Attualità

L’italiano migliore d’America

Marco Belinelli ha vinto la gara dei tiri da tre all'All Star Game. Marco Belinelli, dopo un passato da "Journeyman", da pacco postale, è anche diventato il più forte italiano nella NBA. Così.

di Giuseppe De Bellis

È stata Lia Capizzi con quel suo tweet di domenica mattina: «La (super) grande bellezza: Belinelli vince la gara di tiro da tre punti. #BeliShow nella storia». Mamma mia, proprio Mamma mia, e in molti sanno che citazione sia. Comunque mamma mia per due motivi: per la notizia e perché avevo registrato la gara. Ora non è il caso di fare i fissati che si chiudono fuori dal mondo quando registrano qualcosa e non vogliono rovinarsi la sorpresa. Perché sì, a quel punto sapevo il fatto, ma non sapevo come. E poi, se proprio vuoi chiuderti fuori dal mondo non tappi sull’app di Twitter, giusto? Quindi niente. Quindi avevo solo da godermelo lo stesso, per vedere quel come. Flavio Tranquillo comincia così: «La maglia numero tre dei San Antonio Spurs, il cuore dell’Italia che batte, Marco Belinelli, 45 per cento appena scarso quest’anno da tre, andiamo a seguirlo». Fa 19 nella prima serie, cioè il miglior punteggio di tutta la West Coast. «Se Stephen Curry non lo batte, va in finale», dice Tranquillo. Occhio che Curry è dei Golden State Warriors e la cosa ha un suo perché che sarà svelato dopo. Comunque Curry fa 16 e Beli è in finale. «Vai Marco», urla Tranquillo. Poi tace e aspetta. Tu aspetti con lui , fino a quando riapre la bocca e dice alla frase che resta: «È caldo come una stufa». Belinelli è a 16. «Ultimo carrello, punti doppi… Dentro… Dentro… e dentro anche l’ultimo. 24. È record di serata. Vince la gara dei tre punti un ragazzo italiano». Uomo partita extra calcio, per una volta. Uomo partita senza giocare una partita, peraltro.

«Golden State era l’unica squadra che non mi aveva provato nelle settimane precedenti. Io neanche sapevo dove fosse Golden State. Sapevo una cosa sola, che Oakland era una città pericolosa».

Per chi non ha visto la serata vale la pena darci un’occhiata. Perché chi ha cominciato a guardare le partite Nba quando gli italiani neanche potevano immaginare di arrivarci sa che avere un italiano tra i vincitori della gara da tre è pazzesco. Ed è ancora più pazzesco che l’abbia fatto lui, cioè quello che fino a un anno fa era considerato l’Italiano sbagliato, quello che sbagliava strada, quello che non ce l’aveva ancora fatta davvero. In Nba ci era arrivato l’anno dopo Andrea Bargnani e l’anno prima di Danilo Gallinari. Era il 2007, non una vita fa. Le telecamere si avvicinarono di corsa a lui quando stava per essere chiamata la diciottesima scelta assoluta. Due, tre, quattro, secondi: Mar-co Be-li-nel-li. Destinazione Golden State Warriors. Ecco, il perché. Curry che sbaglia l’ultimo carrello della notte di New Orleans è un risarcimento involontario contro un posto e una squadra che forse sono stati il principale motive del ritardo di Belinelli rispetto agli altri italiani. Lo scelsero in quel draft e non se l’aspettava neanche lui: «L’unica squadra che non mi aveva provato nelle settimane precedenti. Io neanche sapevo dove fosse Golden State. Sapevo una cosa sola, che Oakland era una città pericolosa. E in quel momento la prima cosa che mi venne in mente fu: ma dove andrò a finire in un posto che fa paura?».

