treno con un diffusore spray e pezzette a tracolla, mi ha molto sollevata: «Ma va’, ma se lo sognano, credono di rimorchiare, lo immaginano, a me non è mai capitato, non ho mai visto gente che esce in coppia dal bagno che non sia una mamma col figlio». Carmen è una vecchia maschera del cinema, ha quasi novant’anni anni, e l’ho stanata grazie a un esercente che conosco, non molto più giovane. Le ho chiesto informazioni di ordine archeologico. Mi ha rivelato che ai suoi tempi non si usava il bagno per «certi incontri», che non mi sapeva dire se in alcuni teatri, da militari, si usasse anche il bagno, ma tutto sommato credeva che «a certi incontri» fosse sufficiente il buio e la solita ultima fila. I bagni dei vecchi cinema invece avevano un’aria deserta, sotterranea, più fredda che torbida. Erano molto spartani e poco frequentati. Ci stazionavano davanti i cassettari con i gelati e i bruscolini. Il loro sguardo, indifferente a tutto tranne che a certi fili della casacca allentati da cui pendevano bottoni dorati, certo non incoraggiava alla passione chi li doveva scansare di peso per entrare in bagno. «Poi la gente» – ha concluso giustamente Carmen – «non si vuole mica perdere il film, e in tutti i casi, anche nei teatri da militari, serve il film».

Durante gli anni pesanti dell’eroina, qualche ragazzo aveva rischiato di morire nel bagno di un cinema: solo, lontano dagli altri, riverso su un lavandino gelido. I ricordi di una vecchia maschera fanno paura. Mentre quelli dei gestori di locali sono d’altro genere, tutti da sempre molto sciolti: in bagno si pippa, ma anche no, in bagno si scopa, ma anche no, in bagno si crepa, ma anche no, in bagno si vomita, ma anche no. In bagno si piange, quello sempre. “In bagno si piange, quello sempre”: è un bel titolo. Internazionale poi, le lacrime non sporcano, sono molto igieniche e nemmeno gli italiani le temono. Potrebbe capitare perfino a me di tirare fuori un fazzoletto in bagno, uno dei miei, preziosi, un pezzo della scorta che mi porto quando viaggio, per offrirlo a qualcuno che ne ha bisogno senza temere contagi.

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Veniamo alle indicazioni di genere applicate sulla porta del bagno. Le classiche sono di intramontabile squallore: c’è la versione scarpetta col tacco contro cilindro e baffi, una via di mezzo tra il Vecchio West e il Vecchio Frac. Sempre ascrivibile allo stesso genere è la silhouette con ombrellino contro quella in bastone. Esiste poi tutta una gamma punitiva di triangoli con la testa (la donna) e due righe con la testa (l’uomo), poi le targhe ovali di Ladies e Gentlemen, ogni tanto qualche immagine di divo e diva, di Evo contro Eva. Ma ormai tanti anni fa, a Cambridge, mi sono imbattuta nell’opera di un genio, molto locale: la porta dei maschi era sprovvista di indicazioni, e davanti ce ne era un’altra dove svettava un tampax riprodotto a pennarello. Forse era l’epoca di Carlo e dei suoi sogni proibiti e periodici su Camilla, fatto sta che questo dettaglio non è caduco, e davvero distingue l’uomo dalla donna, specie in bagno. Ora non vorrei disgustare chi legge, chiedo solo un pochino di pazienza perché la presenza di residui a tema è molto significativa. Non penso a quelli ematici, quelli valgono gli altri, ma a certe linguette adesive, ai veli di plastica leggera, sempre sui toni del lilla, ai cordoncini di cotone che penzolano fuori da un cestino colmo.

Questo lilla, il colore definitivo dell’intimo, è onnipresente in aeroporto, al ristorante, in treno, ovunque. Nei bagni americani non c’è, si vede meno, lo devi proprio andare a cercare. Ora, è lecito che una domanda, a Natale, la faccia anche qualche ospite italiano. Così mia madre, puntuale, ogni anno si difende dall’accusa di vandalismo: «Ma voi come fate, in quei giorni, senza bidet?». Si fanno la doccia al mattino, non esiste altra risposta. Uno si abitua a farsi la doccia. E il bidet è un ricettacolo impuro di sporcizia, di morbosità, sembra quasi sia stato inventato a scopo onanistico. Sarà, ma per mia madre resta l’unica grande differenza, italiana, tra la vita e la morte, tra il pubblico che lascia sempre a desiderare e il privato che invece è curato fino all’ossessione. Quando entra in un bagno privato e straniero lei subito si lancia a verificare se il microfono della doccia è mobile, o fisso, se c’è modo di farsi al volo una specie di bidet: «Niente è meglio di un bel bidet, ti rimette al mondo, è come lavarsi i denti, ma se lo hai provato, se lo conosci, come ci si può abituare a farne a meno?» Per lei quei «giorni» sono fortunatamente lontani, ma per un’italiana della sua generazione i giorni del bidet sono tutti uguali.

