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Libia e ISIS: facciamo chiarezza

La situazione in Libia, un paese diviso, come l'Isis ha saputo sfruttare i gruppi armati presenti sul suo territorio, che interessi in ballo ha l'Italia, cosa c'entra (e cosa vuole) l'Egitto. Capire cosa succede a Tripoli al di là dei preconcetti.

di Matteo Colombo

Conflitto tribale, politico, ideologico. Campo di battaglia tra grandi potenze, terreno di scontro tra milizie cittadine, ennesimo fronte di guerra tra le armate del sedicente Stato Islamico e i loro nemici. Non esiste un solo modo per spiegare la situazione libica ma è necessario districarsi tra vendette, alleanze, tradimenti e rivalità locali che i grandi attori internazionali hanno provato a sfruttare a loro vantaggio. È proprio in questo complicato contesto che Isis ha unito alcuni gruppi jihadisti locali sotto l’insegna della guerra santa globale, creando un piccolo emirato nella città di Derna e in alcuni quartieri di Sirte.

 

Qual è la situazione sul campo?

Dalla caduta di Gheddafi non esiste un vero e proprio apparato statale e ciò che resta dell’esercito libico non riesce ad ottenere il monopolio della forza. Il potere centrale è perciò affidato ai gruppi armati legati ai capi tribali e ai consigli cittadini per controllare il territorio. Alcune di queste milizie hanno riconosciuto l’autorità del governo soltanto per opportunità economica o politica e di conseguenza non sono mancati gli scontri violenti per mantenere il controllo di alcuni punti strategici del paese o sottrarli ai gruppi rivali.

Nel giugno 2014 le elezioni erano state vinte dai partiti laici, ma già a novembre la Corte suprema ha sciolto il Parlamento. Il pretesto è stato trovato nella Costituzione provvisoria, che prevede l’obbligo per la Camera dei rappresentanti di riunirsi a Tripoli. Diverse milizie vicine ai Fratelli Musulmani, sostenute da Qatar e Turchia, avevano intanto preso possesso della città e giurato fedeltà al Congresso nazionale, un’assemblea a maggioranza islamista formalmente decaduta dopo il voto del giugno 2014, impedendo ai deputati legittimamente eletti di riunirsi nella capitale e facendo pressioni per l’annullamento del voto. I gruppi berberi delle montagne al confine con la Tunisia e le tribù dell’ovest si erano invece opposti alla decisione di sciogliere il Parlamento, che da settembre si riunisce a bordo di una nave greca ormeggiata nel porto di Tobruk.

 

Come ha fatto l’Isis ad arrivare in Libia?

L’ espansione dello Stato islamico in Libia non è legata a un’effettiva conquista territoriale, ma si spiega con la sua abilità nel reclutare nuovi membri all’interno delle formazioni radicali già presenti sul territorio, come Ansar-al-Sharia. Quest’ultimo gruppo conterebbe diverse migliaia (forse diecimila) combattenti ed è la forza jihadista più numerosa tra quelle presenti nel paese. Quando si parla di Isis si fa perciò spesso riferimento a brigate locali che scelgono di giurare fedeltà (bai’a) al Califfato in cambio della legittimazione globale di un jihad che ha spesso obiettivi soltanto locali.

A questi gruppi bisogna poi aggiungere circa 300 miliziani che hanno raggiunto la città di Derna nello scorso autunno, dopo avere combattuto in Siria e Iraq. Questa brigata ha fatto da mediatrice tra i jihadisti di Ansar-al-Shari’a e il Califfo al-Baghdadi per aggregare questa provincia (willaya) al territorio dello Stato islamico. Un processo analogo sarebbe in corso anche a Sirte, dove le milizie che hanno giurato fedeltà all’Isis controllano alcuni quartieri della città e combattono gli islamisti legati al Parlamento di Tripoli. La situazione è ancora molto fluida, ma nel novembre scorso si stimava che i combattenti fedeli al Califfato fossero all’incirca 800, anche se è probabile che questo numero sia cresciuto nelle ultime settimane. È una cifra abbastanza contenuta, ma bisogna considerare che, in un contesto di assenza dell’autorità statale come quello libico, bastano poche centinaia di uomini per controllare vaste aree di territorio.

 

Cosa c’entra l’Egitto?

Il Cairo considera «terroristi» sia gli islamisti che occupano Tripoli che i jihadisti di Ansar al-Sharia e Isis. In realtà i problemi principali di al-Sisi restano sia la Fratellanza Musulmana che i gruppi formati da ex seguaci di questa organizzazione, pronti ad utilizzare la zona libica di confine con l’Egitto per combattere l’esercito egiziano e sfuggire alla repressione governativa. Per questa ragione il governo egiziano aveva bombardato nei mesi scorsi alcune postazioni dei gruppi che si oppongono al Parlamento di Tobruk, senza fare troppe distinzioni tra le diverse fazioni islamiste e jihadiste. Dal punto di vista del governo egiziano la possibilità di ottenere l’avvallo internazionale a un’operazione militare rappresenta perciò un’ottima opportunità per chiudere i conti con i Fratelli Musulmani legati all’assemblea di Tripoli e impedire ai gruppi radicali presenti in Libia di minacciare la sicurezza dell’Egitto.