In effetti era strana la storia. Aveva provato per un sacco di squadre, compresi i New York Knicks e Los Angeles Lakers. Subito dopo la selezione, quelli di Golden State spiegarono così la loro mossa: per noi meritavi una possibilità a prescindere, eri un giocatore da Nba anche senza metterti alla prova coi nostri. Uno avrebbe dovuto sentirsi gratificato e Marco lo era. L’avevano visto in quella partita che poi è stata per tanto tempo la migliore di sempre di Belinelli: Stati Uniti-Italia del Mondiale 2006. Marco all’epoca non aveva barba ed era magro, molto più di ora. Poco più di ottanta chili su un metro e novantasei («quando mi facevano un fallo allora faceva molto più male»), vent’anni compiuti da poco. Fece venticinque punti. A giugno scorso, quella partita e l’arrivo in Nba sono stati un pezzo importante dell’intervista che Beli ha fatto con Federico Buffa: «All’epoca di quel Stati Uniti-Italia tiravo ancora cadendo all’indietro». Nel primo tempo entrava tutto. Nel secondo fece una schiacciata in campo aperto in faccia alle stelle e al mondo intero. Buffa gli dice: «In quel momento penso che qualche sopracciglio dall’altra parte dell’Oceano si sia alzato». Ecco, probabilmente si alzò di più di tutti proprio quello di Don Nelson, il coach di Golden State. «Nella Summer League ho giocato bene e subito dopo ho percepito fiducia e attenzione. Mi dicevano e dicevano nelle interviste: Belinelli non è un rookie, è uno che ha già fatto diverse stagioni di Eurolega. È uno sul quale contiamo. Cominciata la stagione non ho più giocato, senza mai capire il perché». Se lo dimenticò, forse per pregiudizio, forse per disinteresse, forse boh.

La storia di Journeyman cominciò in una sera d’estate, mentre era in Europa, dopo la stagione da cancellare in Canada, Beli ricevette una chiamata del fratello: «Ti hanno scambiato con New Orleans». In viaggio, di nuovo. Un uomo-pacco postale.

Chissà se Don Nelson l’ha visto sabato sera, in Tv, sul suo divano. Lui non allena più da tre anni e mezzo, lo stesso periodo in cui Belinelli ha ballato sulla sua vita e sul parquet. È andata male, all’inizio. Perché  lo mandarono a Toronto, dove c’era già Bargnani. Una stagione inutile che Belinelli vorrebbe solo dimenticare. È stato allora che qualcuno ha pensato: l’abbiamo perso. «Nei momenti peggiori sui social vedevo la gente che mi diceva “torna in Italia”, “torna in Europa”. È stato uno dei motivi che mi hanno fatto rimanere, che mi hanno fatto pensare: io devo farcela». È cominciata la storia di Journeyman, come da ricostruzione fatta sul Foglio a settembre, mentre tutti parlavano di lui in Nazionale, quando l’Italia del basket ha ripreso a interessare qualcuno visto il buon Europeo fatto in Slovenia. Comunque la storia di Journeyman cominciò in una sera d’estate, mentre era in Europa, dopo la stagione da cancellare in Canada, Beli ricevette una chiamata del fratello: «Ti hanno scambiato con New Orleans». In viaggio, di nuovo. Un uomo-pacco postale. Notte di confusione, quella: contento per la possibilità di fuggire da Toronto, incazzato per dover cambiare di nuovo squadra per il terzo anno di fila, deluso per essere stato scambiato senza che nessuno avesse provato a insistere con lui. Il primo sentimento ha vinto sugli altri. New Orleans è stata la curva migliore della vita.