Qualche mese fa, tenendomela addosso per le strade di New York, valutavo: però, a Natale, in Virginia, non è così difficile trovare un bagno quando ti serve: c’è Target che equivale a un albergo di lusso, si sa, c’è il California Pizza Kitchen che pure non è male. Ma dove li nascondono a New York tutti questi bei posti accoglienti? Sono cheap, quindi li hanno eliminati. Qui c’è il bagno dello zoo, ma arrivaci. C’è quello di Bloomingdales, ma è a non so più che piano, stessa storia per Macy’s. Ci sono quelli degli alberghi, ma un po’ mi secca entrare e far finta di essere una cliente, c’è quello privato di William e Tia che me lo hanno anche offerto, e pensando a questo bagno che mi aspettava in casa di amici, quando ero ormai a un passo dal blocco renale, mi è venuta in mente un’idea sulla quale contavo di diventare milionaria. Una app: te la scarichi e quella ti indica la casa più vicina che ha messo a disposizione un bagno per passanti in difficoltà. A pagamento, a buon rendere, in forma di scambio, non avevo tanto chiaro il business plan, ma sapevo che il bagno Air a volte è più utile di Airbnb. Purtroppo ci aveva già pensato qualcuno, in rete, figurarsi, esiste pure una miniserie di nicchia, ma prima di scoprirlo, ho immaginato questo affare. Migliaia e migliaia di ospiti sparsi per il mondo che si dedicano al rinnovo dei loro bagni, che ne ricavano uno adatto a ricevere passanti, che si aspettano poi d’essere recensiti e temono giudizi severi, o scorretti di avversari.

La sera, a letto con il loro compagno d’affari, si chiedono se valga la pena buttare lì qualche libro, vecchie riviste, un portasciugamani vintage, e vari dettagli molto homey, tracce di quel calore casalingo che in certe teste, ormai orientate a un futuro da affittacessi, possono suggerire vecchi pizzi, centrini, saponi e sali vittoriani. Per altre teste, invece, tutto va ridotto all’essenziale, non come a casa, come in una vecchia macelleria, un luogo che bada solo al nudo prodotto. Personalmente puntavo su questa seconda via, e per qualche giorno ho immaginato il mio bagno ideale come quando, a sei anni, me ne stavo le mezzore schiacciata col naso contro un vetro e davanti avevo un pezzo di manzo: momenti atroci, di una noia perfetta, la mia prima idea dell’eternità. Il culo nudo dei miei ospiti doveva posarsi riverente su una tazza solida, isolata, fredda, senza orpelli, né intrattenimenti. La musica – pensavo – che la diffondano nei bagni di Tokio, a me non serviva altro suono oltre a quello dell’acqua che tira bene. Il sacro che cercavo in bagno era da macelleria, più made in Corea che in Japan. Ma l’ho ritrovato a Parigi. Ai Giardini di Lussemburgo, c’è un bagno pubblico piantato nel contesto con la dignità di una fontana. Lo tengono inservienti all’altezza della cornice, hanno l’aria autorevole e ornamentale di vecchi custodi da museo, non è eccessivamente pulito, ma pulito con la forza dell’abitudine. Lì dentro puoi farci di tutto: sesso, non sesso, ti puoi appoggiare o restare in bilico, la carta igienica non esiste, e, potendolo scegliere, non è un brutto posto per morire. È il bagno di tutti, pubblico nel senso migliore del termine. Ma non si può pretendere che il bagno sia ovunque così istituzionale, e a questo proposito, a proposito del contrario, ho chiesto a un operaio su un cantiere come fossero i bagni chimici, le note cabine arroventate che quando entri ti manca il respiro. Ha risposto: «Qui è tutto in regola, tutto regolare». Mi ha presa per un ispettore del Comune.

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Infine, per evitare di passare sempre per l’antiquata fuori dal mondo, e per dovere d’inchiesta, mi sono introdotta in bagni frequentati da ragazze e ragazzi – non so se lo siano davvero, ma portano maglie tricot, frangette, barbe e banana, rossetto rosso e tatuaggi di donnine sexy. Insomma mi sono addentrata nei bagni degli hipster, già fuori moda. Li ho trovati gradevoli, ma poco illuminati e questo per me è un problema. Lì dentro regna un’atmosfera rilassata, forse troppo, sono puliti quanto le poltrone sfondate che gli fanno da anticamera. Ci sono diversi libri che potrei leggere perché non li conosco. Non so dire se siano di seconda mano, sono titoli del tipo: Amare uno scorpione, nel senso dell’animale, oppure, I gemelli di rame. Sospetto siano inventati, che siano libri finti, e in questo regno del taroccato spuntava chissà perché La Califfa di Bevilacqua. Un capolavoro. Droghe non ne ho viste, tutt’al più droghette, e tante sigarette rollate da dita aggraziate. Tutte queste figure disegnate con addosso, tatuate, altre figure disegnate, mi hanno lasciato una buona impressione. La loro pipì, anche qui, non proprio centrata, mi ha dato l’idea di essere bio, non fa schifo: è bio, appunto. Peccato che sono tanto fuori moda, mi piacevano gli hipster dei Navigli, sprofondati tra velluti e ciniglie, impermeabili alla temperatura. I loro non sono microbi qualsiasi, sono tarme. A frequentare quei bagni si teme più per i propri abiti che per altro.

