Attualità

Lo show della ditta Trump

Si è chiusa, col discorso di The Donald, la convention repubblicana più assurda di sempre. Un partito diviso e una famiglia che vende distopie.

di Paola Peduzzi

I big del Partito repubblicano americano non si sono presentati, quelli che lo hanno fatto hanno tradito le aspettative, non c’erano le star, non c’era un programma attendibile, sono saltati gli schemi, le promesse, la credibilità, ci sono stati interventi senza pubblico, il 30 per cento dei delegati non ha votato per il candidato da nominare, che è come dire che a una cerimonia di incoronazione un terzo delle guardie prende e se ne va, l’America è stata dipinto come una distopia buia, che aspetta il suo salvatore con i superpoteri (nei capelli).

Benvenuti allo show della ditta Trump: un rito antico della politica americana come la convention di partito, quest’anno a Cleveland, è stato forgiato dal più irrituale dei suoi rappresentanti, quel Donald che pare non aver notato che molti si sono annoiati, molti si sono spaventati, molti si sono defilati, molti non hanno nemmeno comprato i soliti imperdibili gadget per dimenticare, un giorno, quest’estate del discontento. Lui, il vociante candidato presidente di un partito raso al suolo, si è divertito tantissimo, ha frantumato il politicamente corretto nei cartelloni dei suoi bizzarri sostenitori e poi nel suo discorso finale: «Io sono la vostra voce», ha urlato dal palco l’ultima sera, prima che iniziassero a cadere dal cielo le ghirlande e i coriandoli della festa della democrazia americana.

Trump si è fatto presentare, raccontare, coccolare in diretta tv dalla sua famiglia, la moglie, i figli, Ivanka l’angelo custode, tutti belli, tutti sorridenti, tutti sicuri che qui, plagio o non plagio, si sta facendo la rivoluzione. Ha lasciato ai mastini repubblicani che non l’hanno abbandonato – pochissimi – il compito di attaccare la rivale, Hillary Clinton, di articolare quel messaggio semplice e immediato che era scritto sulle spillette «Clinton for prison» e su quei signori che si aggiravano con la tuta dei prigionieri e la maschera di Hillary in faccia. «Lock her up», rinchiudetela, hanno gridato instancabili i protagonisti della distopia durante tutta la convention e poi quando Trump stesso ha denunciato, con toni apocalittici e lugubri, «il cattivo giudizio» della Clinton, la malafede che porta alla fine del mondo. Trump ha fatto parlare dal palco i suoi dipendenti, i suoi seguaci, i suoi testimonial perché il trumpismo è un misto tra una ditta di famiglia e una setta, e la storia che si racconta, con quella vistosità da effetti speciali anni Ottanta in cui oggi si vede il trucco, è una storia di successo.

Republican National Convention: Day Four

I repubblicani, quelli sì che gli hanno rovinato la festa. Non fosse il candidato del Gop, Trump avrebbe potuto organizzare la propria kermesse strampalata senza preoccuparsi dei commenti acidi, dei sorrisi a denti stretti, dell’infelicità visibile sul volto di molti colleghi. Ma le convention servono ad altro, solitamente: servono a celebrare l’unità dei partiti, a mostrarne la forza, a colorare dei propri toni l’immaginario elettorale di un Paese. Invece nello show del trumpismo un ex rivale come Ted Cruz, senatore del Texas battuto nelle primarie e poi cantore della necessità di sintesi identitaria attorno a un candidato, ha tradito in diretta le proprie parole e le attese del suo ospite. «Vote your conscience» è il grido del non-endorsement di Cruz, quella coscienza conservatrice tormentata e preoccupata richiamata in servizio come unico metro di giudizio. La coscienza fugge lontano dal candidato Trump, ma nel tempio di Cleveland non si deve dire, non si può dire, non siamo più alle primarie, c’è una sfida con i democratici da vincere, non conta la coscienza, conta l’appartenenza. Così mentre Cruz consumava il suo tradimento in diretta, Trump è entrato sul palchetto di famiglia con il pugno alzato, la folla s’è girata, eccolo il candidato, Cruz non è più riuscito a dire nulla, era ricoperto di fischi e di applausi per Trump, ma ormai quel che doveva dire l’aveva detto. L’arena di Cleveland s’è inchinata davanti al leader, ha sputato fuori il traditore – e ancor più la moglie Heidi, quella che Trump ha definito un mostro, che ha rischiato di essere addirittura picchiata dai sostenitori di Trump – ma mentre i giornalisti ritrovavano il sorriso dopo giorni di lagne sulla noia, oltre il perimetro militarizzato della convention si sono sentite soltanto le note stonate di un concerto di imbarazzi.

