Attualità

Lo scontro fra due basket diversi

Parte stanotte la serie finale Nba fra Oklahoma e Miami. Analisi delle due contendenti

di Francesco Casati

Miami Heat e Oklahoma City Thunder non è solo la finale NBA 2012, è anche lo scontro tra due filosofie di basket e management completamente differenti. Da una parte i tanto odiati Heat, che nascono in una sola estate, quella del 2010, tramite un patto a tre fra Dwyane Wade, Chris Bosh e LeBron James per giocare insieme e dar vita ad una dinastia; dall’altra i giovani Thunder, costruiti in cinque lunghe stagioni tramite lo scouting e la valutazione corretta delle proprie scelte al draft, più poche operazioni di mercato mirate per creare il giusto mix tra giovani di talento e veterani in grado di essere il punto di riferimento dello spogliatoio, oltre che gregari validissimi. Miami è un’anomalia nello sport professionistico americano, mentre Oklahoma City è l’esempio da seguire per le tante giovani squadre che cercano di dar vita a un progetto vincente; rappresenta l’orgoglio del commissioner NBA David Stern essendo la dimostrazione che le regole e la struttura della Lega riescono a produrre equilibrio tra le 30 franchigie favorendo le possibilità di ricostruzione per chi chiude l’anno in fondo alla classifica. In più, la cittadina di Oklahoma City è virtualmente impazzita per i Thunder che nel loro piccolo ad ogni partita riescono per qualche ora a far dimenticare la profonda cicatrice di quelle 168 persone morte nell’attentato del 1995 contro l’edificio federale Murrah.

 

L’uomo chiave in casa Thunder è il general manager Sam Presti, che insieme ai suoi collaboratori ha saputo valutare il talento dei giovani Russell Westbrook e James Harden andando oltre alle statistiche e i risultati ottenuti negli anni del college; il primo giocava a UCLA in un sistema molto lento, mentre il secondo ha chiuso la sua carriera ad Arizona State con una partita pessima sacrificandosi a giocare in post contro la zona. Ma non solo, nel draft 2008 ha visto in Serge Ibaka, ai tempi un atleta clamoroso capace solo di correre e saltare, il potenziale per diventare un giocatore di basket dominante sotto canestro e, infine, ha ceduto a Boston per Kendrick Perkins l’unica delusione arrivata dal draft, ovvero Jeff Green. Manca un nome all’appello? Si, quello del miglior attaccante della galassia: Kevin Durant! Lui è la base di questa piramide così solida, oltre ad essere l’alfa e l’omega dell’attacco Thunder. Parafrasando un noto film popolare italiano: nel draft 2007, alla posizione numero due, il duca-conte Presti ebbe una formidabile botta del suddetto culo, beccandosi un banco clamoroso che risponde al nome di Kevin Durant. Al numero uno venne scelto Greg Oden dai Portland TrailBlazers, oggi un ex giocatore per diversi infortuni gravi alle ginocchia ma ai tempi il miglior prospetto nella posizione di centro. Proprio come nel draft 1984 Portland scelse un centro rispetto ad un realizzatore, allora rinunciò ad un certo Michael Jordan per Sam Bowie, anche lui più presente in infermeria che sul campo. Senza Durant OKC probabilmente sarebbe un’anonima squadra della Western Conference ma con un pubblico strepitoso, Sam Presti non sarebbe ritenuto un genio, sicuramente non ci sarebbe nessuna finale e Stern avrebbe qualche dubbio in più sulla struttura della sua Lega. Humphrey Bogart direbbe: “questo è il draft, bambola!”. E vista la citazione vintage è obbligatorio ricordare che i Thunder nascono dalle ceneri dei Seattle SuperSonics (la squadra di Jack Sikma, Shawn Kemp e Gary Payton solo per fare tre nomi), e sarebbe stupendo vedere il logo della città dei Boing 747 sulle maglie di Oklahoma City.