I più pericolosi sono i bagni di certi ristoranti milanesi: i set del selfie spiritato che si fanno le ragazzine coi capelli lisci e lunghi. Il paesaggio di migliaia di immagini Facebook. Non essendo madre, non temendo per il futuro di questi nostri figli allo sbando, mi preoccupa che una isterica capelluta in preda a un gridolino, a uno scherzo tra amiche, a una menata qualsiasi, apra la porta del bagno dove sono io che non è mai del tutto chiusa, mi becchi in quella posizione tirata e sospesa, con le mutande che mi segano le cosce, e per un attimo mi rivolga uno sguardo di terrore, prima di risbattere la porta. Cosa me ne frega di me, lo so che faccio pena in questa posizione, ma, cazzo, mi hai fatto cadere la borsa ancorata alla maniglia su un pavimento che è una palude infetta! Capita spesso, se entrando le trovo che saltano davanti allo specchio con tutte quelle braccia scheletriche intrecciate tra loro come una dea Calì, mi preparo al peggio e borsa me la tengo stretta, sulla pancia.

“In questo paese non ci sono fasciatoi in bagno! L’Italia è un paese incivile”, è un coro. Ogni amica con bebè che passa anche una settimana all’estero, torna con la fissa del diritto al fasciatoio. Io capisco, e trovo anche incivile che manchi, sulla carta però. In cuor mio penso: meno male, la roba dei bambini puzza in un modo esiziale. Ma poi pensa che rischio, ma povere creature, prima di metterci i fasciatoi certi bagni andrebbero rasi al suolo. Il fasciatoio è un passo importante sul piano dei diritti, ma successivo.

Un vero maestro che mi ha insegnato moltissimo e in tutti i campi del sapere, qualche anno fa aveva appena affrontato un trapianto di rene, dunque era immunodepresso. Ricordo che un pomeriggio mi restituì un quadro dettagliato dei rischi che correva in bagno. Con pacata ostinazione mi illustrò come si agisce usando il gomito: col gomito si aprono porte, e rubinetti, ed è meglio se il gomito è protetto da un fazzoletto annodato, che poi getti. Riprodotti da me, i suoi gesti così calcolati, orientali, si sono trasformati in un compendio di mimica insolente e mediterranea. Ho sgomitato come un pulcinella impazzito nei bagni di uno stabilimento del litorale laziale, ovvero in una cloaca massima. È stato l’unico momento della vita in cui ho optato per il topless perché al posto del fazzoletto avevo annodato al gomito il pezzo di sopra del costume. Come una ninfetta sono uscita dal bagno, tenendolo tra indice e pollice, mentre con l’altro braccio mi coprivo. Sono un caso disperato perché non temo brutte figure, ma tutte le tracce impure, specie le mie. Se mi cade addosso una mia goccia, se quella goccia scivola sulla gamba, lambisce la caviglia e si secca sul tallone, io la osservo paralizzata come fosse radioattiva.

Tornando al pranzo di Natale: dura cinque ore, ma tutto è all’insegna della libertà individuale. Esistono solo due regole: la prima è che chi cucina poi non lava i piatti, la seconda riguarda il finale. Attaccata al caminetto c’è una calza, e ognuno ha la sua. Prima di andar via tutti si riuniscono, davanti al caminetto, pronti a ricevere la calza. Dentro la mia trovo sempre bellissimi doni, molto pensati, e sul fondo mi attende, immancabile, un flaconcino di disinfettante per le mani prodotto da Rite Aid. Me lo fanno trovare lì, come i libri degli hipster. Ogni volta che infilo la mano in fondo alla calza, avverto questa loro pervicace testimonianza d’affetto, solidarietà. In aereo, sulla via del ritorno, mentre forse in lavatory una coppia di contorsionisti si sporca in preda alla passione, stappo il flaconcino Rite Aid e faccio quel gesto rapido, quel massaggio frizionato che mi lascia addosso una patina appiccicosa di gioia: contro tutti i microbi, viva l’Italia!

2016 Letizia Muratori | AgenziaSantachiara
Dal numero 28 di Studio
Illustrazioni di Elena Xausa