Reality show, dicono. Ma più che al Grande Fratello e ai suoi derivati tra fattorie, isole di naufraghi e di tentazioni, lo spettacolo di Trump fa pensare alla serie tv UnReal, che è bellissima e attualissima, e che racconta con una precisione sconvolgente l’arte della manipolazione e tutti noi, spettatori e protagonisti, che quell’arte la maneggiamo con sapienza o goffaggine. Trump no, sarà trash e sua moglie una copiona, ma lui conosce lo spettacolo, sa che cosa deve rimanere del suo messaggio, sa come manipolare quel vuoto enorme che si chiama assenza dell’establishment, che fa tremare i commentatori dallo sconcerto (mai vista una roba del genere, ripetono i reporter veterani), ma che è esattamente l’effetto ricercato: siamo qui, pochi, isolati ma uniti, il mondo va a pezzi, ma lo salveremo con la rivoluzione di queste nostre forze autentiche. Lo sgarbo di Cruz rientra nel colpo di scena, o così ci vuole far credere il manipolatore che sussurra all’orecchio piccole bugie e piccole verità per rendere lo spettacolo più avvincente: «No big deal», ha twittato Trump, si sapeva che Cruz era un bugiardo – “Lying Cruz” era il soprannome che Trump aveva dato al senatore texano durante le primarie – e nulla cambia, non abbiamo bisogno di lui.

Non sono «un cucciolo servile», ha rilanciato Cruz, per sottolineare quel che tutti pensano nel Partito: finirà questo momento, finirà il trumpismo prima o poi, ma noi non dimenticheremo, noi sapremo con esattezza da ghigliottina chi ha resistito e chi si è concesso alla seduzione di Trump. Il cosiddetto partito #NeverTrump, che si è battuto fino all’ultimo anche a Cleveland e ha ammesso la sconfitta quando, pure tra i boati, la nomina del candidato è diventata ufficiale, ha ricominciato la sua battaglia, sotto altre forme: non possiamo dotarci di un nuovo leader da qui a novembre, ma speriamo che il prescelto perda, e organizziamoci per le vendette del dopo. Trump conosce bene le trame dietro di lui, ma in questo reality lui è quello che suggerisce ai protagonisti che cosa fare, è il manipolatore, e i suoi interlocutori sono soltanto gli elettori, non certo i colleghi di un partito che lo detesta e che potrà tornare unito soltanto nel momento in cui si dovesse salire sul carro del vincitore. Trump ha perso la voglia di pensare al Gop, forse non ce l’ha mai avuta: recupera il messaggio della destra tradizionale degli anni Settanta, prima di Reagan, prima dei Bush, e inizia il dialogo diretto con gli elettori.

Republican National Convention: Day Four

Come la producer di UnReal che sussurra nelle orecchie delle concorrenti del reality soltanto quel che serve a creare un nuovo plot e molta audience, Trump vende agli elettori dati falsi come se fossero veri, i fact checker lo rincorrono puntigliosi e isterici, ma lui non deve nemmeno rispondere, il suo populismo si nutre di questi numeri tirati per i capelli, la verità non conta, conta che il discorso sia convincente. L’ultimo di Trump è stato il più importante e organizzato di tutti: il candidato repubblicano non si è dedicato soltanto agli slogan, ma ha definito la sua strategia che implica una chiusura al mondo – gli immigrati sono più pericolosi dello Stato islamico, il libero commercio ruba il lavoro – una lotta contro i poteri forti di Washington e Wall Street e una battaglia spietata, rancorosa e a tratti offensiva contro Hillary. «Io sono la vostra voce» è lo slogan con cui Trump attira il suo popolo che si sente silenziato: secondo le statistiche i cosiddetti “voiceless”, come li definiscono i sondaggi, sono un 20 per cento degli elettori, ma non si sa quanti “voiceless” ci siano tra chi a votare non ci va spesso, o non ci è mai andato. Studiando lo schema della Brexit, unico evento europeo citato alla grande alla convention, Trump fa un appello alla working class e sogna che per lui, per la sua rivoluzione, gli stanchi, i disillusi, i disaffezionati si presentino alle urne facendo saltare i modelli e algoritmi che oggi danno la Clinton spaventosamente vincente.

Se i democratici studiano da secchioni i segmenti demografici Stato per Stato, Trump parla alla working class intera, soprattutto quella che non parla, soprattutto quella che non vota: non si discute quasi mai, quando si analizza il trumpismo, del voto nero, del voto dei giovani, del voto dei latinos, del voto delle donne e così via. Si sa che c’è un pubblico ostile a Trump, come quello delle donne o dei giovani: si racconta che fossero pochi i ragazzi che si aggiravano per la convention di Cleveland con le spillette e i cartelli da fan, ammettendo che sì, convincere gli amici a votare il candidato repubblicano è una missione impossibile in cui non ci si diverte neppure tanto. Però Trump punta ad altro, non a quello che c’è, ma a quello che ci potrebbe essere se davvero la sua operazione di populismo trasversale (ha citato anche Bernie Sanders, Trump, come simbolo di un rivoluzionario che non ha mai avuto una chance di cambiare il sistema perché il sistema stritola il cambiamento) dovesse funzionare e mobilitare chi ha il cuore gelido nei confronti della politica. Il suo successo può essere garantito quasi esclusivamente dall’imprevedibilità. Che è la sintesi e la base fondante della ditta Trump, la famiglia che vende distopie.