 

C’è poco vintage e ancora meno fascino nei Miami Heat, che sembrano lo specchio di South Beach: finti, volgari e circondati da mille luci che illuminano il nulla. Il pubblico di Miami non è Heat, nemmeno cool, è semplicemente freddo e disinteressato: a vedere le partite all’AmericanAirlines Arena troviamo vecchi rimbambiti spesso tifosi dei Knicks che si trasferiscono a Miami da New York per svernare, cafoni arricchiti, giovani e meno giovani gold digger (termine tecnico per definire le arrampicatrici sociali) e sudamericani che sanno a malapena le regole della pallacanestro, ma in compenso scalpitano in attesa della prossima Coppa America di calcio. I tifosi più caldi di Miami sono in Europa, si sono innamorati degli Heat ai tempi di Alonzo Mourining e fanno nottata per seguire questi playoff. Poi c’è il campo, c’è la squadra costruita dal presidente Pat Riley – pure lui arrivato a Miami da New York City- che è il motivo per cui gli Heat hanno credibilità come franchigia e per cui Wade si sente cestisticamente a casa. Se amate gli anni ’80 il nome di Riley non vi suonerà nuovo, era l’allenatore di Magic Johnson e dei Lakers dello Show Time, oltre ad aver portato i Knicks alla finale a metà anni ’90 e gli Heat al titolo nel 2006. Riley è come un padre per Wade e il loro legame è all’origine del patto che ha portato Bosh e James in maglia Heat. In due anni sono arrivate due finali, ma il progetto ha perso quota e anche in caso di titolo andrà rivisto. Non c’è chimica offensiva, l’atteggiamento di Wade è discutibile, Bosh si è dimostrato un giocatore utile ma sopravvalutato, il supporting cast tranne Mario Chalmers e Udonis Haslem è imbarazzante e coach Eric Spoelstra non può essere il parafulmini per tutti questi problemi, anche perché il suo sistema difensivo è l’unico aspetto del gioco in cui la squadra si muove nella stessa direzione. Tanti difetti ma poi in campo c’è LeBron a fare la differenza. Un giocatore unico, capace di giocare 5 ruoli ed essere nella stessa partita il miglior difensore, attaccante e assistman. James è il solo motivo per cui Miami è in finale e fa male al cuore vedere che avrebbe potuto inseguire l’anello ai Cavs, senza Wade e la macchia di un tradimento verso la sua Cleveland, ma con compagni migliori dal terzo al dodicesimo uomo. LeBron viene dipinto come uno spaccone arrogante, forse lo sarà anche, ma in campo si fida dei suoi compagni e non ha mai usato nessuno per coprire le sue sconfitte. Il 2 marzo a Utah, sotto di un solo punto e con la palla in mano ha giocato un pick n roll con Haslem che però ha sbagliato l’ultimo tiro. In gara4 del secondo turno di playoff, in svantaggio 2 a 1 e in trasferta ad Indianapolis, si è ritrovato in una situazione simile e ancora una volta si è fidato di Haslem che ha segnato e chiuso la partita. Questo è basket, il resto sono chiacchiere da bar!

 

Le sue iniziali LBJ sono il brand di punta della Nike per quel che riguarda il basket e l’immagine del prodotto, citando Jay-Z, si basa sul concetto di “Michael, Magic&Bird all rolled in one”. LeBron non è Chris Rock e per ora ha bucato tutte le operazioni simpatia, ma a differenza di altre superstar non si è mai preoccupato di dover piacere a tutti costi. Storicamente le lettere LBJ si sono sempre scontrate con l’opinione pubblica americana, basti ricordare le proteste di Chicago alla convention del Partito Democratico nell’estate del 1968 contro il presidente Lyndon B. Johnson, travolto dalla gestione della guerra in Vietnam. Fu Bill Clinton (anche lui più popolare in Europa che in America) nel 1993, 20 anni dopo la morte, a tributare il giusto omaggio a Johnson per le sue politiche di Welfare e integrazione razziale. Qui per fortuna si parla solamente di basket e il “nostro” LBJ, quello nero nato ad Akron, ha solo un modo per far tacere subito i suoi contestatori: vincere questo dannato titolo!