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L’insostenibile pesantezza di Godzilla

Atteso come il film che avrebbe rilanciato uno dei mostri più popolari della storia del cinema, la pellicola di Gareth Edwards con Bryan Cranston e Juliette Binoche in realtà è una gigantesca delusione.

di Laura Spini

La prima proiezione del mattino all’IMAX è una gioia, perché è piena di fan scatenati e offre sempre una pletora di momenti goliardici. Alle 5:45, prima della proiezione de Il cavaliere oscuro: il ritorno, una fila intera faceva la voce di Batman. Durante Gravity un tale, seduto da solo, si è spaventato e ha gridato.

Questa volta, a luci spente e pubblico zitto, una voce ha cominciato a intonare la sigla del cartone di Godzilla.

Pochi minuti più tardi, mi scontravo contro il muro della realizzazione che l’hype accumulato dal mio cervello nel corso di un anno – un anno – di vita si stava sgretolando come un grattacielo sotto il peso di questa creatura gigantesca che è il film Godzilla. La prima parte di Godzilla infatti, quella che comincia poco dopo titoli di coda realizzati alla perfezione, è assolutamente trascurabile. Questa è l’ammissione cinematografica più dolorosa del 2014.

È la prima volta che Gareth Edwards dirige un film tanto grosso: Edwards, così come il suo compagno di destino Neill Blomkamp (Distretto 9) proviene da un retroterra tecnico, essendosi formato come esperto di effetti visivi. Nel 2010, quasi senza scomodare nessuno, mette insieme un gruppo di amici e realizza un film in cui praticamente fa tutto lui (dirige, riprende, si occupa delle scenografie, degli storyboard, degli effetti visivi). Quando ne parla, Gareth Edwards ne parla in maniera non sentimentale: «Con tutta la competizione che c’è, non credevo che mi sarebbe stata data l’opportunità di fare un film, perciò ho provato con qualcosa che potessi realizzare con i miei mezzi, a basso costo». Il film si intitola Monsters, è una freschissima ed economicissima alternativa alla fantascienza ad alto budget, stupisce tutti, incluse le grasse eminenze dell’industria cinematografica, che sollevano le sopracciglia e dicono «Date del pane a questo ragazzo!» Il pane arriva nella forma di centosessanta milioni di dollari e Godzilla per la Legendary Pictures.

Edwards era preparato per il salto, tutti lo avevano salutato come il regista di effetti visivi più preparato tra i suoi contemporanei, e i risultati lo dimostrano. Come non bastasse, aveva con sé il cast più sorprendente che si potesse auspicare.

Edwards era preparato per il salto, tutti lo avevano salutato come il regista di effetti visivi più preparato tra i suoi contemporanei, e i risultati lo dimostrano. Come non bastasse, aveva con sé il cast più sorprendente che si potesse auspicare: Heisenberg, quella tale che c’era in giusto qualche film di Kieslowski, Kick-Ass, la Olsen da cineforum, la ninfa minore di Woody Allen, e Ken Watanabe che osserva cose moderatamente confuso. Rimescolate questi nomi in qualsiasi ordine vogliate, e otterrete 200 idee per film d’essai. Soltanto Godzilla, e soltanto questo Godzilla, poteva unirli in un disaster movie. (Sulla definizione torniamo dopo).

La prima metà del film si consuma nell’attesa divorante che Godzilla – la creatura – arrivi. “Aspettando Godzilla.” Poco dopo, però, il kaiju si manifesta in un maestoso ventaglio di scaglie antichissime. Sia chiaro, nessuno dei mostri del film è gigantesco come i mostri di Pacific Rim; in un certo senso, Pacific Rim ha rovinato la strada a tutto ciò che verrà perché, a livello di grandezze fisiche,

Pacific Rim : Godzilla = un’imponente sequoia : aiuola.

I paragoni con Pacific Rim sembrano inevitabili perché anche Godzilla si concentra enormemente sulla storia dei propri personaggi.