Dal punto di vista del governo egiziano la possibilità di ottenere l’avvallo internazionale a un’operazione militare rappresenta un’ottima opportunità per chiudere i conti con i Fratelli Musulmani legati all’assemblea di Tripoli.

Nel contempo anche Isis vuole provocare un intervento di terra egiziano o internazionale sotto la guida dell’Onu per ragioni di interesse politico e fanatismo religioso. Tale azione militare metterebbe sullo stesso piano islamisti e jihadisti, creando una momentanea unità all’interno di due galassie che condividono l’obiettivo di creare uno Stato basato sulla shari’a, ma si dividono sul sistema di governo (Democrazia Islamica, Califfato) e sulla strategia per raggiungere questo risultato (elezioni, jihad). Inoltre i miliziani dello Stato islamico ritengono  che l’intervento delle potenze straniere sia la realizzazione di una profezia su un’armata di nemici dell’Islam «riuniti sotto 80 insegne» che affronterà prima dell’apocalisse l’esercito dei musulmani. I jihadisti dello Stato islamico sono convinti di essere i protagonisti di questa rivelazione, contenuta in un hadith, e vogliono perciò causare una guerra globale condotta da 80 stati, che secondo la loro interpretazione si concluderà con la vittoria dell’Isis in una grande battaglia nei pressi del villaggio siriano di Dabiq.

 

Cosa preoccupa veramente l’Italia?

Per il nostro paese il  problema libico è soprattutto una questione economica. Nel 2013 circa il 21% del petrolio importato dall’Italia proveniva dalla Libia. La guerra civile ha portato a una divisione dei giacimenti tra i territori controllati dalle milizie fedeli al Congresso nazionale di Tripoli, dove si trovano i maggiori pozzi di petrolio, e quelli sotto la giurisdizione della Camera dei rappresentanti di Tobruk. Particolarmente importante è il porto di Melitah, da dove parte il gasdotto diretto a Gela. Da dicembre questo impianto è sotto attacco delle milizie berbere di Zintan, che cercano di sottrarlo ai gruppi islamisti fedeli all’assemblea di Tripoli. L’avanzata dell’Isis rischia invece di compromettere il passaggio dei rifornimenti energetici provenienti dalla Cirenaica.

Per quanto riguarda la minaccia alla sicurezza, il rischio principale non è tanto l’ingresso di jihadisti attraverso le rotte dell’immigrazione clandestina, ma la possibilità che la Libia diventi uno “Stato fallito” come la Somalia, e che tale situazione di caos possa addirittura portare a isolati episodi di pirateria contro navi mercantili nel Mediterraneo nel medio-lungo termine. È un’eventualità ancora remota, che potrebbe essere scongiurata grazie a un occupazione militare dei porti libici controllati dall’Isis. Tuttavia la presenza di truppe italiane in questo territorio sarebbe molto pericolosa senza un accordo tra la fazione fedele alla Camera dei rappresentanti di Tobruk, riconosciuta internazionalmente e alleata di Egitto ed Emirati arabi uniti, e il Congresso nazionale di Tripoli. Per questa ragione non basta attaccare i jihadisti, ma serve un’azione diplomatica più ampia per stabilizzare questo paese e rafforzare le sue istituzioni.

 

Quali sono le possibili soluzioni?

Come è possibile vedere da questi dati il supporto per l’Isis nel mondo arabo è abbastanza basso, ma questo gruppo è stato comunque capace di guadagnare territori e consensi nei principali contesti di guerra in Nord Africa e Medio oriente. La ragione è semplice: i miliziani dello  Stato Islamico garantiscono ai sunniti che li supportano sicurezza e protezione e ciò basta per convincere chi rischia ogni giorno di essere ucciso da una qualche milizia armata. Bisogna perciò agire sulle cause della guerra civile libica per sconfiggere il Califfato, puntando ad  una riconciliazione tra i gruppi che si combattono.

I miliziani dello  Stato Islamico garantiscono ai sunniti che li supportano sicurezza e protezione e ciò basta per convincere chi rischia ogni giorno di essere ucciso da una qualche milizia armata.

I sostenitori dell’Isis non hanno particolare simpatia per i Fratelli Musulmani, che considerano troppo prudenti e inclini ad accettare le innovazioni religiose (bid’a) all’interno della loro ideologia. Questo gruppo è perciò incluso nella lunga lista dei nemici del vero Islam, al pari delle milizie fedeli al Congresso dei rappresentanti di Tobruk. La soluzione al conflitto libico non potrà perciò che passare dal coinvolgimento politico e da un profondo cambiamento interno a questa organizzazione, che ancora difende un modello di Stato islamico caratterizzato da tratti autoritari. Un esempio positivo arriva dalla vicina Tunisia, dove il partito laico di maggioranza ha accettato di creare un governo di coalizione con il principale gruppo islamista (al-Nahda) in cambio del riconoscimento di una Costituzione sostanzialmente laica e di un sistema di alternanza al potere fondato sulle elezioni democratiche.
 

Nelle immagini: migranti libici arrivati a Lampedusa (Tullio Puglia/Getty Images) e, in evidenza, un frame di un video rilasciato dallo Stato islamico.