E qui a uno verrebbe da dire che sì, sabato era di nuovo lì, in Louisiana, dove quello che avrebbe dovuto lasciare l’America ha scoperto la sua America. Incroci strani e un sacco di altre banalità, tipo il destino, la coicindenza. E però diamine se è vero, basta fuggire dalla frase fatta e dire ciò che realmente accade: ci sono posti in cui ti trovi bene, per tante cose, perché ti piace la città, perché ti piace la casa in cui sei o l’albergo in cui alloggi, perché ti piacciono le persone, gli odori, la vita. Se ti trovi bene, giocherai meglio. Semplice. Ai tennisti succede sempre: perché in tanti ripetono le vittorie negli stessi tornei di anno in anno? Ferrer ha appena vinto il suo terzo torneo di Buenos Aires di seguito, Agassi vinse 6 volte a Key Biscaine e 5 a Washington, alcune delle quali di seguito, Nadal ha vinto 6 volte Roma e 8 Roland Garros. Nel 2007, al quinto Wimbledon vinto di fila da Federer gli chiesero se ci fosse una relazione tra il luogo e lui: «Io prendo sempre la stessa casa in affitto, credo che qui ci sia il clima ideale per giocare e mi sento come se giocassi nel circolo sotto casa. In queste condizioni è più facile giocare meglio e vincere». La divagazione spiega perché ci può essere una relazione tra la vittoria della gara da tre dell’All Star Game di Belinelli e il fatto di averla vinta a New Orleans dove ha cominciato a essere davvero un giocatore di Nba. Qualcosa che vada al di là dell’incrocio del destino. E c’è. Punto. Adesso vale la pena tornare a quei giorni in cui si trasferì in Louisiana senza sapere perché lì sarebbe cambiato tutto. Lo scoprì dopo, quando cominciò a giocare, quando sentì la mano di un compagno sul braccio e poi la sua voce: «Guarda che io ti passo la palla perché penso che tu possa fare canestro a ogni tiro».

La mano e la voce erano di Chris Paul. Per chi non lo conoscesse, è una specie di monumento vivente del basket americano e quindi mondiale. Uno la cui classe è unica, uno che non ha il fisico di LeBron, ma ha il cervello dei migliori di sempre. Una specie di sintesi tra Pirlo e Cruyff della pallacanestro. Era titolare in quella partita del Mondiale 2006 in cui Marco si presentò. A New Orleans disse al suo team e al suo allenatore: prendiamo quel Belinelli, è forte. Per questo quella frase sui passaggi e sui canestri. Succedeva che Marco, forse un po’ intimidito e un po’ frustrato dalle esperienze precedenti, in allenamento era un po’ restio a tirare. Paul lo tranquillizzò. Ho fiducia in te. Quanto vale una cosa così? Più di un posto da titolare fisso. Perché quello diventa una conseguenza. Belinelli diventò il sesto uomo di un quintetto forte, che si prese i playoff. Journeyman per la prima volta s’è fermato due anni nello stesso posto in America. E mentre Bargnani e Gallinari hanno cominciato a entrare nelle curve della loro carriera, lui s’è messo su un rettilineo. L’anno dopo, non per compensare una stagione così e così, ma per andare avanti. Perché Chicago e i Bulls sono un passo in più rispetto ai New Orleans Hornets. Non sono i tori di Jordan, ovvio. Ma sono la storia del basket e dell’Nba degli ultimi due decenni. Beli è partito ancora, per giocare, per entrare in un progetto. Troppi non se ne sono accorti, però. Concentrati sempre sul Mago e su Gallo. Come se Marco fosse il meno italiano degli italiani. A Chicago è funzionato tutto. C’è stata una partita che ha avuto lo stesso effetto di Italia-Usa del 2006. È stata quella contro i Brooklyn Nets, nella bella del primo turno dei playoff della stagione scorsa: mai visto un italiano che è il miglior giocatore di una partita così importante, mai visto un italiano essere decisivo, fondamentale, unico. Ventiquattro punti alla fine del match.

La vittoria di quella partita ha significato un record passato sotto silenzio o quasi: l’unico italiano ad aver mai superato il primo turno dei playoff Nba. Dice: «Il segreto di tutto è stato l’allenamento sulla mano sinistra. Ora faccio cose che prima non potevo fare».  Per esempio arrivare a San Antonio, nella squadra più internazionale d’America che l’anno scorso ha trascinato i Miami Heat a gara 7 delle finali Nba arrivando a tanto così da vincere. «L’hanno persa loro, gli Spurs, non l’hanno vinta gli Heat», ha detto Belinelli in una recente intervista a GQ. Altro esempio: prima non avrebbe potuto neanche partecipare alla gara dei tre punti in un All Star game. Adesso ci è arrivato, ha partecipato, ha vinto. Caldo come una stufa, facendo una media superiore a quella che fa in campionato. Perché è quello che succede quando sei te stesso.