Il peccato più grave di Godzilla, però, è l’umanità che ne fa parte. Dove Guillermo del Toro aveva intenzionalmente fatto un “film per famiglie”, con siparietti comici a volte estenuanti, il Godzilla scritto da Max Borenstein (uno degli sceneggiatori più amati della black list) è un film primariamente diretto al pubblico adulto. Ma i suoi personaggi sono personaggi ritagliati male dalla rivista dei disaster movie standardizzati, e la struttura che ne consegue è di una semplicità disarmante: all’inizio del film assistiamo non a uno, bensì a due quadretti familiari che ci espongono scolasticamente i tratti dei protagonisti. Sono questi spiragli nella loro vita privata a renderci i personaggi tridimensionali? Non del tutto. Parte del pubblico invocava il nuovo Godzilla per poter rimuovere dalla propria memoria il capitolo del film di Emmerich del 1998 eppure, nella genericità dei personaggi, i due film sono molto più simili di quanto sembri. La verità è che nessuna delle scene con gli umani di Godzilla rimarrà impressa nell’immaginario quanto la scena dei ricordi di Mako in Pacific Rim.

Il pubblico invocava il nuovo Godzilla per poter rimuovere dalla propria memoria il capitolo del film di Emmerich del 1998 eppure, nella genericità dei personaggi, i due film sono molto più simili di quanto sembri.

Va da sé: uno non va a vedere un film con Godzilla per gli umani. Ma allora perché gli umani sono sullo schermo così a lungo? Perché qualcuno li ha presi così tanto sul serio? Perché tutti urlano i propri sentimenti nei momenti di pathos? Lo avevo capito, che era un momento di pathos, non c’è bisogno di dirmi “ti amo”. Un aspetto che fa infuriare, dell’uso degli umani, è che Edwards ha avuto l’opportunità di lavorare con tre delle attrici più interessanti di tre diverse generazioni di attrici esemplari, ed è riuscito, ciononostante, a relegarle al ruolo di femmina ininfluente dei film d’azione, la molle Beatrice che motiva il protagonista ad andare avanti, o che assiste lo scienziato asiatico che osserva un sacco. (Da notare: l’unica donna con un ruolo attivo, nel film, è il kaiju antagonista.)

Se si rimuovono le protagoniste femminili, del film non cambia niente. È altrettanto vero, però, che se si rimuovono tutti i protagonisti, del film non cambia niente. Quando Godzilla segue il suo corso da disaster movie, i suoi protagonisti lo debilitano. Quando lascia spazio alle creature più alte di metri 2 e diventa un monster movie, è una gioia, un tripudio di dettagli e cose che cadono, un’incredibile sequenza di enorme sapienza cinematografica, mosse inaspettate e talvolta semierotiche.

In molti sostengono che Monsters, con tutti i suoi evidenti pregi, a livello di scrittura non fosse esattamente Quarto Potere.

Nel caso di Godzilla, non è colpa di Gareth Edwards. La sua impressionante abilità gestionale è indubbia: le scene di tensione (quella che tra pochi giorni verrà riassunta come “la scena del treno”, in primo luogo) sono gestite abilmente, i contrappunti comici sono rari ma non mancano, e soprattutto regista e montatore si sono messi d’accordo per ottenere moltitudini di secondi in cui Ken Watanabe osserva il niente, e questo non è che un merito. La maestria di Edwards si manifesta al meglio nelle scene di insieme, quando tutto crolla e lo spettatore è al sicuro e al caldo, avvolto dalla sensazione che Edwards sappia dove qualsiasi pezzo debba cadere.

Arriverà, però, a Hollywood, il momento in cui si decida che – anche nel caso di un film al di sopra dei cento milioni di budget – lo spettatore non è necessariamente un imbecille, ed è in grado di ricevere segnali sottili sulle relazioni interpersonali dei protagonisti di un film, senza che gli vengano forzate in faccia con un rastrello, nella più noiosa delle routine?

Fino a quel momento, le sequenze di mostri che si scazzottano sono sufficienti, se ben fatte.

 

Nell’immagine: una locandina di Godzilla, King of the Monsters!, produzione giapponese-americana del 1956.